“Io corro sulla strada, molto prima di danzare sotto le luci”, questa è solo una delle tanto celebri frasi di Muhammad Ali, che era solito percorrere diversi km di corsa la mattina presto per allenare il fisico, ma anche per temprare la sua anima. Abbiamo tutti negli occhi Rocky che corre inseguito da uno sciame di ragazzini, saltando panchine e sfrecciando sulla scalinata di Philadelphia.
Introduzione
A chiunque abbia praticato sport da combattimento sarà capitato di arrivare esausto o non arrivare proprio al termine di una seduta di sparring e sentirsi dire: ”Vai a correre, non hai abbastanza fiato!”. Se quindi per quella che possiamo considerare la “vecchia scuola”, la corsa, anche estensiva per lunghe distanze, era da considerarsi uno dei capisaldi della preparazione fisica di un pugile, nella nuova generazione si sta facendo largo l’idea opposta della totale inutilità di tale pratica e di come la parte di conditioning debba essere portata avanti con metodologie diverse.
Domanda e risposta
La domanda a cui l’articolo presente cerca di dare una risposta, basandosi sull’evidence based, ma in modo da restare comprensibile a tutti, è quindi la seguente: la corsa serve o meno ad un pugile? Per dare una risposta corretta ed esaustiva al quesito bisogna prima analizzare il modello prestativo dello sport a cui si fa riferimento e, di conseguenza, ai sistemi energetici che entrano in gioco. La durata dei round è di 3’ con 1’ di recupero fra essi, il loro numero totale può variare da un minimo di 3 nel dilettantismo ad un massimo di 12 nei match professionistici titolati. All’interno del round stesso si possono alternare fasi di studio (60% aerobico/anaerobico alternato) a fasi di scambio (40% anaerobico lattacido), mentre il minuto di recupero è in condizioni di aerobica.
Sopra potete osservare il diverso intervento dei sistemi energetici durante la corsa continua su varie distanze (dagli 800 metri alla maratona).1
Dunque per quanto riguarda la bioenergetica utilizzata “i sistemi energetici dominanti, utilizzati nella boxe, sono quello anaerobico alattacido, anaerobico lattacido e quello aerobico, e l’attività è classificata come misto alternato (aerobico-anaerobico), con prevalenza di fasi anaerobiche” (Bompa, 2001).
Andiamo a vedere brevemente in cosa consistono i tre sistemi energetici sopracitati per fare chiarezza.
Il sistema anaerobico alattaccido è un sistema con una forte disponibilità di energia, ma limitata nel tempo, si esaurisce entro 6-8 secondi, durante i quali non vi è accumulo di acido lattico e non vi è richiesta di ossigeno.
Il sistema anaerobico lattacido si attiva dopo i 6-8 secondi, raggiunge il picco entro i 30-45 secondi e si esaurisce in 120 secondi, non necessita di ossigeno ma si verifica un accumulo di acido lattico proporzionale all’intensità dell’esercizio.
Il sistema aerobico, infine, entra in gioco per attività di lunga durata, ma bassa intensità, richiede la presenza di ossigeno e sfrutta le riserve muscolari ed epatiche di glicogeno come “carburante”.
Da questa analisi parrebbe che un lavoro estensivo come la corsa, in cui il sistema energetico preponderante è quello aerobico, a dispetto di un modello prestativo in cui questo sistema energetico ha un ruolo marginale, farebbe pensare che la “nuova generazione” che considera inutile questa pratica possa aver ragione, ma andiamo ad analizzare cosa dice la scienza a riguardo. I benefici della corsa estensiva sono molteplici. Quelli che più ci interessano sono principalmente due: il miglioramento dell’efficienza del sistema cardiocircolatorio ed il miglioramento della capacità di ossidazione del sistema muscolare, questi, infatti, permetteranno all’atleta di migliorare la capacità di recupero, abbassare la frequenza cardiaca a riposo, migliorare la capacità e la velocità di smaltimento del lattato. Ne consegue dunque che correre costituisce il metodo migliore e più semplice per incrementare l’efficienza e l’efficacia del sistema aerobico e del suo relativo potenziale di produzione energetica.
I sistemi energetici anaerobico lattacido e alattacido sono fondamentali, ma non saranno mai al top della loro efficienza, se di base non vi è un solido sistema energetico aerobico. Non si può migliorare il cardio, solo con i circuiti, perché sono un metodo ad alta intensità in cui si arriva velocemente a superare la soglia anaerobica con conseguente accumulo di lattato e lo sforzo richiesto è così elevato da non rendere possibile svolgere un lavoro continuativo di durata. Correre e perfezionare quindi sistema energetico aerobico, non farà solo essere più performanti a basse intensità, ma anche ad alte intensità, in quanto di riflesso diventerà più efficiente anche il sistema energetico anaerobico lattacido grazie all’innalzamento positivo della soglia anaerobica e la velocità e la capacità di smaltimento del lattato saranno incrementate.2 In opposizione a questo parere, alcuni giovani preparatori vedono la corsa come “la mortificazione del sistema nervoso” e la ritengono poco utile o addirittura dannosa, “se ho X riprese da 3 minuti, perché devo correre per un’ora consecutiva?”. Gli adattamenti cardiaci eccentrici, ossia legati ad un alto volume di lavoro dovuto alla corsa estensiva, sono inversamente proporzionali ad adattamenti concentrici, ossia legati a lavori ad alta intensità, trasformando quindi i pugili in moderni Forrest Gump e fondisti mancati.3 Da un punto di vista fisiologico muscolare si può notare quali sono gli effetti del lavoro aerobico come la corsa, durante questa pratica si ha un passaggio dalle fibre Fast Twich (FT) più rapide, ma più affaticabili, a fibre Slow Twitch (ST), che presentano una capacità ossidativa maggiore grazie a maggior numero e dimensione dei mitocondri rispetto alle FT. 4 Di conseguenza questo ultimo elemento è in disaccordo con uno sport in cui potenza e velocità rappresentano qualità fondamentali. Risulta, così evidente che la classica corsa continua di 10-12 km può risultare controproducente durante la preparazione di un match. In ossequio all’idea aristotelica del “giusto mezzo”, si può dire che la corsa è utile, ma solo se utilizzata con metodi e modulazioni corrette e programmate. La corsa estensiva potrebbe essere utilizzata in periodi precisi della stagione agonistica, ad esempio all’inizio dell’anno sportivo, nel caso di uno stop per le vacanze, al ritorno da un infortunio o come mantenimento in fasi di scarico. Si parte quindi da metodi estensivi in cui l’obiettivo è il progressivo aumento del volume, mantenendo una frequenza cardiaca moderata (intorno al 60% della FC max) e si proseguirà spostando il focus sull’intensità che aumenterà gradualmente fino a lavori di soglia anaerobica, con una riduzione del volume.
Conclusioni
Nella speranza di essere stato abbastanza esaustivo nei contenuti e di facile comprensione nella forma, vi auguro una buona lettura ed una buona corsa programmata!
I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione.
Muhammad Ali
Grazie per l’attenzione.
