Prosegue la serie di articoli sulle asimmetrie, ora è il momento di parlare di quelle che colpiscono gli sprinter.
Quanto segue è un breve estratto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive. Buona lettura!
Fisiologico o patologico?
La questione asimmetrie sì, asimmetrie no, tutt’ora non è chiara in letteratura scientifica. Come fatto notare da una critical review comparsa nel 2018 sul Journal of Strength and Conditioning Research1, non possiamo dire con sicurezza se l’asimmetria di forza o esplosività fra i due arti inferiori influisca o meno sulle prestazioni degli sprinter. I dati sono contrastanti e certi studi sono metodologicamente mal svolti. Sannicandro e colleghi2 hanno osservato una influenza negativa delle asimmetrie negli sprint particolarmente brevi (entro i 20 m), Lockie et al.3 il contrario. Parecchi altri studi non hanno rilevato legami di alcun tipo fra eventuali asimmetrie e prestazioni sportive di corsa veloce o infortuni 4,5,6,7,8.
Osservando il grafico riportato sopra, possiamo notare come importanti asimmetrie siano molto comuni negli sprinter di alto livello (Haugen T. et al., 2018; infografica a cura della pagina Strength and Conditioning Research).
«Molti esperti di allenamento della forza, fisiologi e ricercatori hanno proposto che dovremmo cercare di ridurre l’asimmetria del movimento durante lo sport, al fine di migliorare le prestazioni e ridurre il rischio di infortuni. Tuttavia, come dimostra questo nuovo studio sugli sprinter di pista, l’asimmetria del movimento è estremamente comune durante lo sprint e non è correlata né alle prestazioni di sprint né al rischio di lesioni. È quasi come se l’asimmetria fosse una caratteristica del tutto naturale del movimento umano»6.
Conclusioni
Quindi, con le prove a nostra disposizione possiamo affermare che le asimmetrie nello sprint sono fisiologiche e non paiono essere dannose per gli atleti. Senza però avere la presunzione che questa sia la “verità definitiva”, dato che c’è ancora molto da indagare e da scoprire.
1 Maloney S. J. – The relationship between asymmetry and athletic performance: A critical review (2018) 2 Sannicandro I. et al. – Correlation between functional asymmetry of professional soccer players and sprint (2011) 3 Lockie R. G. et al. – The relationship between bilateral differences of knee flexor and extensor isokinetic strength and multi-directional speed (2012) 4 Exell T. et al. – Strength and performance asymmetry during maximal velocity sprint running (2017) 5 Meyers R. W et al. – Asymmetry During Maximal Sprint Performance in 11- to 16-Year-Old Boys (2017) 6 Haugen T. et al. – Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters (2018 7 Lockie R. G. et al. – Relationship between unilateral jumping ability and asymmetry on multidirectional speed in team-sport athletes (2014) 8 Lockie R. G. et al. – Between-Leg Mechanical Differences as Measured by the Bulgarian Split-Squat: Exploring Asymmetries and Relationships with Sprint Acceleration (2017)
Quanto segue è il sunto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive.
Buona lettura.
Asimmetrie nei contesti sportivi: una definizione
Gli autori e ricercatori David Joyce e Daniel Lewindon, definiscono le asimmetrie sportive come: «la risposta naturale del corpo umano ad adattarsi alle esigenze atletiche aumentando la massa, sviluppando la forza o alterando la flessibilità dei tessuti molli posti sotto stress. A causa di ciò, gli atleti possono sviluppare asimmetrie o squilibri di corrispondenti tessuti molli, come ossa, muscoli o tendini. Ai fini della chiarezza, le ‘asimmetrie’ si riferiscono alle differenze da lato a lato in forza, dimensioni, flessibilità, raggio di movimento o posizionamento della stessa struttura anatomica» (Sports Injury Prevention and Rehabilitation, pag.88, 1a Ediz., 2015).
Da non confondere con gli squilibri muscolari, i quali indicano delle anomalie nei rapporti di forza e flessibilità fra i muscoli agonisti e antagonisti.
Pallavolo
Wang H. K. et al.1 in un uno studio pubblicato sul The Journal of sport medicine and physical fitness nel 2001 non osservarono correlazioni statisticamente significative fra l’asimmetria scapolare e infortuni (o dolori) in pallavolisti inglesi d’élite, benché in certi casi l’asimmetria fra il braccio dominante e quello non dominante – misurata tramite lo “scapula lateral slide test” – fosse notevole.
