Cercate degli esercizi da implementare nelle vostre routine di allenamento per eseguire un riscaldamento ben fatto o lavorare sulla mobilità? Allora avete trovato l’articolo giusto! Quelli che seguono sono degli esercizi da eseguire all’inizio della seduta di lavoro, considerabili come un riscaldamento o dello stretching dinamico. Alcuni di questi, eventualmente, possono anche essere svolti in sessioni a parte.
Buona lettura!
Introduzione
Il riscaldamento è quell’attività che introduce al compito motorio cardine dell’allenamento vero e proprio. E’ un elemento importantissimo per prevenire gli infortuni, innalza la frequenza cardiaca, aumenta la temperatura corporea, migliora la risposta dell’apparato cardiovascolare a sfrozi intensi, ottimizza l’utilizzo di substrati energetici rilasciando glucosio nel circolo sanguigno, e così via. Lo stretching possiamo invece definirlo come quell’insieme di tecniche volte ad aumentare la flessibilità di un individuo, tenendo a mente che la flessibilità è l’insieme della mobilità articolare e dell’estensibilità dei muscoli.
Qui di seguito i nomi e le illustrazioni di alcuni esercizi consigliati. Per comodità i nomi sono in inglese, in certi contesti è più comodo ricorre a dei termini più internazionali in modo da non creare confusione (le immagini sono prese da qui).
Fire hydrant
Hip circle
Scorpion
Lateral leg reach
Cat-Cow
Bird dog
Straight-leg series
Side-lying abduction
Side-lying adduction
Supine hip rotation
Supine hip bridge
Ankle rockers
Air squat
Toe grab
Trunk rotation
Flexed trunk rotation
Bent-over scapularretraction
Bent-over T
Bent-over 90-90
Knee hug
Straight-leg march
Tall side slide
Carioca
Skip
Lateral skip
Backward skip
Ovviamente questi sono solo alcuni dei mille esercizi pre-atletici che si possono inserire all’inizio delle proprie routine di allenamento, includere tutti quelli esistenti richiederebbe un’enciclopedia.
Esempio pratico
Qui di seguito l’esempio di una routine di allenamento contenente alcuni degli esercizi riportati nel precedente paragrafo. Sbizzarriamoci.
Prima dell’inizio di una seduta di strength & conditioning (esempio 1).
Esercizio
Ripetizioni, tempoo distanza
Jump rope
3×3′
Skip
3×20-30 m
Carioca
2×20-30 m
Backward skip
3×20-30 m
Knee hug
5-10 (a gamba)
Straight-leg march
5-10 (a gamba)
Supine hip rotation
5-10 (a gamba)
Toe grab
10
Cat-cow
10-20
Trunk rotation
10 (a lato)
Flexed trunk rotation
10 (a lato)
Bent-over T
10
Warm up specifico
Prima dell’inizio di una seduta di strength & conditioning (esempio 2).
Esercizio
Ripetizioni, tempoo distanza
Corsa lenta
5-10′
Skip
3×20-30 m
Tall side slide
2×20-30 m
Backward skip
3×20-30 m
Knee hug
5-10 (a gamba)
Straight-leg march
5-10 (a gamba)
Supine hip bridge
10
Air squat
10
Flexed trunk rotation
10 (a lato)
Cat-cow
10-20
Bent-over scapular retraction
10
Bent-over 90-90
10
Warm up specifico
Quel “warm up specifico” sul finale, sta a significare che dopo un riscaldamento generale si passa ad uno più simile a quel che poi dev’essere fatto nella parte centrale dell’allenamento vero e proprio. La seduta è incentrata sulla corsa veloce? Allora, dopo il warm up generico, si fanno degli sprint di moderata intensità e/o degli allunghi sui 60-100 metri. Oppure il workout riguarda l’allenamento della forza tramite la panca piana e lo squat? Allora la ricetta consigliata da seguire è warm up generale + panca piana con bilanciere scarico e/o carichi molto leggeri (stessa cosa per lo squat).
Ennesimo articolo sugli sport da combattimento, questa volta il topic è quello dello sviluppo di forza speciale per sport lottatori come la lotta stessa – sia libera che greco-romana – o il grappling, le arti marziali miste e così via. Il tutto parte da uno spunto arrivato tramite l’account IG di un preparatore atletico russo. Per questa esercitazione basta un wrestling dummy (il sacco-omino nero) ed un partner di allenamento, ma prima occorre fare un passo indietro mettendo alcuni puntini doverosi sulle i.
Una definizione
La forza massimale rappresenta il più alto grado di forza che il sistema neuromuscolare ha la possibilità di esprimere in una massima contrazione volontaria, mentre la forza speciale indica «la forma di manifestazione della forza tipica di un determinato sport o il suo correlato muscolare specifico (cioè, i gruppi muscolari che partecipano ad un determinato movimento sportivo)».1 A seconda della velocità e del movimento generato esistono più classificazioni, ma al momento non ci occorre approfondirle.
Dalla teoria alla pratica
Ora vi invitiamo a guardare il breve video riportato qui sotto.
Partendo dal presupposto che è necessario uno schema motorio ben consolidato prima di sottoporsi ad allenamenti di forza speciale, quanto mostrato in video non è nulla di particolarmente innovativo o bizzarro. L’esercizio è quello del gut wrench, una proiezione utile a controllare, fare punti e dominare un avversario in gara. Il fighter tenta di eseguire dei gut wrench vincendo la resistenza esercitata da una seconda persona, il tutto per un determinato quantitativo di tempo. Esercitazioni simili hanno il pregio di poter rendere più intensi (zavorrare) esercizi specifici, facenti quindi parte dello sport in sé, ma senza alterare più di tanto la tecnica e la biomeccanica del gesto.
Un esempio
Andando più nel concreto quello che segue è un modo per allenare la forza massimale speciale con il buon vecchio metodo a contrasto che avevamo già trattato qui e qui (entrambe letture consigliate).
Per allenarsi bene non servono routine di allenamento particolarmente complicate o macchinari costosi. Relativamente pochi esercizi, ben eseguiti e collocati in un programma di allenamento intelligente, adeguatamente periodizzato. Se siete alla ricerca di ulteriori approfondimenti potete visitare la nostra sezione inerente la preparazione atletica, oppure farvi seguire per un prezzo onesto.
Ne avete mai sentito parlare? No?! Allora siete nel posto giusto.
Definizione
Con tripla estensione (triple extension) si intende la contemporanea estensione degli arti inferiori, che obbligatoriamente passa per tre articolazioni: caviglia, ginocchio ed anca. Per capire quale movimento possa o meno riguardare questo “meccanismo”, è sufficiente tracciare un paio di linee e misurare un angolo. Vediamo rapidamente come.
Comprendere il meccanismo
Osserva un atleta di profilo, possibilmente fermo (può anche andar bene uno scheletro), e traccia due linee. La prima deve partire dalla caviglia e andare all’anca, la seconda deve originare dal ginocchio per giungere anch’essa all’anca (ovviamente vale anche il passaggio opposto: dall’anca alla caviglia e al ginocchio).
Dalla teoria alla pratica
Sotto, una rappresentazione del Dott. Formicola (modificata) di quanto appena detto, riferita allo squat ed allo stacco da terra (più alcune loro varianti).
In ordine, da sinistra a destra: squat low bar, squat high bar, front squat, overhead squat, stacco regular, stacco con trap bar e stacco sumo. Come si può osservare nell’imagine, più un movimento richiede profondità di accosciata e più l’angolo generato dall’incrociarsi delle linee è ampio. Una flessione che genera un angolo molto ampio abbisognerà successivamente, per portare l’esercizio a concludersi, di una tripla estensione notevole. Semplificando molto, più l’angolo derivante dalle due linee è grande e più un allenatore/preparatore può capire se un determinato esercizio sia indicato o meno per potenziare la spinta verticale prodotta dagli arti inferiori attraverso la fisiologica estensione delle tre articolazioni (caviglia, ginocchio, anca).
La tripla estensione si ha in molti esercizi tipici del fitness, durante la corsa, i salti, quando ci alziamo in piedi da seduti, e così via. La chiave sta tutta nel mettere a fuoco le richieste biomotorie di un dato sport e poi decidere come procedere con la scelta degli esercizi, tenendo a mente che la presenza di uno squat non esclude necessariamente quella di uno stacco o di esercizi pliometrici. Mr. Pinco Pallino è un centometrista? Allora dovrà lavorare sulla tripla estensione! Prima ad angoli più aspecifici (full squat), poi più simili a gesto di gara (mezzo squat). Mr. Pinco Pallino ha poi un caro amico che pratica MMA? Allora anche quest’ultimo, in una fase più aspecifica, dovrà lavorare con esercizi in grado di fare estendere (o distendere) per bene gli arti inferiori tramite le solite tre articolazioni chiamate in causa. Nota a margine: nelle MMA, come un po’ in tutti gli sport da combattimento con fasi lottatorie, oltre che la spinta verticale (verso l’alto) conta molto, se non di più, quella sul piano orizzontale e quindi verso avanti (double leg, single leg, molte proiezioni da body lock). Pertanto è consigliabile dedicarsi anche a “spinte orizzontali” come balzi verso avanti o sled push.