Articolo di Christian Nicolino Laureato in Scienze e Tecniche Avanzate dello Sport Preparatore Fisico UIPASC
1 Prof.ssa Paola Trevisson – Tecnica e didattica dell’atletica leggera (Dispense SUISM, a.a. 2014/2015) 2Perché un fighter deve correre anche se non gli serve?; Alain Riccaldi; 14 marzo 2015, projectinvictus.com 3Corsa e sport da combattimento: quando proporla?; Fabio Zappitelli; 23 marzo 2019, corebosport.com 4I miti degli sport da combattimento; Lorenzo Mosca; 5 marzo 2017; manipulusmosca.com
Basta guardare la saga di Rocky o entrare in una qualsiasi palestra in cui si praticano sport da combattimento, per vedere i ragazzi praticare la “shadow boxe” o quello che più patriotticamente è conosciuto come “vuoto”, con dei pesetti in mano.
Introduzione
Andando a curiosare anche gli allenamenti degli atleti veri, quelli che riempiono i palazzetti, vendono milioni di pay-per-view e possono fregiarsi di cinture mondiali in vita, si può notare come anche loro, a volte siano soliti portare i colpi con dei piccoli sovraccarichi in mano, in quanto il vuoto con i pesi rientra nel vasto insieme dei gesti atletici specifici sovraccaricati. Questi piccoli manubri, solitamente pesano tra 0,5 e 2kg, ma capita di vedere anche carichi maggiori, ma qual è lo scopo di questa pratica? Cosa si spera di ottenere portando i colpi con dei pesi in mano? Il ragionamento che sta alla base è piuttosto semplice, se “mi abituo” a boxare con della zavorra in mano, una volta posati i pesetti ed indossati i guantoni, i miei colpi saranno velocissimi ed il pugno più potente, ma vediamo cosa dice la scienza a riguardo.
Analisi del gesto
Se nel nostro paese la preparazione fisica in generale, ma soprattutto negli sport da combattimento, è una tematica relativamente giovane, nell’Est Europa questo è un argomento già consolidato con studi scientifici ad avvalorare qualsiasi tesi. I primi di questi studi vennero effettuati in Russia su lanciatori del disco, del giavellotto e del martello, essi dimostrarono che gli allenamenti fatti utilizzando questi attrezzi specifici di peso superiore, non andavano a determinare nessun effettivo miglioramento sul gesto atletico specifico di gara. L’atleta migliorava la sua performance con l’attrezzo più pesante, ma poi, spesso, peggiorava la performance con l’attrezzo di gara. Quello che tutti questi studi avevano dimostrato era lo sviluppo di uno schema motorio del gesto atletico specifico dello sport di riferimento che risultava simile, ma non effettivamente uguale.1
Tornando al nostro vuoto con i pesi, sono principalmente due le critiche che vengono mosse a questa pratica:
l’alterazione dello schema motorio del colpo, in quanto il vettore di forza del pesetto è verticale, poiché portato in basso dalla gravità, risultando quindi perpendicolare al vettore di forza del pugno che è orizzontale, l’applicazione del sovraccarico, quindi, non è ottimale;
la “frenata” del pugno, per non rischiare l’infortunio. Per salvaguardare le articolazioni di gomito e spalla, l’atleta si trova costretto ad arrestare il colpo prima della completa estensione dell’arto. Questo fenomeno è conosciuto come co-contrazione e consiste in una doppia attivazione simultanea del muscolo agonista e dell’antagonista, questa co-attivazione sembra essere una forma di prevenzione del corpo, in quanto la doppia attivazione rende l’articolazione più compressa e protetta.
Andando ad analizzare nel dettaglio la prima delle due critiche che vengono mosse alla pratica del vuoto con i pesi, possiamo notare come, il sovraccarico, il pesetto in questo caso, determina più o meno volontariamente la modificazione degli angoli della traiettoria del pugno. Il peso forza l’arto a seguire una traiettoria rettilinea, ma direzionata verso il basso a causa delle forze gravitazionali che agiscono sull’arto sovraccaricato. Se mi trovo supino, con due manubri in mano, la forza di gravità spingerà questi gravi verso il basso ed io mi opporrò ad essa spingendo dalla parte opposta, sfruttando il sovraccarico in maniera funzionale. In orizzontale, il manubrio, sarà soggetto ad una forza che lo spinge in basso, e pertanto non rappresenterà un vero e proprio sovraccarico funzionale al mio gesto, poiché il vero sforzo sarà compiuto dalla spalla, al fine di tenere le braccia sollevate. La suddetta articolazione si troverà notevolmente stressata a causa della leva molto svantaggiosa che si viene a creare, rendendo l’esercizio non solo inutile, ma anche potenzialmente dannoso a causa degli stress articolari accentuati. Il rischio a cui si va incontro è quindi quello di una modificazione, più o meno sostanziale, di quello che è lo schema motorio del pugno.
La seconda critica che viene mossa è, invece, la mancata estensione totale dell’arto al fine di salvaguardare le articolazioni da possibili infortuni. Questo fenomeno, come detto, è conosciuto come co-contrazione ed è una situazione neurologica dove sia l’agonista che l’antagonista si contraggono nello stesso momento, normalmente, invece, in un unico movimento articolare, un muscolo antagonista è inibito per consentire ad un muscolo agonista di funzionare fluentemente; questo processo è chiamato inibizione reciproca. In realtà, parlare di muscoli agonisti e antagonisti non è più sufficiente per spiegare un gesto muscolare, in quanto il corpo non attiva le catene muscolari su questo principio, ma le attiva a seconda delle proprie necessità del movimento che vuole compiere. Dai test kinesiologici effettuati sembra che le aree coinvolte nella co-attivazione siano il Cervelletto, l’Area Integrativa Comune e l’incapacità dell’emisfero sinistro nel mantenere la consequenzialità del gesto e dell’emisfero destro di mantenere un’armonia del movimento. La macchina umana, lavorando a ritmi sostenuti per velocizzare il movimento, mantiene parte delle fibre muscolari (sia agoniste che antagoniste) contratte, in questo modo il cervello pensa di essere più veloce nel compiere il gesto, ma in realtà la persona perde di velocità, in quanto il gesto è “frenato” dal muscolo opposto contratto e consuma più energia per mantenere l’ipertonicità di entrambi i muscoli. Un’altra circostanza in cui avviene questa co-contrazione è con atleti neofiti o quando si richiede ad un atleta esperto un movimento non ancora ben conosciuto e meccanizzato. Più si diventa esperti di un movimento e più il Sistema Nervoso capisce che sta lavorando in sicurezza ed attiva meno la co-contrazione, più l’apprendimento motorio diventa perfettamente sincronizzato in ogni passaggio e maggiore sarà la sensazione dell’atleta di essere nel “flow”, nella performance ottimale.2 Meno si è esperti e più il corpo fa fatica e si contrae, attivando anche muscoli non necessari. Il corpo umano preferisce rendere stabili le articolazioni, anche a costo di sprecare energie in movimenti non ottimizzati, piuttosto che rischiare di esporre le articolazioni a stimoli che si potrebbero rivelare eccessivi.