Nella figura sopra, il “lateral scapula slide test” (da Scapular dyskinesis: the surgeon’s perspective, Roche S. et al., 2015).
Uno studio più recente2 ha esaminato l’asimmetria scapolare di atleti che praticavano sport che comprendevano movimenti degli arti superiori sopra la testa, alcuni di questi erano dei pallavolisti. I ricercatori sono ricorsi a dei dispositivi di tracciamento elettromagnetici al fine di misurare la cinematica scapolare bilaterale 3D del braccio (Bilateral 3D scapular kinematics). Citando testualmente la parte finale dello studio, le conclusioni sono le seguenti: «Clinicians should be aware that some degree of scapular asymmetry may be normal in some athletes. It should not be considered automatically as a pathological sign but rather an adaptation to sports practice and extensive use of upper limb».
Conclusioni
Traducendo: «I medici dovrebbero essere consapevoli del fatto che un certo grado di asimmetria scapolare può essere normale in alcuni atleti. Non dovrebbe essere considerato automaticamente come un segno patologico, ma piuttosto come un adattamento alla pratica sportiva e all’uso esteso dell’arto superiore». Ciò è confermato da un altro più recente lavoro EBM.3
1 Wang H. K. et al. – Mobility impairment, muscle imbalance, muscle weakness, scapular asymmetry and shoulder injury in elite volleyball athletes (2001) 2 Ribeiro A et al. – Resting scapular posture in healthy overhead throwing athletes (2013) 3 Cools A. M. et al. – Prevention of shoulder injuries in overhead athletes: a science-based approach (2015)
Chi dorme non piglia pesci, ma chi non dorme non fa canestro (?)
Una storia, tante storie
È il pomeriggio del 26 febbraio, si giocano tre partite in quattro notti e il centrale dei Miami Heat, Hassan Whiteside, è in gran forma. L’indomani la squadra di quest’ultimo affronterà i Golden State Warrior e il giorno dopo ancora – 28 febbraio – voleranno tutti insieme a Houston per affrontare i Rockets. Ora però egli sta pensando all’orario a cui finirà la partita con i Warrior (22:00), quando saliranno in aereo per un altro volo (23:30), quando atterreranno a Huston (02:00) e quando giungeranno finalmente nell’hotel. Arriveranno lì almeno le tre di notte. Almeno. In quella stessa giornata dovranno poi giocare contro i Rockets.
«Il sonno conta, – dice Whiteside – conta molto. Potrebbe essere la differenza fra una giocata di carriera ed una terribile». Ma è dentro questa bugia che sta l’enigma della “NBA life”. Il sonno è una cosa tanto importante quanto sfuggevole. Come dice Whiteside: «È così difficile ottenere il sonno di cui hai bisogno». Il giocatore dei Miami Heat spera di guadagnare qualche ora di sonno durante il viaggio in aereo per Huston, che il letto dell’albergo sia ok e che la frequente assunzione di melatonina lo aiuti a chiudere gli occhi. Ma anche con i giusti accorgimenti, nell’attuale calendario NBA è possibile ottenere un sonno duraturo e di qualità? «No», dice Whiteside. «È impossibile, è impossibile».
La stanchezza è stata a lungo una costante nella vita dei giocatori dell’NBA. Parliamo di un campionato con squadre che giocano 82 partite in meno di 6 mesi, volando fino a 80.000 chilometri a stagione, abbastanza per girare due volte il globo. Durante la stagione 2018/2019 le squadre dell’NBA si sono spostate in aereo con una media di oltre 400 km al giorno, per 25 settimane di fila. Molti addetti ai lavori – giocatori, allenatori, preparatori – hanno fatto notare come gli sforzi fisici tipici dello sport, le interruzioni circadiane, i continui spostamenti fra zone con fusi orari differenti – non si sposino bene in un’ottica di salvaguardia della salute dell’atleta. I dati finora raccolti evidenziano come la privazione del sonno sia un flagello per l’NBA, un vaiolo che colpisce i corpi e le menti dei cestisti, lasciando segni profondi. Ci sono manager che lavorano per l’NBA e che, oltre a sottolineare il «grosso problema», dicono: «Abbiamo una grande popolazione di vampiri, servono delle soluzioni».