Mentre gli esercizi per l’upper body, ossia la parte superiore del corpo, generalmente vengono suddivisi in due categorie: esercizi di spinta e di trazione/tirata (potremmo poi disquisire sulla legittimità di tale semplificazione, in anatomia si studia che in realtà i muscoli trazionano le ossa), per le gambe si parla di esercizi anca-dipendenti e ginocchio-dipendenti. Nei primi il grosso della flesso-estensione richiesta da un determinato movimento è principalmente a carico dell’articolazione dell’anca, nei secondi delle ginocchia. Molti tecnici dello sport vi diranno che lo stacco da terra è un esercizio anca-dipendente e invece lo squat è ginocchio-dipendente. In realtà ogni esercizio ha un mix di entrambe le cose, pertanto anche questa categorizzazione pare essere figlia di una visione un po’ semplicistica del movimento umano. Definizione per definizione, teoria per teoria, forse è auspicabile anteporre a ciò la valutazione dell’estensione sinergica delle tre articolazioni degli arti inferiori (triple extension). Solo se la tripla estensione è efficiente potrà esserci un’ottima propulsione eseguita dagli arti inferiori (la TP serve a “spingere” verso avanti).
Conclusioni
Studi, dati alla mano, hanno suggerito come un allenamento specifico finalizzato a potenziare l’estensione simultanea delle articolazioni degli arti inferiori sia indicato per incrementare la capacità di salto verso l’alto (vertical jump)1, fin qui nulla di nuovo. Inoltre, Loturco e colleghi (2016) hanno notato un effetto positivo dello Squat Jump le cui caratteristiche meccaniche: «which closely resemble the “segmental triple extension” elicited during the sprinting strides»2, sugli sprint effettuati su distanze di 5 e 30 metri. Normalmente si parla di tripla estensione durante la corsa, le alzate olimpiche3 e lo squat. Riguardo quest’ultimo, i soggetti con una più efficiente tripla estensione si sono dimostrati essere degli “squattatori” sopra la media (l’accosciata sembra essere ottima per valutare la TE di un atleta)4. Sempre riguardo questo esercizio: «La salita si ottiene principalmente attraverso la tripla estensione di anche, ginocchia e caviglie, continuando fino a quando il soggetto non è tornato alla posizione iniziale estesa. I muscoli posteriori del tronco, in particolare gli erettori spinali, vengono reclutati tramite l’azione muscolare isometrica per sostenere una postura eretta durante l’intero movimento di squat. Inoltre, i muscoli posteriori del tronco sono assistiti dai muscoli addominali anteriori e laterali per irrigidire ulteriormente il busto creando tensione per la parete addominale»5.
Tirando le somme, scegliete bene quali esercizi fare ed eseguiteli correttamente. Con pazienza e dedizione arriveranno i risultati. Tenendo a mente che, come sempre, periodizzare saggiamente variando gli stimoli allenanti è la miglior cosa da fare per ottenere risultati sul lungo periodo.
1 Eunwook Chang, Marc F Norcross, Sam T Johnson, Taichi Kitagawa, Mark Hoffman – Relationships between explosive and maximal triple extensor muscle performance and vertical jump height. J Strength Cond Res. 2015 Feb;29(2):545-51 2 Irineu Loturco, Lucas Adriano Pereira, Ronaldo Kobal, Thiago Maldonado, Alessandro Fromer Piazzi, Altamiro Bottino, Katia Kitamura, Cesar Cavinato Cal Abad, Miguel de Arruda, Fabio Yuzo Nakamura – Improving Sprint Performance in Soccer: Effectiveness of Jump Squat and Olympic Push Press Exercises. PLoS ONE 11 (4): e0153958 3 Timothy J Suchomel, Paul Comfort, Michael H Stone – Weightlifting pulling derivatives: rationale for implementation and application. Sports Med. 2015 Jun;45(6):823-39 4 Robert J Butler, Phillip J Plisky, Corey Southers, Christopher Scoma, Kyle B Kiesel – Biomechanical analysis of the different classifications of the Functional Movement Screen deep squat test. Sports Biomech. 2010 Nov;9(4):270-9 5 Gregory D. Myer, Adam M. Kushner, Jensen L. Brent, Brad J. Schoenfeld, Jason Hugentobler, Rhodri S. Lloyd, Al Vermeil, Donald A. Chu, Jason Harbin, and Stuart M. McGill – The back squat: A proposed assessment of functional deficits and technical factors that limit performance. Strength Cond J. 2014 December 1; 36(6): 4–27 Corebo Lite – La tripla estensione nello squat e caso studio (2020, link) The Myth of Triple Extension (simplifaster.com)
Il mal di schiena, patologia estremamente comune, è qualcosa di parecchio studiato in letteratura scientifica. Vediamo cosa dicono i più recenti studi.
Buona lettura!
Introduzione
Con la celebre dicitura “low back pain” (LBP) si intende la lombalgia comune, quella che colpisce la bassa schiena delle persone. Questa patologia consiste in un dolore persistente, spesso accompagnato da limitazioni funzionali più eventuali strascichi psicologici.
Ogni anno il low back pain colpisce molti adulti in età lavorativa1, basti pensare che negli USA è il disturbo muscolo-scheletrico più comune riscontrato negli accessi al pronto soccorso2 e nel 1998 è stato stimato i costi sanitari legati ad esso siano stati di circa 90 miliardi di dollari2. Secondo l’OMS, circa l’80% delle persone soffre almeno una volta nella vita di mal di schiena3.
Come vedremo più avanti, ci sono prove abbastanza solide circa l’utilità del movimento e di un corretto stile di vita per la prevenzione del mal di schiena.
Basi di anatomia e fisiologia articolare
Come già spiegato in passato, la colonna vertebrale è una complessa ed estesa struttura osteofibrocartilaginosa. va dal capo al coccige. Ha una lunghezza media di 70 cm per gli uomini e di 60 cm per le donne, consta di cinque regioni le quali hanno un numero variabile di vertebre (solitamente 33).
Regione cervicale: consta di sette vertebre (C1,2,3,4,5,6,7), le prime due, più famose, sono l’atlas (C1) e l’axis (C2). La regione cervicale regge la testa e permette al collo una grande escursione articolare.
Regione dorsale(o toracica): è formata da dodici vertebre (T1-12), è la regione più ampia di tutta la colonna vertebrale, inoltre, unendosi alle costole forma la cassa toracica. Questo tratto possiede una rigidità elevata per evitare movimenti, specialmente flessioni, troppo bruschi e pericolosi.
Regione lombare: composta da cinque vertebre (L1-5), la sua struttura è particolarmente robusta e mobile.
Regione sacrale: consiste in un unico osso composto dalla fusione di cinque vertebre.
Regione coccigea: osso formato dalla fusione di quattro-cinque vertebre.
Le principale funzioni della colonna vertebrale sono le seguenti: sostegno strutturale, supporto e protezione del sistema nervoso centrale e periferico, stabilità e protezione degli organi interni; le vertebre sono connesse mediante un disco fibrocartilaginoso, forte ed elastico, il quale fa da ammortizzatore e permette un certo movimento. Questo disco è chiamato disco intervertebrale.
Prima di concludere il paragrafo è d’obbligo focalizzarsi un attimo sulle “curvature” della colonna. Se osservata lateralmente, saltano all’occhio le due convessità posteriori, dette cifosi e le due convessità anteriori: le lordosi. Rientrano nel primo gruppo la zona toracica e sacrale, sono invece delle lordosi la zona cervicale e quella lombare.
Questa alternanza di curve, fa sì che la colonna vertebrale sia piuttosto mobile e resistente, garantendo l’equilibrio in posizione eretta. Le lordosi permettono gradi di movimento molto maggiori rispetto alle cifosi, specialmente la regione lombare, la quale ha una curvatura un po’ più marcata. Nella figura sopra, si può osservare come un curvatura eccessiva (iperlordosi, ipercifosi) anche di una sola regione, alteri inevitabilmente anche gli altri tratti della colonna (linea gialla).
Mal di schiena: tassonomia
Esistono due macrocategorie di mal di schiena: quello aspecifico (non-specific low back pain) e quello specifico (specific low back pain)5. L’aspecifico non è attribuito ad una precisa e dimostrabile causa patologica23, discorso diverso per quello specifico che a seconda della causa a cui è riconducibile (e dei sintomi) può rientrare nella sfera di competenze di diversi specialisti19.
Nonostante le raccomandazioni delle linee guida, non è possibile identificare una causa patoanatomica specifica del dolore nella maggior parte dei pazienti e solitamente si ricerca una causa strutturale del LBP e la si studia utilizzando la diagnostica per immagini. […] Fortunatamente, la maggior parte dei fattori di rischio del LBP sono modificabili.