Dopo aver visto le critiche che vengono mosse a questa pratica, non si vuole demonizzarla, ma semplicemente valutarne il fine per la quale la si pratica. Si crede che questo esercizio possa essere specifico per migliorare la rapidità e la potenza dei colpi, quando invece il vuoto con i pesetti permette di andare a lavorare sulla Forza Resistente Locale dei muscoli chiamati in causa per tenere alta la guardia come spalle e trapezi. Esiste una massima relativa alla preparazione fisica negli Sport da Combattimento che dice “la Forza in sala pesi e la Resistenza sul ring”, essa è valida anche in questo caso, la forza resistente delle spalle, infatti, può essere allenata in maniera più specifica che con i pesetti, ad esempio, con delle ripetute al sacco. Un’altra valida alternativa potrebbe essere quella di utilizzare nel vuoto e nelle ripetute al sacco dei guanti di una pezzatura maggiore rispetto a quelli di gara, il guantone essendo parte integrante del gesto atletico specifico non ne altera lo schema motorio, esso rappresenta un sovraccarico naturale, abitua a lavorare con le stesse dinamiche del match ufficiale, permettendo di non andare a modificare in negativo il timing caratteristico dei pugni.
Finora si è visto qual è la reale utilità della pratica della boxe a vuoto con i pesetti, si è visto quali sono le alternative per migliorare la forza resistente locale, ma resta il quesito principale per il quale questi pesetti erano stati utilizzati, cioè rendere i colpi più rapidi e potenti. La Forza Esplosiva del colpo si può allenare, migliorando la Forza Massimale generale e trasformandola in Forza Specifica tramite l’impiego di esercizi SPE (Specialized Preparatory Exercises) come i lanci della palla medica. Questo attrezzo è tipico delle esercitazioni di tipo balistico, che non prevedono una fase di frenata del colpo, andando ad avere un “transfer” positivo nello schema motorio specifico del colpo.
Conclusioni
Per concludere, possiamo dire che il vuoto con i pesetti può essere una buona pratica per il miglioramento della forza resistenza locale, ma, a causa dell’alterazione dello schema motorio e l’alto rischio di infortuni, ci sono altre metodologie più specifiche ed adatte a tale scopo. L’apparente velocità acquistata quando si ritorna a fare vuoto senza pesetti non è un reale beneficio, ma solamente un’errata percezione neuromuscolare.
Articolo di Christian Nicolino Laureato in Scienze e Tecniche Avanzate dello Sport Preparatore Fisico UIPASC
1 “Utilizzare i pesetti per aumentare la velocità delle tecniche di pugno serve realmente al praticante di SDC?”; Alain Riccaldi; 3 Marzo 2014; projectinvictus.it 2 “Co-attivazione muscolare e kinesiologia specializzata”; Silvano Schiochet; kinesiologiaspecializzata.it
Non avete a disposizione grandi mezzi ma volete ugualmente impegnare in maniera utile le vostre ore in quarantena? Ecco a voi qualche home workout da fare!
N.B: le seguenti proposte di allenamento sono finalizzate all’incremento della capacità aerobica e della potenza aerobica. Altre capacità organico-muscolari e sistemi energetici non verranno trattati in questo articolo.
Introduzione
Gli allenamenti qui riportati possono considerarsi come dei validi sostituti alla classica corsetta (o pedalata) di un’oretta, o agli sforzi più intensi (vogatore, sacco, corsa veloce). In breve…
Capacità aerobica = capacità dell’organismo di portare avanti sforzi che coinvolgono grosse masse muscolari per periodi di tempo più o meno lunghi (almeno 30 minuti) a intensità media o medio-alta (60-80% FC max), lavorando sulla gittata cardiaca.
Potenza aerobica = capacità dell’organismo di portare avanti sforzi che coinvolgono grosse masse muscolari per periodi di tempo limitati (2-8 minuti), lavorando ad alta intensità (≥ 90% FC) e a VO2max.
Aerobic capacity (tre esempi)
AC – Home workout 1
Shadow boxing (70-80% FC)
1′
Burpees (70-80% FC)
1′
Schivate e spostamenti, rec. attivo (60% FC)
1′
Un esercizio (vuoto) ad una buona intensità, seguito da un secondo a intensità analoga, più un terzo valevole come recupero attivo (intensità sensibilmente minore). Tutto è da eseguire di fila, il singolo giro (3′) è da ripetere per 10 volte, senza alcuna pausa fra un giro e l’altro (30 minuti di lavoro in totale). È consigliato l’utilizzo di un cardiofrequenzimetro al fine di monitorare il principale parametro allenante (la frequenza cardiaca sotto sforzo), in alternativa ci si può autoregolare “a sensazione”, con la scala degli RPE.
AC – Home workout 2
Jump rope (80% FC)
1′
Shadow boxing (70-80% FC)
1′
Burpees (70-80% FC)
1′
Schivate e spostamenti, rec. attivo (60% FC)
1′
Tre minuti di lavoro (1′ – 1′ – 1′) consecutivi a intensità medio-alta, seguiti da un minuto di recupero attivo, quindi di intensità più moderata (schivate e spostamenti). Come prima, le quattro “stazioni” sono da eseguire di fila e fra un giro e l’altro non c’è alcun recupero. In totale sono 10 giri (4′ x 10), quindi 40 minuti di lavoro.
AC – Home workout 3
Jump rope (80% FC)
1′
Shadow boxing (70-80% FC)
1′
Burpees (70-80% FC)
1′
Shadow boxing (70-80% FC)
1′
Schivate e spostamenti, rec. attivo (60% FC)
1′
Quattro minuti di lavoro (1′ – 1′ – 1′ – 1′) consecutivi a intensità medio-alta, seguiti da un minuto di recupero attivo, quindi di intensità più moderata (schivate e spostamenti). Le cinque “stazioni” sono da eseguire di fila e fra un giro e l’altro non c’è alcun recupero. In totale sono 10 giri (5′ x 10), quindi 50 minuti di lavoro.
Aerobic power (tre esempi)
AP – Home workout (Tabata) 1
Burpees 8×20″ (rec. 10″) x 3-4 giri (3-4′)
Un blocco consta di 8 serie da 20 secondi di lavoro ad alta intensità (≥ 90% FC), intervallate da 10 secondi di recupero (passivo). Si eseguono 3 o 4 blocchi, separati da un recupero, sempre passivo, di 3 o 4 minuti. È consigliabile rimanere entro i 20 minuti di lavoro netto (quindi recuperi esclusi).
AP – Home workout 2
Shadow boxing 3-4×3′ (rec. 3-4′), ≥ 85-90% FC
Tre o quattro serie di vuoto ad alta intensità separate da un lungo recupero (passivo).
AP – Home workout 3
Shadow boxing (≥ 85-90% FC)
1′
Burpees (≥ 85-90% FC)
1′
Shadow boxing (≥ 85-90% FC)
1′
Quello riportato sopra è un singolo giro da ripetere 3 o 4 volte (3-4′ di recupero fra un giro e l’altro).
E poi?
Qualora voleste maggiori informazioni, o consulenze personalizzate, potete ricorrere al altri servizi qui descritti.
Prosegue la serie di articoli sulle asimmetrie, ora è il momento di parlare di quelle che colpiscono gli sprinter.
Quanto segue è un breve estratto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive. Buona lettura!
Fisiologico o patologico?