La salute e il benessere dei giocatori continuano a essere un punto focale per l’NBA
(Ufficio stampa NBA)
Nonostante le promesse e gli sfori della lega, la privazione del sonno è ancora uno dei principali fattori legati allo stato di salute degli atleti.
Ora, spostiamoci di qualche centinaio di chilometri.
Dalla sua postazione nello spogliatoio dello Staples Center di Los Angeles, Tobias Harris si guarda intorno. Poco dopo, indicando i suoi compagni di squadra dice: «Chiedi a chiunque nella stanza, sto parlando del sonno. Penso che fra un paio d’anni si parlerà dei problemi legati al sonno come ora si parla delle commozioni cerebrali nell’NFL (football americano, ndr)».
Alcuni compagni ci scherzano su: «Oh, c’è un momento in cui devi andare a letto». Ma Harris sa bene che: «Devo essere in forma ai massimi livelli per affrontare al meglio l’indomani».
Dati
Quanto riportato sopra è parte di un articolo di ESPN (tradotto, adattato e riassunto per l’occasione). Cogliendo la palla al balzo, in letteratura scientifica è stato appurato come un sonno lungo e regolare possa portare benefici alle prestazioni dei giocatori di basket (maggior precisione sui tiri a canestro, velocità, vigore e minor affaticamento) [1]. Un sonno incostante e breve (perennemente inferiore alle 8 ore) sul lungo periodo pare aumenti sensibilmente il rischio di infortunarsi [2]. Tra l’altro, anche le neuroscienze hanno fatto notare come la privazione di sonno porti le persone a desiderare più facilmente il junk food (cibo spazzatura) [3].
Amigdala e ipotalamo, fra le altre cose, si occupano del famigerato “sistema della ricompensa“. Basta dormire poco anche solamente una o due volte per far cadere il cervello in questo tranello della ricompensa. Insomma, una carenza di sonno porta queste due componenti ad essere stimolate ben più del normale qualora i nostri occhi si posino sui cibi che, in un’ottica edonistica, più ci soddisfano.
L’amigdala in particolare, se sovrastimolata, porta a far prediligere alle persone cibi notoriamente molto calorici (ricchi di zuccheri e grassi).
Conclusioni
Le conclusioni, per una volta, è il caso di lasciarle fare a qualcun altro.
Baxter Holmes – NBA exec: ‘It’s the dirty little secret that everybody knows about’ (2019) Migliaccio et al. – Finali notturne alle Olimpiadi: possibili influenze dei ritmi circadiani sulla perfomance? Studio pilota per Rio 2016. Da Strength & Conditioning Anno V, n.16 aprile-giugno (2016) Le Scienze – La carenza di sonno aumenta la voglia di Junk Food (2018) 1 Cheri et al. – The Effects of Sleep Extension on the Athletic Performance of Collegiate Basketball Players (2011) 2 Milewski M. D. et al. – Chronic lack of sleep is associated with increased sports injuries in adolescent athletes (2014) 3 Rihm J. S. et al. – Sleep deprivation selectively up-regulates an amygdala-hypothalamic circuit involved in food reward (2018)
Kobe Bryant è stato indubbiamente un giocatore che ha segnato più di una generazione. Basti pensare che se un somaro della pallacanestro come me è venuto a conoscenza dell’esistenza dei Los Angeles Lakers è proprio a causa di quel talentuoso e carismatico spilungone che per anni ha indossato il numero 24.
Pur avendo una scarsissima conoscenza del basket, ho sempre ammirato le frasi motivazionali di costui ed il suo approccio, quasi ossessivo-compulsivo, all’allenamento.
È difficile non risultare banale nel parlare di un giocatore su cui moltissime persone, sicuramente più competenti di me, hanno già detto e scritto di tutto. Ciò nonostante, riflettere su alcuni aspetti sportivi di quest’uomo può essere utile per provare a metabolizzare la sua prematura dipartita.
Anni fa, in una delle tante conferenze e interviste fatte durante la sua carriera, il compianto Kobe disse una cosa molto interessante:
Se il tuo lavoro è provare ad essere il miglior giocatore che puoi diventare, per arrivarci devi esercitarti e fare più allenamenti possibili, più spesso che puoi.