Zaina F. et al, 2020
È inoltre nota a livello internazionale un’altra classificazione basata sulla permanenza temporale del dolore6. Se il dolore ha una durata inferiore alle 4 settimane il mal di schiena viene allora definito come acuto (solitamente in questo breve periodo si agisce sui sintomi), quando invece la presenza del dolore perdura (4-12 settimane) – con un’aggravarsi della situazione fra stress, disturbi del sonno, problemi motori, ecc. – si ha un mal di schiena subcronico. Superate la 12 settimane si può parlare a tutti gli effetti di mal di schiena cronico.
Popolazione, guarigione e aspetti psicologici
Stando a una revisione sistematica di Hoy D. e colleghi4 la prevalenza dei sintomi tipici del low back pain (LBP) presenta un picco tra i 40 e i 69 anni. Sono inoltre più colpite dal LBP le donne rispetto agli uomini e la patologia è più comune nelle nazioni economicamente più ricche (ciò ovviamente non significa che nel secondoe terzo mondo sia assente)7,8.
Sopra, la prevalenza media del LBP in base alle varie fasce d’età, con un confronto fra i sessi (Hoy D. et al, 2012). Come concludono gli stessi ricercatori nello studio citato poc’anzi: «Con l’invecchiamento della popolazione, è probabile che il numero globale di individui con lombalgia aumenti notevolmente nei prossimi decenni».
Il LBP, disordine muscolo scheletrico, speso ha una “guarigione spontanea” (nel giro di al massimo 6 settimane il dolore scompare)9. In concreto, una nota meta-analisi del 2017 ha osservato una guarigione spontanea su oltre il 65% dei pazienti colpiti da ernie lombari20, percentuale grossomodo confermata da un altro lavoro pubblicato nel 2020 su BMC Musculoskeletal Disorders21. I casi di guarigione spontanea sul lungo periodo, com’è ovvio che sia, fanno mettere un po’ in discussione un certa visione della sala operatoria come unica via per la guarigione di un paziente.
La chirurgia può essere presa in considerazione per i pazienti con sintomi gravi che non presentano una regressione (dell’ernia lombare, ndr) dopo 4 mesi dall’esordio (dei sintomi) e consigliamo vivamente un intervento chirurgico per coloro che non presentano una regressione dopo 10 mesi e mezzo.
Yi Wang et al., 2020
Tuttavia, non va ignorata quella minoranza di persone – minoranza nemmeno troppo piccola – che non si riprende con un trattamento conservativo. Altri studi hanno osservato casi di recidività dove su tre pazienti guariti, uno tornava a soffrire di mal di schiena, anche in maniera lieve, palesando quindi una guarigione incompleta10. Nella maggior parte dei casi, la lombalgia si cronicizza su persone con una vita sregolata24,25,26 (problemi psicologici, stress, carenza di sonno): «Disturbi del sonno e grande stress, ad esempio, possono causare iperattivazione delle cellule gliali e quindi un’infiammazione di basso grado, che porta a sensibilizzazione centrale e a del dolore diffuso»25.
Nei paesi a basso e medio reddito, il mal di schiena è associato a un’elevata comorbilità per la salute mentale29. Le comorbilità devono essere prese in maggiore considerazione nella pratica clinica, poiché la loro presenza porta a un maggiore utilizzo delle risorse sanitarie30. Nei paesi a basso e medio reddito, il mal di schiena è associato a un’elevata comorbilità per la salute mentale29. Le comorbilità devono essere prese in maggiore considerazione nella pratica clinica, poiché la loro presenza porta a un maggiore utilizzo delle risorse sanitarie30.
Zaina F. et al, 2020
Va sottolineato che il LBP, definibile come lombalgia comune e disordine muscolo scheletrico, non è una lombosciatalgia. Si parla infatti di lombosciatalgia quando il dolore dalla zona lombare si estende a un arto inferiore. Stando a quanto riportato dall’European Journal of Pain28, una grossa parte – quasi il 40% – dei casi di mal di schiena cronici e disabilitanti (follow-up di 14 mesi) sono correlati alla comparsa di dolore in altre parti del corpo.
Un ultimo dato interessante è l’apparente inutilità del trattamento manipolativo e farmacologico sul dolore provocato dalla lombalgia acuta22 (grafico sotto).
E naturalmente non vanno sottovalutati gli aspetti psicologici del mal di schiena: «Mirare ai fattori psicologici associati al LBP, non solo ai fattori fisici, può aiutare a migliorare la gestione dei pazienti con LBP»11.
Sopra, due differenti tipi di approccio al dolore (Chris J. Main et al., 2002).
«Effects of confrontation or avoidance of pain on outcome of episode of low back pain: fear of movement and re-injury can determine how some people recover from back pain while others develop chronic pain and disability»12.
Inoltre, i recenti limiti applicati agli spostamenti della vita quotidiana per far fronte alla pandemia da COVID-19, sembrano aver influito negativamente sulla salute della schiena di una parte della popolazione adulta. Forse per l’aumento della sedentarietà e dello stress generale13.
Cause e fattori di rischio
Solitamente, problemi meccanici e lesioni ai tessuti molli sono la causa della lombalgia. Queste lesioni possono includere danni ai dischi intervertebrali, compressione delle radici nervose e movimento improprio delle articolazioni spinali.
John Peloza, MD – Causes of Lower Back Pain (2017)
Da qualche anno a questa parte, studi scientifici evidenziano come i fenomeni degenerativi della colonna vertebrale rilevabili tramite RM (risonanza magnetica) e TAC siano piuttosto frequenti non solo nei soggetti che soffrono di mal di schiena ma anche in altre persone completamente asintomatiche. Una review pubblicata sull’American Journal of Neuroradiology14 (tabella sotto) ha messo in luce un fatto interessante: molte delle degenerazioni della colonna vertebrale riscontrate nei classici esami medici sono parte di un fisiologico processo di invecchiamento del corpo umano non necessariamente associato alla comparsa di dolori.
Come inequivocabilmente mostrato dai numeri, anche i più giovani hanno degenerazioni discali, protrusioni, degenerazioni delle faccette articolari, ecc.
L’eziologia multifattoriale della lombalgia comune fa’ sì che, purtroppo, non sempre le cause siano facilmente inquadrabili, specialmente quando si parla di lombalgia aspecifica. L’insieme di cofattori colpevoli del non-specific LBP sono i seguenti:
Atteggiamenti psicologici sbagliati nei confronti del dolore15,16,27.
Dati alla mano, pare che la fattori genetici individuali giochino un ruolo cruciale sulla predisposizione o meno al mal di schiena24. Un recente ed ampio studio genetico27 ha notato come molti pazienti sintomatici abbiano una naturale predisposizione a palesare dei problemi anatomico-strutturali (come problemi ai dischi intervertebrali e antropometrici) e psicologici nei confronti del dolore (percezione ed elaborazione dello stesso). I processi degenerativi delle strutture della colonna vertebrale (vertebre, dischi, anelli fibrosi, faccette articolari, muscoli paraspinali, ecc.) avanzano in parallelo, rendendo difficile capire quali fattori o combinazioni di fattori possano avere più o meno a che fare col dolore23.
Vi è inoltre il mal di schiena tipico della gravidanza che in letteratura scientifica viene così abbreviato: LBPP (low back pain and pelvic pain)17.
La maggior parte delle donne incinte soffrono di lombalgia, nonostante i fisiologici adattamenti strutturali al sovraccarico dato dal feto17,18. Inoltre: «LBPP during a previous pregnancy, body mass index, a history of hypermobility, and amenorrhea are factors influencing the risk of developing LBPP during pregnancy» da Ingrid M. Mogren et al. (2005).
Prevenzione
In campo medico esistono tre differenti livelli di prevenzione: quella primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria è quella mirata all’utilizzo di comportamenti (e abitudini) finalizzati a prevenire a monte delle patologie (non fumare, praticare attività fisica, eccetera). La prevenzione seconda invece, si riferisce alla diagnosi precoce (tipica dello screening) che permette di intervenire tempestivamente, agendo su una malattia e tamponandone gli effetti negativi (solitamente è così per la mammografia). Infine, la prevenzione terziaria riguarda più che altro gli effetti a lungo termine di una malattia (come la gestione di una disabilità) e i casi di recidività.
La letteratura scientifica pullula di paper inerenti la prevenzione del mal di schiena. Tre importanti revisioni sistematiche con meta-analisi, rispettivamente di Steffens et al.36, Huang R. et al.37, Shiri R. et al.38, hanno fatto notare come l’esercizio fisico possa essere un ottimo strumento se il fine è quello di prevenire il mal di schiena (anche abbinato a un’educazione sul problema36,37). Gli esercizi presi in esame da questi tre lavori andavano a rinforzare il retto addominale, i muscoli obliqui, gli erettori spinali, attività aerobica, yoga, esercizi di coordinazione, stretching e in alcuni casi anche gambe e parte superiore del corpo (upper body), con una frequenza delle sedute che andava da 1 a 7 volte a settimana e un tempo di lavoro che andava da 5 ai 90 minuti. Come già accennato, in alcuni casi si è dimostrata utile l’aggiunta di lezioni teoriche volte a dare un’infarinatura generale sull’anatomia e biomeccanica della bassa schiena, sulle evidenze scientifiche inerenti il LBP e sulla tecnica esecutiva dei movimenti di sollevamento. Lo studio di Shiri R. e colleghi pubblicato sull’American Journal of Epidemiology38, sempre in un’ottica di prevenzione del mal di schiena, nelle sue conclusioni consiglia 2-3 allenamenti settimanali dedicati al rinforzo muscolare, all’esercizio aerobico ed allo stretching. Altro dato interessante: interventi passivi come l’utilizzo di solette plantari o di cinture per il sostegno della schiena (back belt) si sono dimostrate inefficaci.