La questione asimmetrie sì, asimmetrie no, tutt’ora non è chiara in letteratura scientifica. Come fatto notare da una critical review comparsa nel 2018 sul Journal of Strength and Conditioning Research1, non possiamo dire con sicurezza se l’asimmetria di forza o esplosività fra i due arti inferiori influisca o meno sulle prestazioni degli sprinter. I dati sono contrastanti e certi studi sono metodologicamente mal svolti. Sannicandro e colleghi2 hanno osservato una influenza negativa delle asimmetrie negli sprint particolarmente brevi (entro i 20 m), Lockie et al.3 il contrario. Parecchi altri studi non hanno rilevato legami di alcun tipo fra eventuali asimmetrie e prestazioni sportive di corsa veloce o infortuni 4,5,6,7,8.
Osservando il grafico riportato sopra, possiamo notare come importanti asimmetrie siano molto comuni negli sprinter di alto livello (Haugen T. et al., 2018; infografica a cura della pagina Strength and Conditioning Research).
«Molti esperti di allenamento della forza, fisiologi e ricercatori hanno proposto che dovremmo cercare di ridurre l’asimmetria del movimento durante lo sport, al fine di migliorare le prestazioni e ridurre il rischio di infortuni. Tuttavia, come dimostra questo nuovo studio sugli sprinter di pista, l’asimmetria del movimento è estremamente comune durante lo sprint e non è correlata né alle prestazioni di sprint né al rischio di lesioni. È quasi come se l’asimmetria fosse una caratteristica del tutto naturale del movimento umano»6.
Conclusioni
Quindi, con le prove a nostra disposizione possiamo affermare che le asimmetrie nello sprint sono fisiologiche e non paiono essere dannose per gli atleti. Senza però avere la presunzione che questa sia la “verità definitiva”, dato che c’è ancora molto da indagare e da scoprire.
1 Maloney S. J. – The relationship between asymmetry and athletic performance: A critical review (2018) 2 Sannicandro I. et al. – Correlation between functional asymmetry of professional soccer players and sprint (2011) 3 Lockie R. G. et al. – The relationship between bilateral differences of knee flexor and extensor isokinetic strength and multi-directional speed (2012) 4 Exell T. et al. – Strength and performance asymmetry during maximal velocity sprint running (2017) 5 Meyers R. W et al. – Asymmetry During Maximal Sprint Performance in 11- to 16-Year-Old Boys (2017) 6 Haugen T. et al. – Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters (2018 7 Lockie R. G. et al. – Relationship between unilateral jumping ability and asymmetry on multidirectional speed in team-sport athletes (2014) 8 Lockie R. G. et al. – Between-Leg Mechanical Differences as Measured by the Bulgarian Split-Squat: Exploring Asymmetries and Relationships with Sprint Acceleration (2017)
Quanto segue è il sunto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive.
Buona lettura.
Asimmetrie nei contesti sportivi: una definizione
Gli autori e ricercatori David Joyce e Daniel Lewindon, definiscono le asimmetrie sportive come: «la risposta naturale del corpo umano ad adattarsi alle esigenze atletiche aumentando la massa, sviluppando la forza o alterando la flessibilità dei tessuti molli posti sotto stress. A causa di ciò, gli atleti possono sviluppare asimmetrie o squilibri di corrispondenti tessuti molli, come ossa, muscoli o tendini. Ai fini della chiarezza, le ‘asimmetrie’ si riferiscono alle differenze da lato a lato in forza, dimensioni, flessibilità, raggio di movimento o posizionamento della stessa struttura anatomica» (Sports Injury Prevention and Rehabilitation, pag.88, 1a Ediz., 2015).
Da non confondere con gli squilibri muscolari, i quali indicano delle anomalie nei rapporti di forza e flessibilità fra i muscoli agonisti e antagonisti.
Pallavolo
Wang H. K. et al.1 in un uno studio pubblicato sul The Journal of sport medicine and physical fitness nel 2001 non osservarono correlazioni statisticamente significative fra l’asimmetria scapolare e infortuni (o dolori) in pallavolisti inglesi d’élite, benché in certi casi l’asimmetria fra il braccio dominante e quello non dominante – misurata tramite lo “scapula lateral slide test” – fosse notevole.
Nella figura sopra, il “lateral scapula slide test” (da Scapular dyskinesis: the surgeon’s perspective, Roche S. et al., 2015).
Uno studio più recente2 ha esaminato l’asimmetria scapolare di atleti che praticavano sport che comprendevano movimenti degli arti superiori sopra la testa, alcuni di questi erano dei pallavolisti. I ricercatori sono ricorsi a dei dispositivi di tracciamento elettromagnetici al fine di misurare la cinematica scapolare bilaterale 3D del braccio (Bilateral 3D scapular kinematics). Citando testualmente la parte finale dello studio, le conclusioni sono le seguenti: «Clinicians should be aware that some degree of scapular asymmetry may be normal in some athletes. It should not be considered automatically as a pathological sign but rather an adaptation to sports practice and extensive use of upper limb».
Conclusioni
Traducendo: «I medici dovrebbero essere consapevoli del fatto che un certo grado di asimmetria scapolare può essere normale in alcuni atleti. Non dovrebbe essere considerato automaticamente come un segno patologico, ma piuttosto come un adattamento alla pratica sportiva e all’uso esteso dell’arto superiore». Ciò è confermato da un altro più recente lavoro EBM.3
1 Wang H. K. et al. – Mobility impairment, muscle imbalance, muscle weakness, scapular asymmetry and shoulder injury in elite volleyball athletes (2001) 2 Ribeiro A et al. – Resting scapular posture in healthy overhead throwing athletes (2013) 3 Cools A. M. et al. – Prevention of shoulder injuries in overhead athletes: a science-based approach (2015)
Chi dorme non piglia pesci, ma chi non dorme non fa canestro (?)
Una storia, tante storie
È il pomeriggio del 26 febbraio, si giocano tre partite in quattro notti e il centrale dei Miami Heat, Hassan Whiteside, è in gran forma. L’indomani la squadra di quest’ultimo affronterà i Golden State Warrior e il giorno dopo ancora – 28 febbraio – voleranno tutti insieme a Houston per affrontare i Rockets. Ora però egli sta pensando all’orario a cui finirà la partita con i Warrior (22:00), quando saliranno in aereo per un altro volo (23:30), quando atterreranno a Huston (02:00) e quando giungeranno finalmente nell’hotel. Arriveranno lì almeno le tre di notte. Almeno. In quella stessa giornata dovranno poi giocare contro i Rockets.
«Il sonno conta, – dice Whiteside – conta molto. Potrebbe essere la differenza fra una giocata di carriera ed una terribile». Ma è dentro questa bugia che sta l’enigma della “NBA life”. Il sonno è una cosa tanto importante quanto sfuggevole. Come dice Whiteside: «È così difficile ottenere il sonno di cui hai bisogno». Il giocatore dei Miami Heat spera di guadagnare qualche ora di sonno durante il viaggio in aereo per Huston, che il letto dell’albergo sia ok e che la frequente assunzione di melatonina lo aiuti a chiudere gli occhi. Ma anche con i giusti accorgimenti, nell’attuale calendario NBA è possibile ottenere un sonno duraturo e di qualità? «No», dice Whiteside. «È impossibile, è impossibile».
La stanchezza è stata a lungo una costante nella vita dei giocatori dell’NBA. Parliamo di un campionato con squadre che giocano 82 partite in meno di 6 mesi, volando fino a 80.000 chilometri a stagione, abbastanza per girare due volte il globo. Durante la stagione 2018/2019 le squadre dell’NBA si sono spostate in aereo con una media di oltre 400 km al giorno, per 25 settimane di fila. Molti addetti ai lavori – giocatori, allenatori, preparatori – hanno fatto notare come gli sforzi fisici tipici dello sport, le interruzioni circadiane, i continui spostamenti fra zone con fusi orari differenti – non si sposino bene in un’ottica di salvaguardia della salute dell’atleta. I dati finora raccolti evidenziano come la privazione del sonno sia un flagello per l’NBA, un vaiolo che colpisce i corpi e le menti dei cestisti, lasciando segni profondi. Ci sono manager che lavorano per l’NBA e che, oltre a sottolineare il «grosso problema», dicono: «Abbiamo una grande popolazione di vampiri, servono delle soluzioni».
La salute e il benessere dei giocatori continuano a essere un punto focale per l’NBA
(Ufficio stampa NBA)
Nonostante le promesse e gli sfori della lega, la privazione del sonno è ancora uno dei principali fattori legati allo stato di salute degli atleti.
Ora, spostiamoci di qualche centinaio di chilometri.
Dalla sua postazione nello spogliatoio dello Staples Center di Los Angeles, Tobias Harris si guarda intorno. Poco dopo, indicando i suoi compagni di squadra dice: «Chiedi a chiunque nella stanza, sto parlando del sonno. Penso che fra un paio d’anni si parlerà dei problemi legati al sonno come ora si parla delle commozioni cerebrali nell’NFL (football americano, ndr)».
Alcuni compagni ci scherzano su: «Oh, c’è un momento in cui devi andare a letto». Ma Harris sa bene che: «Devo essere in forma ai massimi livelli per affrontare al meglio l’indomani».
Dati
Quanto riportato sopra è parte di un articolo di ESPN (tradotto, adattato e riassunto per l’occasione). Cogliendo la palla al balzo, in letteratura scientifica è stato appurato come un sonno lungo e regolare possa portare benefici alle prestazioni dei giocatori di basket (maggior precisione sui tiri a canestro, velocità, vigore e minor affaticamento) [1]. Un sonno incostante e breve (perennemente inferiore alle 8 ore) sul lungo periodo pare aumenti sensibilmente il rischio di infortunarsi [2]. Tra l’altro, anche le neuroscienze hanno fatto notare come la privazione di sonno porti le persone a desiderare più facilmente il junk food (cibo spazzatura) [3].
Amigdala e ipotalamo, fra le altre cose, si occupano del famigerato “sistema della ricompensa“. Basta dormire poco anche solamente una o due volte per far cadere il cervello in questo tranello della ricompensa. Insomma, una carenza di sonno porta queste due componenti ad essere stimolate ben più del normale qualora i nostri occhi si posino sui cibi che, in un’ottica edonistica, più ci soddisfano.
L’amigdala in particolare, se sovrastimolata, porta a far prediligere alle persone cibi notoriamente molto calorici (ricchi di zuccheri e grassi).
Conclusioni
Le conclusioni, per una volta, è il caso di lasciarle fare a qualcun altro.
Baxter Holmes – NBA exec: ‘It’s the dirty little secret that everybody knows about’ (2019) Migliaccio et al. – Finali notturne alle Olimpiadi: possibili influenze dei ritmi circadiani sulla perfomance? Studio pilota per Rio 2016. Da Strength & Conditioning Anno V, n.16 aprile-giugno (2016) Le Scienze – La carenza di sonno aumenta la voglia di Junk Food (2018) 1 Cheri et al. – The Effects of Sleep Extension on the Athletic Performance of Collegiate Basketball Players (2011) 2 Milewski M. D. et al. – Chronic lack of sleep is associated with increased sports injuries in adolescent athletes (2014) 3 Rihm J. S. et al. – Sleep deprivation selectively up-regulates an amygdala-hypothalamic circuit involved in food reward (2018)
Kobe Bryant è stato indubbiamente un giocatore che ha segnato più di una generazione. Basti pensare che se un somaro della pallacanestro come me è venuto a conoscenza dell’esistenza dei Los Angeles Lakers è proprio a causa di quel talentuoso e carismatico spilungone che per anni ha indossato il numero 24.
Pur avendo una scarsissima conoscenza del basket, ho sempre ammirato le frasi motivazionali di costui ed il suo approccio, quasi ossessivo-compulsivo, all’allenamento.
È difficile non risultare banale nel parlare di un giocatore su cui moltissime persone, sicuramente più competenti di me, hanno già detto e scritto di tutto. Ciò nonostante, riflettere su alcuni aspetti sportivi di quest’uomo può essere utile per provare a metabolizzare la sua prematura dipartita.
Anni fa, in una delle tante conferenze e interviste fatte durante la sua carriera, il compianto Kobe disse una cosa molto interessante:
Se il tuo lavoro è provare ad essere il miglior giocatore che puoi diventare, per arrivarci devi esercitarti e fare più allenamenti possibili, più spesso che puoi.
Se ti alzi alle 10 di mattina, inizi alle 12, per due ore, dalle 12 alle 14, poi devi recuperare. Quindi mangi e ti riposi. Poi di nuovo, allenamento dalle 18 fino alle 20. Poi va a casa, ti fai la doccia, mangi, vai a letto ed il giorno dopo di nuovo. Queste sono due sessioni.
Immagina se ti svegli alle 3, inizi dalle 4 fino alle 6, poi vai a casa, fai colazione, ti rilassi. Poi torni dalle 9 alle 11, ti rilassi di nuovo, poi torni dalle 14 alle 16, e di nuovo ti alleni dalle 19 alle 21. Guarda quanto mi sono allenato semplicemente iniziando alle 4!
Lo continui a fare negli anni e la differenza fra te e i tuoi avversari cresce sempre di più. Non importa quanto si siano allenati durante l’estate, non ti raggiungeranno mai perché sono 5 anni indietro!
Cosa apprendere da ciò? Tenendo a mente che la dichiarazione appena riportata è un esempio iperbolico, una voluta forzatura, un’esagerazione con cui il numero 24 dei Lakers voleva far capire al mondo cosa egli intendesse per “diventare la miglior versione di se stessi”… Ecco, io credo che proprio su quest’ultimo concetto occorra focalizzarsi. Diventare la miglior versione di se stessi. Avere un sogno, un obiettivo, una visione che soltanto noi possiamo vedere. Mettere a fuoco quell’obiettivo e migliorare il “my self” tramite del sacrificio quotidiano.
Al mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila.
Allenamento dopo allenamento, giorno dopo giorno, e goccia dopo goccia si arriva a frantumare la roccia. Cambiare prima il dentro, per eccellere poi fuori, un giorno. Lasciate perdere le scuse, di quelle tutti possono averne a bizzeffe. Sono i nostri sforzi, passo dopo passo, che ci rendono migliori. Un domani saranno proprio quei passetti che, a forza di accumularsi, ci permetteranno di tagliare il traguardo.