«In diversi studi […] viene dimostrato che nei pazienti che soffrono di LBP il meccanismo di attivazione muscolare anticipatorio della cintura miofasciale è alterato durante un movimento. La stabilità spinale è strettamente correlata all’insorgere di lombalgia: non basta, quindi, una colonna vertebrale sana per evitare problematiche di mal di schiena, ma sono necessari anche muscoli efficienti e una buona capacità di controllo. Una corretta sinergia dei tre sistemi descritti nel modello ideato da Punjabi (fig. sotto, ndr) assicura un’efficace stabilizzazione della colonna vertebrale. Per svolgere gli esercizi in modo efficace è fondamentale abbinarli ad una corretta respirazione, controllando la sua frequenza, la sua coordinazione col movimento e la sua qualità»39.
Sopra, la relazione tra i tre sottosistemi – attivo, passivo e neurale – che contribuiscono alla stabilità della spina dorsale, elemento fondamentale per la salute della bassa schiena (da Panjabi M., 1992).
Come giustamente fatto notare dal Dott. Giroldo39, un documento finanziato dal Ministero della Salute (Percorsi diagnostico terapeutici per l’assistenza ai pazienti con il mal di schiena) spiega con un linguaggio alla portata di tutti quelli che sono dei semplici consigli per contrastare il LBP: evitare di stare seduti nella stessa posizione oltre 20-30 minuti, guidare l’automobile con un supporto lombare, piegarsi mantenendo le curve fisiologiche del rachide e svolgere quotidianamente dell’attività fisica.
Riabilitazione
Mentre il mal di schiena acuto ha tendenzialmente una prognosi positiva, il mal di schiena cronico spesso è, appunto, persistente e con ridotte possibilità di recupero totale, anche se vi è la possibilità di migliorare la qualità della vita ed attenuare l’intensità del dolore23. Le linee guida raccomandano l’autogestione del dolore, terapie fisiche, psicologiche e pongono poca enfasi sul trattamento farmacologico e chirurgico31. Un paper apparso sul Journal of the American Medical Association32 nell’agosto 2020 ha evidenziato la scarsa efficacia delle tecniche manipolative e di mobilizzazione – tipiche dell’osteopatia – applicate su adulti di età compresa fra i 18 ed i 45 anni affetti da LBP cronico di intensità media e moderata. Sotto un interessante scambio di commenti fra il Dott. Evangelista ed il ricercatore Franco Impellizzeri.
Viviamo su un’isola circondata da un mare di ignoranza. Più cresce l’isola della nostra conoscenza, più si allunga la costa della nostra ignoranza diceva il fisico statunitense John A. Wheeler, paradossalmente sembra che all’aumentare del numero di pubblicazioni scientifiche aumentino i dubbi di chi questi argomenti li studia da anni. Chiusa la parentesi, il famigerato approccio biopsicosociale citato dal Professor Impellizzeri cozza con quello biomedico, che vedrebbe come causa (o cause) di una patologia variabili puramente biologiche da correggere con terapie mirate, prescritte da un medico/fisioterapista/fisiatra/chinesiologo e così via. Si tratta quindi un approccio, quello biopsicosociale, multidimensionale che può vantare una visione d’insieme che quello biomedico non possiede: «Il modello biopsicosociale è una strategia di approccio alla persona, che attribuisce il risultato della malattia, così come della salute, all’interazione intricata e variabile di fattori biologici (genetici, biochimici, ecc.), fattori psicologici (umore, personalità, comportamento, ecc.) e fattori sociali (culturali, familiari, socioeconomici , ecc.)»33,34.
Alcuni studi avevano dimostrato che la terapia manipolativa e l’educazione al dolore avevano diminuito il dolore e la disabilità. Tuttavia, la maggior parte di essi ha mostrato un debole effetto del trattamento, con soli miglioramenti nell’immediato o a breve termine, principalmente nella terapia manipolativa.
Vier C. et al., 2018
Sotto, le fasi di un trattamento risultato efficace unicamente in acuto35.
Salvo Di Grazia, medico e divulgatore scientifico, in un suo post datato ottobre 2018 aveva fatto un riassunto delle evidenze all’epoca disponibili sulla “cura” del mal di schiena e ne era emerso uno scenario pressoché identico a quello attuale. Molti trattamenti inefficaci ed altri discretamente efficaci sul breve termine ma inutili sul medio e lungo periodo – agopuntura, osteopatia, ultrasuoni, massaggi, tachipirina, laser, farmaci antinfiammatori, stimolazione elettrica nervosa transcutanea, massaggi… -, fatta eccezione per l’attività fisica.
Passando all’atto pratico, dopo aver visto che il mal di schiena cronico ed aspecifico difficilmente può guarire del tutto e che moltissime terapie sono praticamente inutili sul lungo periodo, occorre chiedersi quale tipo di attività fisica possa praticare oppure no una persona. Sottolineando che in questa sede non è possibile analizzare caso per caso e che la “terapia motoria” andrebbe somministrata in maniera differente da paziente a paziente… A grandi linee, è consigliabile educare piano piano al movimento e ad un corretto stile di vita chi è affetto da lombalgia, senza fare terrorismo e cercando di rendere la persona pronta a reggere psicologicamente una probabile lunghissima convivenza col dolore. Cercando di capire, sempre riguardo all’aspetto mentale, se può esserci qualcosa che non va nella sua vita quotidiana; ricordiamo per il LBP è vivamente consigliato un approccio biopsicosociale e di conseguenza l’intervento di più d’una figura professionale.
Si è visto come lo yoga, se correttamente dosato, possa dare dei benefici sul lungo periodo40 e una review pubblicata su Pain and Therapy41, ha messo in luce anche l’efficacia del pilates, degli esercizi McKenzie (con qualche controversia dovuta alla non uniformità dei dati), corsa in acqua (altezza spalle) alla soglia aerobica individuale ed esercizi di stabilizzazione mirati a migliorare il controllo neuromuscolare e la forza del core, ossia la parte centrale del corpo (immagine sotto).
Sopra, degli esercizi dimostratisi efficaci per ridurre la disabilità da cLBP (cronic low back pain) ed il dolore ad esso associato. Nello studio in questione42, la routine era la seguente: 3 allenamenti a settimana, di una durata di circa 60 minuti l’uno, per 6 settimane totali (altre informazioni utili qui sotto).
Dopo aver tentato di curare due gruppi di pazienti dalla lombalgia cronica – uno con gli esercizi di stabilizzazione e l’altro con dello yoga – i ricercatori sono arrivati alle seguenti conclusioni: «I nostri risultati indicano che lo yoga e la ginnastica di stabilizzazione hanno aspetti superiori a ogni altro in termini di dolore, disabilità, prestazioni e qualità della vita correlata alla salute».
Infine, come specificato da J. V. Pergolizzi Jr. e coll. (2020), è bene ricordare che l’esercizio fisico è una terapia efficace per i casi di lombalgia, a patto che questa sia un minimo duratura (almeno 6-12 settimane), questa affermazione, oltre che col low back pain cronico, si sposa piuttosto bene anche con dei casi di LBP subcronico.
Sopra, trovate alcuni esercizi alla portata di tutti utili sia per la prevenzione che la riabilitazione (video del Dott. Roncari, pubblicato per Project Invictus).
Conclusioni
Cosa portarsi a casa da questo articolo? Il mal di schiena di schiena generico, di per sé un qualcosa di aspecifico, può colpire una platea di persone piuttosto eterogenea. Data l’eziologia multifattoriale, molto ancora dev’essere indagato ma pur non esistendo una “cura definitiva”, i singoli individui possono fare molto per prevenirlo e per combatterne la disabilità a lungo termine. La direzione in cui sta andando la società moderna pare essere sempre più lontana dalla cura fisica e psichica delle persone, sarebbe bene che tutti, nel loro piccolo, lavorassero per cercare di invertirla.
Quanto rimane, è un destino di cui solo la conclusione è fatale. All’infuori di questa unica fatalità della morte, tutto – gioia o fortuna – è libertà, e rimane un mondo, di cui l’uomo è il solo padrone.
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Quello che segue è un esempio della preparazione che io stesso ho stilato e seguito a partire dal 31 agosto, fino ad arrivare ai primi di dicembre. Data la situazione che mezzo mondo stava (e sta) vivendo, mi è stato fin da subito impossibile capire se e quando ci sarebbero state gare. Nel dubbio, ho cerato di impostare un protocollo di strength and conditioning di una durata che oscillasse fra i tre ed i tre mesi e mezzo (12-14 settimane).