Se noi vogliamo diventare la miglior versione di noi stessi è perché crediamo che dentro di noi si annidi quella versione, dobbiamo solo percorrere la via necessaria a farcela tirare fuori. “Nietzschianamente” potremmo dire che più che diventare la miglior versione di noi stessi, dobbiamo semplicemente diventare noi stessi.
Possiamo dire che “diventare se stesso” significa far corrispondere in modo perfetto le proprie intenzioni, sogni e aspirazioni a ciò che si mostra di sé. Un individuo che sia diventato autenticamente se stesso è quello che non ha dovuto scendere al compromesso di scindere la propria vita tra ciò che è in realtà e ciò che mostra di sé.
Al sottoscritto resterà l’imperituro ricordo un atleta che si è fatto da solo e che ha dato un grande esempio di amore per lo sport e di dedizione all’allenamento sportivo. Una vera lezione di sacrificio e umiltà.
Discorso diverso per i veri appassionati di basket che ne ricorderanno, e forse emuleranno, le gesta atletiche e le emozioni provate nel vederlo giocare in diretta. A ognuno il suo.
Fra balzi esplosivi, bilancieri e palle mediche siete confusi e non sapete come organizzare una routine di allenamento? Questo articolo potrebbe fare al caso vostro!
Quanto segue è un riassunto, traduzione e adattamento di un articolo straniero (con qualche mia aggiunta). Buona lettura!
Introduzione
Il generare potenza è un aspetto cruciale di una performance nelle arti marziali miste (MMA). La potenza è alla base di molte delle tecniche più comuni nelle MMA, dal lanciarsi in un takedown, al portare un high kick o mettere a segno il pugno risolutore che metterà KO l’avversario. È proprio l’utilizzo della forza ad alte velocità (potenza) il fattore che determinerà l’efficacia delle proprie skills nella gabbia. Il portare bene, e con la giusta potenza, le combinazioni tecniche può fare la differenza: non è la stessa cosa vincere con una bella finalizzazione prima del limite o svegliarsi su un lettino d’ospedale in seguito ad un trauma cranico. Anche in letteratura scientifica è stato ben documentato che l’espressione della massima potenza è una caratteristica che distingue i fighter d’élite da quelli più mediocri [1]. Un altro studio scientifico di Loturco et al. (2016) ha dimostrato come le qualità di forza-potenza influiscano per circa il 75% sulla forza di impatto del pugno [2].
Punti chiave
Il miglioramento della tecnica porta a generare una maggior potenza nel proprio sport;
Un approccio che prevede l’utilizzo di più metodi di allenamento è superiore ad una approccio basato su un singolo metodo allenante (variare razionalmente gli stimoli è sempre cosa buona e giusta);
La forza rappresenta l’abc, la capacità fondamentale su cui poter costruire il resto;
La pliometria e l’allenamento balistico sono i metodi suggeriti per migliorare la capacità di generare forza in tempi brevi;
La capacità di sviluppare potenza può essere ulteriormente incrementata tramite il metodo P.A.P. (Post-activation potentiation) di cui parleremo al fondo dell’articolo.
Va ricordato che ciò che serve ad un praticante di sport da combattimento è innanzitutto un bel bagaglio tecnico, la giusta condizione atletica ottenibile tramite un intelligente protocollo di strength & conditioning è solo uno degli elementi necessari per ottenere la vittoria. Per quanto sia utile l’allenamento con sovraccarichi al fine di migliorare qualsiasi parametro delle prestazioni fisiche [3], l’allenamento specifico (tecnica, colpitori, sparring) è insostituibile.
Senza stress non c’è adattamento
Molti allenatori ritengono che la pliometria o gli esercizi leggermente zavorrati eseguiti ad alta velocità siano il metodo migliore (e talvolta solo) per migliorare la potenza per le MMA. Altri hanno un punto di vista più tradizionale, sostenendo che il metodo più efficace è lo sviluppo della forza massima attraverso un allenamento pesante. I sostenitori del sollevamento pesi in stile olimpico sostengono che il weightlifting è la miglior via per aumentare la potenza specifica delle MMA. Come con la maggior parte degli aspetti delle prestazioni di alto livello, la vera risposta sta nel mezzo.
Ciò significa che la massima potenza ha sia una componente di forza che di velocità. Se la forza spinge o “tira” un oggetto la velocità contribuisce a spostare quest’ultimo in una certa direzione a determinati m/s.
Tutto sta nel trovare un compromesso fra l’allenamento della forza massimale e quello della velocità.
Ci sono varie scuole di pensiero e metodi di lavoro. Si può allenare la forza massimale (pesi impegnativi spostati a bassa velocità), praticare weightlifting (alti pesi e alte velocità), praticare allenamento balistico (alta e bassa forza / alta velocità) o pliometria (bassa forza / alta velocità).
Ricapitolando…
Heavy strength training (high force/low velocity)
Weightlifting (high force/high velocity)
Ballistic training (high-low force/high velocity)
Plyometric exercises (low force/high velocity)
Come già accennato, non concentrarsi su un unico metodo ma alternarli è la cosa più saggia da fare, anche i test lo confermano [4,5].
Heavy Strength Training
L’allenamento della forza con carichi intensi ( ≥ 80% 1RM) è utile all’atleta per molte ragioni: aumenta la forza massimale, la coordinazione inter e intramuscolare, l’ipertrofia, la potenza, il tasso di sviluppo di forza (RFD, rate force-development), e così via [6,7,8]. Migliorando la forza, a cascata, entro un certo limite miglioreranno anche la velocità e la potenza. Per queste ragioni lo strength training deve far parte del protocollo di allenamento di ogni atleta di MMA. Tuttavia, se l’allenamento della forza ad alti carichi dà importanti miglioramenti sugli atleti principianti e intermedi (soggetti che non si allenano coi pesi da molti anni), con gli atleti più esperti la musica cambia. Chi si allena da molti anni e solleva carichi (kg) importanti non ha benefici significativi nel provare ad aumentare ulteriormente i dischi sul bilanciere nella panca piana o nello squat. Per questi atleti è importante continuare ad allenare la forza mantenendo buoni carichi di lavoro, evitando così il deallenamento, ma per eccellere in quanto a potenza devono concentrarsi su altro.
Weightlifting
Le alzate olimpiche sono efficacissime per migliorare potenza, RFD (rate force-development), coordinazione e gesti atletici molto comuni come il salto o la corsa veloce [9]. Il sequenziamento delle azioni muscolari è tra l’altro un importante principio di specificità, pertanto questi esercizi hanno un grande transfer sul gesto (specifico) di gara.
Il tuo compito è trovare il metodo più rapido ed efficiente per ottenere il risultato desiderato
Il weightlifting ha però un difetto non trascurabile: per molti le alzate sono tecnicamente difficili da eseguire, quasi impraticabili (a meno che qualcuno non voglia infortunarsi). Di conseguenza servono tanto tempo e pazienza per imparare a farle, ed ancora più tempo per riuscire a farle con carichi decenti sul bilanciere (uno strappo od uno slancio con 40 kg di carico non sono realmente allenanti per un atleta che di lì a poco dovrà entrare in gabbia). Bisogna mettere in conto che un atleta ventenne che vede per la prima volta un vero bilanciere olimpico magari non riuscirà mai a destreggiarsi nel clean & jerk (video sotto) con dei pesi dignitosi.
Come diceva l’allenatore Ado Gruzza in un suo libro, dopo 2 o 3 anni ben fatti di squat, panca e stacco da terra (powerlifting) un soggetto inizialmente principiante sarà diventato un bel torello, forte e potente, col weightlifting invece?
Sta quindi al coach capire se il proprio atleta può utilizzare le alzate olimpiche (eseguibili anche con kettlebell) o se è meglio concentrarsi su altri esercizi più alla sua portata, senza mettere troppa carne al fuoco.
Allenamento balistico
Un esercizio si dice balistico quando un atleta al termine della fase concentrica lascia andare l’attrezzo senza eseguire una fase eccentrica. Esempio pratico: se Giovanni lancia la palla medica contro il muro esegue solo la fase di spinta (concentrica) e poi lascia andare la palla (se non la lasciasse andare e richiamasse la braccia eseguirebbe anche la fase eccentrica). Possiamo considerare come balistici molti esercizi, dai salti al lancio di attrezzi. Il solo allenamento balistico è meno efficace dell’accoppiata allenamento balistico + allenamento della forza [10].
Il momento migliore per eseguire esercizi balistici è ad inizio allenamento, quando si è ancora freschi, o in accoppiata con esercizi volti all’incremento della forza massimale.
L’allenamento pliometrico si differenzia da quello balistico per la presenza di una breve contrazione eccentrica che ha come fine quello di potenziare la successiva fase concentrica. Il veloce passaggio da una fase eccentrica ad una successiva concentrica è detta stretch-shortening cycle (SSC) che possiamo tradurre come ciclo di stiramento-accorciamento. Infatti, un più rapido SSC può aumentare l’efficacia delle tecniche di striking, schivate o entrate alle gambe. Senza voler entrare troppo nei tecnicismi, come riportato dal team di Science for Sport nella pliometria i tempi di contatto fra l’estremità di un arto (o degli arti) e il terreno, a seconda della durata, possono essere divisi in due categorie: movimenti pliometrici veloci (≤ 0,250 sec.) e lenti (≥ 0,251 sec.).
Sopra vengono riportati i tempi medi di contatto con il terreno (istanti in cui avviene il ciclo di stiramento-accorciamento) in millisecondi. Tanto per fare degli esempi, gli sprint sono pliometria veloce, anche i salti in lungo ma non i salti con contro-movimento (slow plyometric exercise).
Sopra, le fasi di un salto pliometrico illustrate e spiegate dai nostri colleghi di @boxingscience. Durante l’atterraggio da un salto l’organismo può assorbire forze d’impatto pari a 3-10 volte il proprio peso [11,12], pertanto è necessario usare delle progressioni per creare un “adattamento anatomico” delle articolazioni ai salti pliometrici. Senza un adeguato condizionamento dell’apparato locomotore (attivo e passivo) gli infortuni sono sempre dietro l’angolo. Da qui l’importanza di utilizzare in una prima fase del training camp gli shock jump, per poi passare a salti più rapidi e impegnativi.
La PAP è una metodica di allenamento molto simile al più classico metodo a contrasto. Essa prevede lo stressare duramente l’organismo con uno sforzo sub-massimale per poi passare ad uno sforzo vagamente simile, senza peso, per incrementare le performance atletiche in un determinato gesto atletico.
Nel video l’atleta passa dall’eseguire 1/4 di squat per due volte (ripetizioni spezzate) al saltare più in alto che può (gesto atletico a corpo libero).
Se un atleta salta 60 cm, cifra d’esempio, l’obiettivo è quello di utilizzare la PAP per abituare il corpo, in tempi medio-brevi, a saltare quei 4 o 5 cm in più [13,14,15].
La PAP può essere utilizzata per rendere più veloci e potenti gli atleti in esercizi generici (salti di vario genere) o in movimenti più specifici. Volendo ci si può sbizzarrire abbinando l’esercizio di forma sub-massimale ad una breve combinazione di boxe, dei calci al sacco, un esercizio balistico, uno pliometrico, e così via. Esercizi con schemi di movimento, reclutamento di unità motorie e sequenziamento di muscoli e articolazioni simili devono essere accoppiati insieme per migliorare l’effetto di potenziamento.
Esempi pratici
PAP generica
Squat 4×2 (serie x ripetizioni) + Depth Jumps 4×4
Nello schema riportato sopra dopo ogni serie di squat (due ripetizioni) vengono eseguiti quattro depth jump (nel mezzo è consigliabile una breve pausa).
Weighted Pull-Ups 4×3 + Reactive Med Ball Slams 4×4
Affondi con manubri verso dietro 4×4 (a lato) + ginocchiate contro sacco/pad 4×4
Panca piana con catene 4×3 + pugni al sacco pesante 4×6 sec.
Sempre riguardo alla PAP è consigliabile tenere un basso volume (3-5 serie x 4-6 ripetizioni) di allenamento in modo da non sporcare troppo la tecnica e scongiurare un prematuro affaticamento. Di contro, l’intensità dev’essere piuttosto elevata per l’alzata pesante (1-3 RM) e molto leggera sul secondo esercizio (<30% 1RM o corpo libero). Bisogna inoltre motivare l’atleta affinché egli esegua gli esercizi alla massima esplosività possibile.
A differenza del metodo a contrasto, dove si passa dall’alzata pesante all’esercizio esplosivo senza pause, qui si consiglia un recupero di 30-60 secondi fra i due esercizi e 2-3 minuti fra le serie. Vi sono anche studi che parlano di tempi di recupero nella serie (fra i due esercizi) vicini o superiori addirittura ai 10 minuti (Wilson J. M. et al., 2013), tuttavia ciò è poco funzionale a causa dell’enorme dilatazione dei tempi di lavoro e l’esperienza pratica porta a suggerire di rimanere su tempi più umani (30″-1′), in modo da poter accumulare un maggiore volume di allenamento.
Conclusioni
Come sempre, questi metodi e suggerimenti dovrebbero essere considerati insieme agli obiettivi dell’atleta, alla storia dell’allenamento e a vari tratti individuali che possono limitare determinati approcci. L’approccio misto risulta spesso il più indicato ma nulla vieta di concentrarsi su uno o due metodi inseriti nei momenti più opportuni all’interno di un macrociclo di allenamento.
Per ulteriori approfondimenti vi sono altre letture da fare (elenco sotto), oppure potete scegliere una consulenza Skype col sottoscritto o farvi allenare(anche a distanza).