Questi numeri serviranno per il futuro. Il peso verrà misurato mano a mano per assicurarsi di rispettare i limiti della categoria di peso per la gara. I test massimali verranno ripetuti dopo il periodo gare, all’inizio di un nuovo macrociclo, in modo da vedere se la forza massimale e la resistenza aerobica sono migliorate (è bene fare la prova del nove per avere dei riscontri pratici).
Let’s go! – Week 1 (adattamento anatomico)
Dopo una quindicina di giorni di totale inattività si torna a sudare, ovviamente in senso sportivo. Eseguo il test di Cooper due giorni prima del 31 agosto (data di inizio del vero macrociclo di allenamento), giusto per aver una prova tangibile della mia condizione aerobica – poco più che discreta – e dei numeri utili per dei futuri confronti fra la condizione di partenza e quella che raggiungerò, si spera, fra alcune settimane.
Causa alcuni acciacchi non ancora del tutto superati, chi è agonista negli sport da combattimento capirà, decido di non eseguire altri test atletici.
Nella prima e terza sessione mi sono dedicato alla forza e all’ipertrofia (con l’avanzare della programmazione si punterà sempre più la prima e meno alla seconda). Nella seconda alla resistenza aerobica (capacità). Questa prima settimana è da considerarsi a tutti gli effetti come un microciclo di adattamento anatomico (AA), ovvero un periodo dove si gettano le basi per lo sviluppo della forza dando modo all’organismo, e in particolar modo all’apparato locomotore attivo e passivo, di irrobustirsi e prepararsi al carico di lavoro via via più intenso che dovrà tollerare in un futuro prossimo. Nella speranza di prevenire eventuali infortuni. Sarà da considerarsi come di AA anche la seconda settimana di allenamento.
N.B. Questa settimana solo allenamenti di preparazione atletica (la palestra dove da anni pratico sport da combattimento è ancora chiusa).
Sempre incentrato sulla forza e l’ipertrofia il primo allenamento, con un leggero aumento del volume nella panca piana (per comodità ho apportato qualche modifica alla disposizione degli esercizi). Il secondo è invece identico alla precedente settimana. Mentre nel terzo, oltre a forza e ipertrofia, – più il consueto mega stretching finale -, trova posto la potenza aerobica (ora il quadro aerobico è completo). Quel 4×1000 m al vogatore con al recupero la dicitura “1:1” (terza colonna) intende dire che l’obiettivo è quello di percorrere 1000 metri nel minor tempo possibile ed usare come tempo di recupero il tempo impiegato per coprire il chilometro di distanza al macchinario (rapporto lavoro:recupero = 1:1).
Capacità aerobica = capacità dell’organismo di portare avanti sforzi che coinvolgono grosse masse muscolari per periodi di tempo mediamente lunghi (almeno 30 minuti) a intensità media o medio-alta (60-80% FC max), lavorando sulla gittata cardiaca.
Potenza aerobica = capacità dell’organismo di portare avanti sforzi che coinvolgono grosse masse muscolari per periodi di tempo limitati (2-8 minuti), lavorando ad alta intensità (≥ 90% FC) e a VO2max.
La corsa, la pedalata e la vogata permettono di sviluppare in modo ottimale la capacità e potenza aerobica, ottenendo benefici sia a livello muscolare che cardiocircolatorio.
Nel caso del sistema muscolare si va a migliorare la capacità d’ossidazione delle fibre muscolari: migliore capacità di utilizzare l’ossigeno per avere energia. Perché aumentano gli enzimi che catalizzano reazioni dell’ossigeno e aumenta la densità mitocondriale.
Per il cardiocircolatorio: migliore circolazione del sangue, più veloce capacità di smaltimento delle sostanze metaboliche (come il lattato) e pressioni arteriose inferiori.
Si ottiene quindi una migliore capacità di recupero [1].
Al fine di ottenere dei buoni miglioramenti, l’obiettivo è quello di portare avanti il lavoro aerobico (aspecifico) per 6 settimane. Aggiungo che sul piano dell’allenamento specifico, in palestra col coach, questa settimana ho avuto 4 sessioni di allenamento: 2 di striking e 2 di lotta/grappling.
Il volume complessivo continua a salire, sia negli esercizi coi pesi che in quelli di resistenza aerobica. Al contempo, sia sui multiarticolari (panca, lento avanti e stacco) che sugli esercizi volti all’incremento di capacità e potenza aerobica, si cerca di spingere un po’ di più (maggior peso sollevato o ritmo tenuto durante la pedalata). Sul piano dell’allenamento specifico, in palestra col coach, questa settimana ho avuto 5 sessioni di allenamento: 3 di striking e 2 di lotta/grappling.
Volume analogo a quello della settimana precedente, aumenta leggermente l’intensità di carico su un po’ di esercizi multiarticolari (panca piana, lento avanti, stacco da terra). Sul piano dell’allenamento specifico, in palestra col coach, questa settimana causa impegni non sono riuscito ad andare oltre le 3 sessioni di allenamento: 2 di striking e 1 di lotta/grappling.
Settimana caratterizzata da uno scarico passivo di forza e ipertrofia (non si sollevano pesi per dar l’opportunità all’apparato locomotore passivo di recuperare da eventuali microtraumi) e da un buon volume di lavoro “cardio”. Sul piano dell’allenamento specifico questa settimana ho avuto 5 sedute di allenamento: 3 di striking e 2 di grappling.
Week 6 (intensificazione e scarico capacità aerobica)
Riguardo alla preparazione atletica, questa settimana vi è stata una generale intensificazione nel lavoro coi pesi ed uno scarico attivo circa la capacità aerobica. Purtroppo, causa impegni lavorativi, non sono riuscito a prendere parte a più di 2 lezioni in palestra (1 di striking e 1 di lotta/grappling).
Si intensifica ulteriormente il lavoro coi sovraccarichi, si “trasforma” la forza sinora accumulata in potenza e vi è uno scarico attivo di potenza aerobica.
IMPORTANTE: seguendo i dettami del SISP (Servizio di Igiene e Sanità Pubblica) dell’ASL cittadina, sono stato costretto a interrompere la mia settimana di allenamento a causa di un precedente contatto con una persona risultata positiva al Covid-19. Pur non essendo stato troppo vicino alla persona in questione e non avendo sintomi ho dovuto mettere in pausa la mia passione. Questa settimana mi sono allenato lunedì (forza e ipertrofia), martedì (striking e lotta/grappling) e mercoledì (scarico attivo della potenza aerobica e rinforzo addome). Il resto è saltato.
Causa ennesimo DPCM tutto è un po’ andato in vacca. Questa settimana dell’intenso lavoro coi pesi (forza e potenza) è stato affiancato, per la prima volta in questa preparazione, a dell’intenso lavoro di power endurance (resistenza alla potenza). Di quest’ultima si era già parlato qui.
A seguire il resto del programma che avrei svolto se i vari “lockdown light” non si fossero messi di mezzo (ovviamente non ci sono altri video da mostrarvi).
Scarico attivo di forza, rimasto quasi invariato il resto del programma settimanale. Lo scarico riguarda l’intensità e il volume: quel “-30%” riguarda appunto un carico (kg) sollevato inferiore del trenta % e scompaiono gli esercizi secondari dedicati all’ipertrofia. E’ bene che quegli esercizi siano eseguiti lentamente e con una buona tecnica esecutiva. Riguardo la power endurance (alattacida) quel 2: 5×20″ (30″/90″) sta a indicare due blocchi da cinque serie per venti secondi di lavoro con trenta secondi di recupero fra le serie e novanta (un minuto e mezzo) fra i due blocchi.
Piano piano ci si avvicina ad un ipotetico match, allora si usano i pesi per l’indispensabile: forza e potenza. Questa è inoltre l’ultima settimana di power endurance alattacida (si passerà poi a quella lattacida).
Nella seduta dedicata alla forza e alla potenza si lavora ancora intensamente (con esercizi di potenza più specifici). Inoltre, vi è un lavoro di resistenza alla potenza improntato su sforzi lattacidi. Il terzo allenamento settimanale diventa “ibrido” grazie all’alternanza di esercizi di forza (sollevamenti lenti) a esercizi balistici (gesti esplosivi). Quanto mostrato nelle ultime righe della tabella altro non è che un metodo a contrasto. Per chi se lo stesse chiedendo, per forza speciale si intende: «la forma di manifestazione della forza tipica di un determinato sport o il suo correlato muscolare specifico (cioè, i gruppi muscolari che partecipano ad un determinato movimento sportivo)».[2]
Week 13
A: Forza (mantenimento) e power endurance (potenza lattacida)
Questa settimana, così come la prossima, il volume di allenamento e l’intensità (kg) riguardanti la forza rimangono pressoché invariati: ricordiamoci che l’obiettivo è salire sul tatami/ring/gabbia, non diventare dei pesisti o powerlifter. Gli esercizi di recupero attivo (vuoto e drills in autonomia) hanno l’obiettivo di far calare significativamente la frequenza cardiaca (circa 60% FCmax).
Week 14
A: Forza (mantenimento) e power endurance (potenza lattacida)
Ultima settimana di fuoco, power endurance nelle sue varie declinazioni più il solito lavoro sulla potenza dei colpi e l’esplosività degli arti inferiori.
Un’unica sessione, eseguita possibilmente di lunedì, dove si fa del lavoro piuttosto specifico alternando esercizi tipici di una competizione (tecniche di striking, grappling) a esercizi con sovraccarichi e corde (kettlebell, battle rope). Il resto della settimana riguarderà ciò che più conta: ripasso tecnico col maestro e/o con gli sparring partner, lavoro sul game-plan ed eventuale ricorso a metodiche di recupero. È di fondamentale importanza che i giorni antecedenti il match siano leggeri, in modo da favorire un buon recupero psico-fisico.
Alcuni chiarimenti
Quanto riportato nell’articolo e mostrato in video può esser preso come un esempio di preparazione per un fighter ma non necessariamente va preso come Bibbia. Si può lavorare bene in più modi, ottenendo risultati concreti.
Devo fare il test dei massimali o altri test atletici? Sì! Una o due volte l’anno, in modo da avere una prova tangibile dei miglioramenti ottenuti col duro lavoro.
Sono davvero necessari tutti quei complementari? No, solitamente si utilizzano meno esercizi secondari (“stile fitness”). Bisogna inoltre tenere a mente che troppo lavoro ipertrofico, su soggetti predisposti, potrebbe causare un aumento ponderale con conseguente difficoltà a rientrare in una determinata categoria di peso.
Il cardiofrequenzimetro è obbligatorio? Utile sì, obbligatorio no. Ci sono metodi manuali per avere dei valori indicativi della propria frequenza cardiaca (bpm) e alcune macchine (tapis roulant, cyclette) hanno delle bande metalliche create per misurarla.
E il riscaldamento? Ovviamente veniva eseguito prima di ogni sessione di allenamento (dando ciò per scontato, non è stato inserito nelle tabelle né filmato).
Ma l’alimentazione? Non è obbiettivo di questo video-articolo trattare di ciò, ma se può interessare quello riportato sotto è l’andamento del mio peso durante le prime 8 settimane del programma (prima della chiusura delle palestre via DPCM).
Approfondimenti
Qui di seguito una carrellata di articoli (gratuiti) e libri volti ad approfondire quanto detto o anche solo accennato fino ad ora.
Quella che segue è una traduzione ed adattamento di un articolo particolarmente interessante del chinesiologo e coach Dean Somerset.
Buona lettura!
Un concetto chiave
Una delle cose più importanti che desidero che le persone si portino a casa è la seguente: ogni individuo ha una propria anatomia, punti di forza, punti deboli e obiettivi. Pertanto, l’approccio a certi esercizi potrebbe non essere quello riportato sui comuni libri di testo. La compilazione del programma di allenamento, la scelta degli esercizi e l’approccio a quest’ultimi può variare da soggetto a soggetto.
Gran parte della ricerca sulla variazione anatomica può mostrare che alcune persone hanno strutture che possono facilitare e consentire movimenti di un certo tipo, mentre per altre sarebbe più facile abbattere un muro di mattoni col labbro superiore piuttosto che eseguire una accosciata molto profonda, indipendentemente dai lavori sulla mobilità articolare e tessuti molli. Le loro articolazioni non hanno la conformazione idonea per fare certe cose!
E anche guardando più in profondità nella tana anatomica del bianconiglio, uno stesso atleta può avere differenze significative fra l’arto destro e sinistro, superiore o inferiore che sia, specialmente se vi sono state delle esperienze sportive importanti prima dell’adolescenza (si parla di sport dove un lato del corpo è più impegnato rispetto alla controparte).
Nella pratica
I giocatori di baseball per esempio hanno la testa dell’omero del loro braccio di lancio leggermente deformata, questa “caratteristica” ovviamente non si presenta nel braccio che solitamente non viene utilizzato per i lanci. Cambiando sport, la postura che generalmente tengono i praticanti di hockey nell’impugnare il bastone li porta ad avere un’estensione dell’anca maggiore da un lato rispetto all’altro.
Sopra, le variazioni anatomiche dell’angolatura del collo del femore.
Guardando le differenze nell’angolo del collo femorale della gamba sinistra e destra nei bambini con paralisi cerebrale, Davids et al. (2002) hanno dimostrato che in alcuni bambini questa differenza può essere piccola, di pochi gradi, e in altri molti più netta (fino a più di 25 gradi). Questa differenza strutturale potrebbe stare a indicare che mentre un piede extraruota (turns out) l’altro magari intraruota (turns in).
Uno studio di Zalawadia et al. (2010) ha mostrato come anche soggetti senza problemi cerebrali possano avere significative differenze nell’antiversione fra l’arto inferiore destro e sinistro (20 o più gradi). Al riguardo qui sotto potete osservare qualche numero.
Pertanto, se in uno stesso individuo vi sono asimmetrie rilevanti, ma comunque fisiologiche, ricercare a tutti i costi asimmetrie nel movimento potrebbe essere impossibile, nonché inutile.
Se io voglio stare con la punta del piede destro extrarotata è perché ho una differenza strutturale a livello dell’anca (la destra è differente dalla sinistra). I muscoli dell’anca sono relativamente bilanciati quando le articolazioni su cui agiscono sono a riposo, se però provo a stare in una stance perfettamente simmetrica durante l’esecuzione di un qualche esercizio l’equilibrio viene alterato.
Forzare la simmetria su una struttura asimmetrica non aiuta a correggere gli squilibri muscolari. Anzi, è probabile che li causi.
Spesso, per esercizi come squat o stacco da terra si cerca una stance simmetrica, simile a quella mostrata nella figura qui sotto.
Secondo quanto affermato fino ad ora, potrebbe non essere una scelta saggia. Almeno in teoria, persone con strutture asimmetriche dovrebbero trovarsi più a loro agio in stance fisiologiche e che quindi rispettano le loro asimmetrie corporee (figura sotto).
Oppure per certe persone sarebbe naturale avere un piede un po’ dietro l’altro (fig. sotto).
Altre persone ancora potrebbero avere dei benefici in stance tipiche di esercizi dove non si appoggia sempre l’intera superficie del piede a terra (affondi/piegate).
Discostandoci un attimo dall’articolo originale, le asimmetrie, particolarmente presenti negli atleti più navigati, secondo i dati attualmente presenti in letteratura scientifica il più delle volte sono da considerarsi come un qualcosa di assolutamente normale. Testimoniano ciò fior fior di studi. Ne è un esempio quello di Haugen T. et al. (2018) i cui numeri chiave sono riportati nella tabella qui sotto.
Parecchie asimmetrie sono comunissime negli sprinter d’élite e non rappresentano in alcun modo un ostacolo alla performance od un pericolo per la salute. “Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters” (immagine presa da qui).
«Molti esperti di allenamento della forza, fisiologi e ricercatori hanno proposto che dovremmo cercare di ridurre l’asimmetria del movimento durante lo sport, al fine di migliorare le prestazioni e ridurre il rischio di infortuni. Tuttavia, come dimostra questo nuovo studio sugli sprinter di pista, l’asimmetria del movimento è estremamente comune durante lo sprint e non è correlata né alle prestazioni di sprint né al rischio di lesioni. È quasi come se l’asimmetria fosse una caratteristica del tutto naturale del movimento umano».
Conclusioni
Riguardo alle immagini dei piedi nel paragrafo precedente, qualcuna di quelle posizioni è sbagliata? No. Una posizione potrebbe essere completamente giusta per qualcuno, ma non funzionare affatto per qualcun altro. E va bene così. Non tutti abbiamo bisogno di fare le medesime cose, o muoverci allo stesso modo.
Se pensiamo ad esempio alle visite oculistiche, è diffusissimo il fatto che le persone vedano bene da un occhio e meno bene dall’altro. Anche gli occhi, esteticamente identici, nelle persone sane non sono uguali, e lo stesso concetto è valido per le altre parti del corpo.
Certi accorgimenti tecnici su gesti/esercizi sportivi potrebbero essere utilissimi per alcuni soggetti ed inutili per altri. Solo l’esperienza ed un occhio attento possono fare la differenza e capire quali esercizi e movimenti sono più adatti ad un individuo e quali meno. Distinguendo le asimmetrie fisiologiche – che sono la stragrande maggioranza – da quelle patologiche.
Somerset D. – Symmetry Doesn’t Even Matter, And Probably Causes More Problems Than It Solves (2018) Davids J. R. et al. – Assessment of femoral anteversion in children with cerebral palsy: accuracy of the trochanteric prominence angle test (2002) Zalawadia A. et al. – Study Of Femoral Neck Anteversion Of Adult Dry Femora In Gujarat Region (2010) Haugen T. et al. – Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters (2018)
Quella che segue è la terza ed ultima parte della breve serie di articoli sulla traumatologia sportiva. La prima parte è recuperabile qui e la seconda a questo link.