PJ Nestler – Optimizing Power for MMA (2019) 1 Franchini, E. et al. – Physiological Profiles of Elite Judo Athletes (2011) 2 Loturco, Irineu, et al. – Strength and Power Qualities Are Highly Associated With Punching Impact in Elite Amateur Boxers (2016) 3 Stone, M., Stone, M., & Lamont, H. (n.d.). Explosive Exercise. Retrieved November 20, 2017 4 Cormie P. et al. – Power Versus Strength-Power Jump Squat Training (2007) 5 Fatouros I. G. et al. – Evaluation of Plyometric Exercise Training, Weight Training, and Their Combination on Vertical Jumping Performance and Leg Strength (2000) 6 Cronin J. et al. – The role of maximal strength and load on initial power production (2000) 7 Antonio, J. – Nonuniform response of skeletal muscle to heavy resistance training: can bodybuilders induce regional muscle hypertrophy? (2000) 8 Behm, D. – Neuromuscular implications and applications of resistance training (1995) 9 Hori N. et al. – Does Performance of Hang Power Clean Differentiate Performance of Jumping, Sprinting, and Changing of Direction? (2008) 10 James, Lachlan – Mixed methods power development for mixed martial arts: A review of the literature (2014) 11 Witzke K. et al. – Effects of plyometric jump training on bone mass in adolescent girls (2000) 12 Hayes W. et al. – Toward a definition of impact loading in exercise studies of bone (1997) 13 Baudry S. et al. – Postactivation potentiation in human muscle is not related to the type of maximal conditioning contraction (2004) 14 French D. N. et al. – Changes in Dynamic Exercise Performance Following a Sequence of Preconditioning Isometric Muscle Actions (2003) 15 Wilson J. M. et al. – Meta-Analysis of Postactivation Potentiation and Power (2013)
Ogni tanto si legge di atleti, magari anche famosi, che alternano le proprie sessioni tecniche (boxe/mma/muay thai/lotta) ad allenamenti in piscina. La cosa può funzionare? Discutiamone brevemente.
Principio di Archimede e articolazioni
Chiunque abbia un minimo di memoria riguardo ciò che ha studiato al liceo si ricorderà della legge (o principio) di Archimede. Secondo quest’ultima, un corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido, in questo caso l’acqua, riceve una spinta dal basso verso l’alto di intensità uguale a quella del fluido spostato.
Immergersi in acqua non fa valere le solite regole della forza di gravità terrestre, questo rende il nuoto meno stressante per le articolazioni umane, da qui l’interesse che molti praticanti di sport di combattimento nutrono nei confronti dell’acquaticità.
Nuoto o movimento in acqua?
Va specificato che “allenarsi in acqua” non significa necessariamente mettersi a nuotare e fare vasche su vasche.
Moltissimi atleti si limitano semplicemente a fare movimento in acqua con balzi, shadow boxing o a spostare oggetti (bilancieri di plastica, maniglie di gomma).
Occorre sottolineare che la maggior parte delle persone, sportive e non, generalmente non ha una buona tecnica natatoria. Eventuali lezioni di nuoto toglierebbero tempo ed energie, anche mentali, ad altri allenamenti più utili e specifici.
In acqua la propriocezione e l’esterocezione sono assolutamente alterate rispetto a quel che poi succederà sul ring, tatami o gabbia. Per questo sarebbe meglio relegare questi stimoli allenanti alla preparazione generale (GPP).
Qui sotto un allenamento di power endurance fatto svolgere a Marvin Vettori (atleta UFC).
Conclusioni
In un protocollo di strength & conditioning molte cose possono funzionare, il nuoto ed il movimento in acqua non fanno eccezione, a patto che sia monitorata la frequenza cardiaca (parametro di fondamentale importanza) e che, come detto poco fa, i lavori acquatici rientrino nella fase di preparazione atletica generale.
All’estremità di ogni fibra muscolare, la membrana plasmatica si fonde con una struttura fibrosa che si inserisce nell’osso (o sulla pelle), questa struttura è il tendine.
In alto a sinistra è osservabile il tendine che si inserisce sull’osso
Definizione generale
I celebri ricercatori Wilmore e Costill nel libro Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport definiscono i tendini come strutture fatte di corde fibrose (o fili) di tessuto connettivo che trasmettono la forza generata dalle fibre muscolari alle ossa, creando così movimento. I tendini sono formati da fibroblasti e matrice extracellulare. I primi sintetizzano sostanze della matrice extracellulare, ossia il collagene (sostanza resistente) e l’elastina (sostanza più elastica).
Come riporta uno studio di qualche anno fa [1], il tendine aiuta a facilitare il movimento e la stabilità articolare attraverso la tensione generata dal muscolo. I tendini possono anche immagazzinare preventivamente l’energia che poi sarà utilizzata per dei movimenti successivi. Ad esempio, il tendine di Achille può immagazzinare fino al 34% della potenza totale della caviglia.
Salute
Le fibre di collagene citate poco prima, sono fondamentali per fornire resistenza alla trazione del tendine. La disposizione parallela delle fibre di collagene fornisce resistenza al tendine permettendole di sperimentare grandi forze di trazione senza subire lesioni [2]. Quando un tendine sperimenta livelli di stress da carico superiori alla sua fisiologica capacità di trazione si verificano micro o macrotraumi, anche se difficilmente l’allenamento della forza porta a lesioni serie.
Come ampiamente spiegato in passato (qui), la solidità dei tendini è in buona parte legata a fattori genetici individuali, quindi legati alla nascita e non modificabili. Pertanto con un corretto allenamento si può migliorare ma solo fino a un certo punto.
Sopra, la classificazione degli infortuni tendinei (Brumitt J. et al., 2015).
In caso di gravi danni al tendine, come una sua rottura dello stesso, il movimento è seriamente compromesso (perdita totale, o quasi).
Come evidenziano studi condotti sia sugli uomini che sugli animali, l’allenamento contro resistenze (pesi) è in grado di aumentare la rigidità dei tendini [3,4]. I tendini, sul lungo periodo, rispondono all’allenamento con i sovraccarichi aumentando il numero e la densità delle fibrille di collagene [5,6].
Come riportato in letteratura scientifica [7] i tendini durante un ciclo di accorciamento-stiramento e durante le contrazioni isometriche massimali possono allungarsi fino dal 6 fino al 14%, inoltre se il tendine è lungo i fascicoli muscolari si allungano di meno. Un tendine più rigido è più prestante (assicura maggior potenza e velocità nei movimenti) ma è più soggetto agli infortuni.
I tendini si adattano meno rapidamente dei muscoli agli stimoli allenanti, pertanto è sempre buona cosa ricordarsi che il tempo da dare all’organismo affinché esso recuperi e si adatti ai carichi di lavoro non è solo utile per il tessuto muscolare. Anche perché bisogna tenere a mente che spesso molti infortuni sono proprio di origine tendinea.
Non si può non prendere in considerazione queste informazioni se si compila una scheda di allenamento o si lavora con degli atleti infortunati.
1 Brumitt J. et al. – Current concepts of muscle and tendon adaptation to strength and conditioning (2015) 2 Lieber R. L. – Skeletal Muscle Structure, Function, and Plasticity (2010) 3 Woo S. L. et al. – The effects of exercise on the biomechanical and biochemical properties of swine digital flexor tendons (1981) 4 Kubo K. et al. – Effects of resistance and stretching training programmes on the viscoelastic properties of human tendon structures in vivo (2002) 5 Huxley A. F. – Muscle structure and theories of contraction (1957) 6 Wood T. O. et al. – The effect of exercise and anabolic steroids on the mechanical properties and crimp morphology of the rat tendon (1988) 7 Thom J. M. et al. – Passive elongation of muscle fascicles in human muscles with short and long tendons (2017)