Tendinopatie
Le tendinopatie sono patologie di tipo degenerativo che, talvolta, possono prevedere un processo infiammatorio nelle fasi iniziali (prime settimane). Le evidenze scientifiche hanno stabilito che la loro eziologia è multifattoriale (D. Factor e coll.).
Possiamo distinguere principalmente quattro tipologie di tendinopatie: tendinosi, tendinite/rottura parziale, paratenonite e paratenonite con tendinosi.
La tendinosi è una degenerazione intra-tendinea (patologia cronica), dovuta generalmente all’invecchiamento ed a micro-traumi. Non è necessariamente sintomatica.
La tendinite è invece una degenerazione sintomatica del tendine che consiste parziali rotture ed una successiva risposta infiammatoria riparatoria.
Paratenonite, infiammazione dello stato esterno del tendine (il “peritenonio” è una membrana elastica che riveste i tendini che non hanno guaina tendinea e che permette lo scorrimento del tendine).
Infine, la paratenonite con tendinosi è una patologia che può associarsi con aspetti di degenerazione intra-tendinea.
Trattamenti per gli infortuni
Veniamo ora ai principali protocolli con cui vengono trattati gli infortuni sportivi (terapie di recupero).
Protocollo R.I.C.E.
Rest: mettere a riposo la parte del corpo infortunata; cercare di non farla lavorare (eventuale uso di stampelle).
Ice: applicare ghiaccio per le successiva 4 ore ma non in maniera continuativa (20-30 minuti di ghiaccio per ogni ora).
Compression: effettuare un bendaggio (elastico) per controllare il gonfiore.
Elevation: mantenere la parte interessata al di sopra del livello del cuore.
Protocollo P.R.I.C.E.
Protection: proteggere la persona infortunata, fermare il gioco (ad esempio una partita di rugby), portare l’atleta in una zona sicura.
Rest: mettere a riposo la parte del corpo infortunata; cercare di non farla lavorare (eventuale uso di stampelle).
Ice: applicare ghiaccio per le successiva 4 ore ma non in maniera continuativa (20-30 minuti di ghiaccio per ogni ora).
Compression: effettuare un bendaggio (elastico) per controllare il gonfiore.
Elevation: mantenere la parte interessata al di sopra del livello del cuore.
Protocollo P.O.L.I.C.E.
Protection: proteggere la persona infortunata, fermare il gioco e portare l’atleta in una zona sicura.
OL (optimal loading): significa sostituire al più presto possibile il riposo (dannoso se troppo duraturo) con la mobilizzazione, assicurando il carico adeguato nelle varie fasi del trattamento della lesione per una efficace riabilitazione.
Ice: applicare ghiaccio per le successiva 4 ore ma non in maniera continuativa (20-30 minuti di ghiaccio per ogni ora).
Compression: effettuare un bendaggio (elastico) per controllare il gonfiore.
Elevation: mantenere la parte interessata al di sopra del livello del cuore.
Protocollo M.E.A.T.
Movement: il movimento controllato degli arti interessati può stimolare il flusso sanguigno, ridurre la formazione delle fibre collagene impropriamente allineate (tessuto cicatriziale) e quindi migliorare effettivamente il recupero.
Exercise: il concetto di esercizio qui è strettamente legato al movimento precedentemente già descritto. Attraverso una controllata ed opportuna prescrizione di esercizi si avranno le potenzialità per migliorare il recupero.
Analgesics: analgesici naturali per controllare il dolore e non FANS (anti-infiammatori non steroidei), visto che questi ultimi rischierebbero di inibire il processo di guarigione.
Treatment: trattamenti fisioterapici di vario tipo che vanno ad incrementare il flusso sanguigno e quindi a favorire il processo di guarigione.
Prevenzione infortuni
Mentiremmo se dicessimo che esiste un modo unico ed infallibile per evitare di infortunarsi, purtroppo. Le patologie che possono colpire muscoli e articolazioni sono innumerevoli e spesso sono scollegate dalla pratica, più o meno intensa, di attività fisica.
Fattori come, per esempio, l’invecchiamento e la predisposizione genetica sfuggono al nostro controllo. Tuttavia, con la giusta dose di esercizio fisico è possibile rinforzare il tessuto muscolare e, in secondo luogo, le strutture articolari, diminuendo il rischio di farsi male.
La prevenzione infortuni può dipendere da fattori che derivanti dalla persona in questione, da altri che non dipendono da essa e da altri fattori ancora, inerenti le attrezzature e l’ambiente esterno.
I primi sono lo stile di vita, l’alimentazione, la preparazione fisica, tecnica e psicologica, il sonno, la prudenza. Quelli della categoria successiva, come già accennato qualche riga più su, sono fattori ereditari, pertanto non modificabili. Possiamo citare la struttura scheletrica, le inserzioni muscolari, la predisposizione dei muscoli a crescere (ipertrofia) e quella delle articolazioni ad essere danneggiate da determinati stimoli (danni) meccanici. Nell’ultima categoria, quella delle attrezzatura e dell’ambiente, rientrano la manutenzione e l’idoneità del terreno di gioco, le condizioni climatiche e microclimatiche delle strutture indoor, l’utilizzo di un abbigliamento idoneo (tessuti traspiranti, adeguatamente elasticizzati), di eventuali protezioni, e così via.
La ricetta base per la prevenzione infortuni è l’allenamento fisico. Senza entrare troppo nel dettaglio, possiamo dare delle indicazioni generali sul da farsi:
Effettuare un buon riscaldamento prima di ogni allenamento;
Lavorare sulla mobilità articolare (se serve anche in sedute separate);
Possedere una buona tecnica esecutiva per tutti gli esercizi;
Dare all’organismo degli stimoli allenanti graduali (ad esempio, crescita lenta ma costante dei carichi di lavoro, intesi come volume, intensità e densità);
Evitare di stressare la medesima articolazione con troppi esercizi “pesanti”;
Non vi sono segreti né particolari strategie per prevenire gli infortuni, se non allenarsi con la testa, e all’occorrenza essere seguiti da qualche professionista delle Scienze Motorie o della riabilitazione.
Lo stretching, pratica tanto conosciuta quanto sottovalutata e trascurata dai più.
Prima di dedicarci a alle tecniche di stretching è però necessario dare alcune basiche definizioni, tre per la precisione.
La prima riguarda la mobilità articolare, da alcuni autori considerata una capacità condizionale, che corrisponde alla capacità di una o più articolazioni di muoversi liberamente entro il proprio range di movimento fisiologico, senza dolori o problemi di alcun genere. La seconda definizione che occorre fornire è quella dell’estensibilità muscolare, ovvero la capacità che ha un muscolo di allungarsi, come prima, entro un limite fisiologico.
Infine, abbiamo la flessibilità, cioè l’unione della mobilità articolare e dell’estensibilità muscolare.
Inoltre, per chi non lo sapesse, c’è il range di movimento (ROM) è l’escursione permessa dalla flessibilità individuale. Che può essere più o meno ampia a seconda della persona ed anche per scelta di quest’ultima. Basti per esempio pensare all’utilizzo di “ROM incompleti” nel bodybuilding (mezze ripetizioni) per mantenere una tensione continua sul muscolo target.
Cenni di fisiologia
Lo stretching, insieme di tecniche volte ad incrementare la flessibilità corporea, si basa sul fenomeno neurofisiologico noto come riflesso miotatico, anche detto da stiramento. I recettori propriocettivi presenti nel muscolo, durante un qualsiasi allungamento inviano dei segnali al sistema nervoso centrale (SNC). I recettori sono i fusi neuromuscolari e gli organi tendinei del Golgi (OTG).
Per farla semplice, durante i primi secondi di allungamento, i fusi neuromuscolari si oppongono allo stretching, inviando segnali al SNC che portano quest’ultimo ad ordinare ai muscoli in questione di contrarsi (riflesso miotatico) in modo da evitare eventuali danni e/o infortuni. Tuttavia, se lo stretching continua e lo stato di allungamento perdura, tramite l’azione degli OTG si verifica una sorta di riflesso miotatico inverso che porta il muscolo a rilassarsi ed allungarsi.
È per questa ragione che nei canonici protocolli di stretching si consiglia di tenere certe posizioni per almeno 10-15 secondi, dato che tempi inferiori ostacolerebbero l’effetto del riflesso inverso citato poco fa, rendendo poco efficace l’allungamento. Va però specificato che se l’estensione muscolare è molto lenta difficilmente i fusi neuromuscolari si attivano.
I fattori che influenzano la flessibilità che, ovviamente, è molto soggettiva e variabile, sono principalmente i seguenti:
Estensibilità dei tendini, dei legamenti, delle capsule articolari e della pelle
Temperatura ambientale e corporea*
Livello di attività fisica (se esposti ad escursioni articolari limitate, i tessuti connettivi tendono a diventare meno flessibili).
*a causa della maggior temperatura corporea, i muscoli risultano essere più flessibili dopo il riscaldamento, pertanto generalmente si consiglia di effettuare lo stretching dopo il riscaldamento iniziale.
Le variazioni della flessibilità dipendono principalmente da un paio di fattori, due adattamenti tissutali: elasticità e plasticità. La prima consiste nella capacità del muscolo di ritornare alla lunghezza di riposo dopo l’allungamento. La seconda invece, è la tendenza ad assumere e mantenere una nuova e maggiore lunghezza dopo un allungamento. Il muscolo ha proprietà elastiche, legamenti e tendini hanno proprietà sia elastiche che plastiche.
In altre parole, se il fine è quello di incrementare la flessibilità, tramite svariate tecniche di stretching bisogna cercar di far sì che la plasticità prevalga sull’elasticità.
Maggior flessibilità = plasticità > elasticità
Un po’ come per crescere muscolarmente, in quest’ultimo caso occorre che l’anabolismo sia maggiore del catabolismo.
I benefici dello stretching, a grandi linee, sono quelli che seguono: aumento della flessibilità, prevenzione infortuni (è giusto specificare che le evidenze non così solide), miglioramento della circolazione sanguigna, stimolazione della lubrificazione articolare, effetti rilassanti e miglioramento generale della performance (in cronico). Ovviamente possono esserci anche degli effetti negativi, di questi però ne parleremo più avanti, fra qualche riga.
Tipologie di stretching
Qui di seguito potete trovare le forme più note ed efficaci di stretching.
Stretching statico (attivo e passivo): lo stretching statico attivo è il classico stretching che consiste nel raggiungere lentamente delle posizioni di allungamento e mantenerle per 15-30 secondi (il tutto in maniera autonoma). Invece, quello passivo viene effettuato grazie all’aiuto di un compagno di allenamento che tende a “forzare” l’allungamento, incrementandolo (fig. sotto).
Stretching statico passivo
Stretching dinamico (attivo e balistico): stretching che, non essendo statico, fa uso di movimenti di molleggio, slanci e quant’altro. Quello attivo è molto controllato, il balistico no (quest’ultimo comprende slanci e balzi più rapidi e intensi).
Essendo, almeno in linea teorica, piuttosto simili, alcuni autori non fanno distinzioni (Weineck J.) e considerano come stretching dinamico (o balistico) tutte le forme di allungamento che prevedono dei movimenti più o meno ampi.
I principali tipi di stretching (da Page P. – Current concepts in muscle stretching for exercise and rehabilitation, 2012, modificato)
Stretching PNF: lo stretching PNF (Proprioceptive Neuromuscolar Facilitation), molto in voga negli ultimi anni, è un tipo di allungamento che punta ad incrementare la flessibilità tramite delle contrazioni isometriche (quindi che avvengono senza un effettivo accorciamento del muscolo).
Weighted/Loaded stretching: in maniera poco tecnica potremmo nominare questa metodica come uno stretching zavorrato, che quindi si avvale di sovraccarichi per migliorare la flessibilità generale. Il “weighted stretching” è uno stretching relativamente giovane e che non ha alle spalle un’ampia letteratura scientifica, pertanto viene difficile approfondirlo e compararlo con gli allungamenti più tradizionali.
Isometria in allungamento
Christian Thibaudeau, coach di fama internazionale, sostiene che con lo stretching zavorrato sia possibile allungare i muscoli e, al contempo, massimizzare l’ipertrofia muscolare. Ma il sospetto più logico è che questo allungamento sia maggiormente utile per la crescita del fisico che per la flessibilità.
Per ulteriori approfondimenti vi rimandiamo ad un suon articolo pubblicato su T Nation.
Alcune considerazioni
Una importante review sistematica del 2017 ha preso in esame ben 28 studi riguardanti lo stretching e nessuno di questi ha mostrato effetti negativi dello stretching sulla performance [1]. Anzi, uno di questi riguardava sedici pesisti, con un carico massimale (1RM) di panca piana medio di circa 130 kg ed ha messo in mostra un lieve incremento dei carichi sul bilanciere [2]. Si è visto inoltre come su soggetti non allenati lo stretching possa aumentare in modo abbastanza significativo la forza muscolare [3].
E’ di fondamentale importanza la tempistica con cui viene effettuato l’allungamento. Se non si vuole rischiare di vedere un peggioramento delle prestazioni, è buona cosa evitare di eccedere con lo stretching se questo viene svolto subito prima di una seduta di allenamento. Infatti, come si è visto in decine di studi raccolti in una nota review [4], lo stretching statico spesso e volentieri, in acuto, porta a peggioramenti nelle performance di forza e potenza. Risultati simili li ha dati un lavoro più recente condotto su giocatori professionisti di football [5].
Behm D. G. et al. (2011)
Behm D. G. et al. (2011)
Behm D. G. et al. (2011)
Mode a parte, uno studio ben condotto pubblicato sulla rivista scientifica Physical Therapy in Sport, non ha trovato metodologie come lo stretching PNF particolarmente superiori rispetto al canonico allungamento statico [6]. Riguardo a questa faccenda, la comunità scientifica non ha ancora una una posizione unanime, servono altri studi per sperare di avere delle certezze.
Inoltre, lo stretching – in generale – non sembra essere in grado di influire significativamente sul recupero muscolare, al contrario di ciò che è credenza comune [7]. Ma questa è una questione assai intricata, di cui magari parleremo più nel dettaglio in futuro con altri articoli.
«Una […] ricerca di Kay, A. D., and A. J. Blazevich del 2012, ha affermato che lo stretching statico per un totale di 45 sec può essere utilizzato come routine senza il rischio di una diminuzione significativa nella performance delle attività forza o di velocità. Per tempi di allungamento più lunghi(ad esempio, 60 s) ci sono maggiori probabilità di causare una piccola o moderata riduzione delle prestazioni» [8].
Applicazioni pratiche – linee guida
Bisogna dedicare allo stretching più sedute settimanali per fare sì che questo sia realmente allenante; durante l’allenamento della flessibilità dobbiamo percepire una certa tensione muscolare ma non del dolore, in quest’ultimo caso andiamo incontro a più rischi che benefici.
Si consigliano almeno un paio di esercizi per ogni grande gruppo muscolare, con delle tenute (ripetute) di una certa durata. Per essere più precisi…
Frequenza: ≥3 volte a settimana
Ripetizioni: 3-5 per ogni posizione
Tempo: tenere ogni posizione per 15-45 secondi
Quanto riportato sopra, valevole per lo stretching statico, può essere eseguito nelle classiche sedute di allenamento, oppure in sedute a parte.
Lo stretching dinamico è invece indicato per essere eseguito prima che inizi l’allenamento vero e proprio, dopo un buon riscaldamento.
Conclusioni
Lo stretching, da alcuni sottovalutato da altri sopravvalutato, è indubbiamente un qualcosa che va fatto. Non esiste una ricetta unica, le tipologie sono diverse e lo stretching andrebbe prescritto da persona a persona, in base allo stato di salute, la condizione fisica, l’obiettivo, lo sport praticato, e così via.
Nessun dubbio sul fatto che, se eseguito a caso, possa avere più svantaggi che benefici. Ma in quel caso la colpa è del singolo individuo o dell’allenatore incompetente, non dello stretching in sé.
R. D’Isep e M. Gollin – Fitness e muscolazione (2001)
Ganzini A. – Flessibilità e mobilità articolare (Dispense FIPE)
Segina M. – Gli effetti “reali” dello stretching (link)
Pansini L. – Stretching: una retrospettiva dalla ricerca (Body Comp Academy, 2017)
Leite T. B. et al. – Effects of Different Number of Sets of Resistance Training on Flexibility (2017)
[1] Medeiros D. M. et al. – Influence of chronic stretching on muscle performance: Systematic review (2017)
[2] Wilson G. J. et al. – Stretch shorten cycle performance enhancement through flexibility training (1992)
[3] Nelson A. G. et al. – A 10-week stretching program increases strength in the contralateral muscle (2012)
[4] Behm D. G. et al. – A review of the acute effects of static and dynamic stretching on performance (2011)
[5] Kurt C. – Comparison of the acute effects of static and dynamic stretching exercises on flexibility, agility and anaerobic performance in professional football players (2016)
[6] Azevedo D. C. et al. – Uninvolved versus target muscle contraction during contract: relax proprioceptive neuromuscular facilitation stretching (2011)
[7] Herbert R. D. -et al. – Stretching to prevent or reduce muscle soreness after exercise (2007)
[8] Ferrari M. – Stretching: cosa dicono le ricerche (IlCoach, 2015)
Alcuni muscoli del corpo umano se particolarmente deboli, possono aumentare il rischio di incappare in problematiche muscolo-scheletriche. In questa categoria rientrano i muscoli adduttori. Buona lettura!
Cenni di anatomia
Gli adduttori sono i muscoli, detto banalmente, dell’interno coscia. Si dividono in adduttore breve, adduttore lungo, grande adduttore, muscolo pettineo e gracile.