Se ti alzi alle 10 di mattina, inizi alle 12, per due ore, dalle 12 alle 14, poi devi recuperare. Quindi mangi e ti riposi. Poi di nuovo, allenamento dalle 18 fino alle 20. Poi va a casa, ti fai la doccia, mangi, vai a letto ed il giorno dopo di nuovo. Queste sono due sessioni.
Immagina se ti svegli alle 3, inizi dalle 4 fino alle 6, poi vai a casa, fai colazione, ti rilassi. Poi torni dalle 9 alle 11, ti rilassi di nuovo, poi torni dalle 14 alle 16, e di nuovo ti alleni dalle 19 alle 21. Guarda quanto mi sono allenato semplicemente iniziando alle 4!
Lo continui a fare negli anni e la differenza fra te e i tuoi avversari cresce sempre di più. Non importa quanto si siano allenati durante l’estate, non ti raggiungeranno mai perché sono 5 anni indietro!
Cosa apprendere da ciò? Tenendo a mente che la dichiarazione appena riportata è un esempio iperbolico, una voluta forzatura, un’esagerazione con cui il numero 24 dei Lakers voleva far capire al mondo cosa egli intendesse per “diventare la miglior versione di se stessi”… Ecco, io credo che proprio su quest’ultimo concetto occorra focalizzarsi. Diventare la miglior versione di se stessi. Avere un sogno, un obiettivo, una visione che soltanto noi possiamo vedere. Mettere a fuoco quell’obiettivo e migliorare il “my self” tramite del sacrificio quotidiano.
Al mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila.
Allenamento dopo allenamento, giorno dopo giorno, e goccia dopo goccia si arriva a frantumare la roccia. Cambiare prima il dentro, per eccellere poi fuori, un giorno. Lasciate perdere le scuse, di quelle tutti possono averne a bizzeffe. Sono i nostri sforzi, passo dopo passo, che ci rendono migliori. Un domani saranno proprio quei passetti che, a forza di accumularsi, ci permetteranno di tagliare il traguardo.
Se noi vogliamo diventare la miglior versione di noi stessi è perché crediamo che dentro di noi si annidi quella versione, dobbiamo solo percorrere la via necessaria a farcela tirare fuori. “Nietzschianamente” potremmo dire che più che diventare la miglior versione di noi stessi, dobbiamo semplicemente diventare noi stessi.
Possiamo dire che “diventare se stesso” significa far corrispondere in modo perfetto le proprie intenzioni, sogni e aspirazioni a ciò che si mostra di sé. Un individuo che sia diventato autenticamente se stesso è quello che non ha dovuto scendere al compromesso di scindere la propria vita tra ciò che è in realtà e ciò che mostra di sé.
Al sottoscritto resterà l’imperituro ricordo un atleta che si è fatto da solo e che ha dato un grande esempio di amore per lo sport e di dedizione all’allenamento sportivo. Una vera lezione di sacrificio e umiltà.
Discorso diverso per i veri appassionati di basket che ne ricorderanno, e forse emuleranno, le gesta atletiche e le emozioni provate nel vederlo giocare in diretta. A ognuno il suo.
Fra balzi esplosivi, bilancieri e palle mediche siete confusi e non sapete come organizzare una routine di allenamento? Questo articolo potrebbe fare al caso vostro!
Quanto segue è un riassunto, traduzione e adattamento di un articolo straniero (con qualche mia aggiunta). Buona lettura!
Introduzione
Il generare potenza è un aspetto cruciale di una performance nelle arti marziali miste (MMA). La potenza è alla base di molte delle tecniche più comuni nelle MMA, dal lanciarsi in un takedown, al portare un high kick o mettere a segno il pugno risolutore che metterà KO l’avversario. È proprio l’utilizzo della forza ad alte velocità (potenza) il fattore che determinerà l’efficacia delle proprie skills nella gabbia. Il portare bene, e con la giusta potenza, le combinazioni tecniche può fare la differenza: non è la stessa cosa vincere con una bella finalizzazione prima del limite o svegliarsi su un lettino d’ospedale in seguito ad un trauma cranico. Anche in letteratura scientifica è stato ben documentato che l’espressione della massima potenza è una caratteristica che distingue i fighter d’élite da quelli più mediocri [1]. Un altro studio scientifico di Loturco et al. (2016) ha dimostrato come le qualità di forza-potenza influiscano per circa il 75% sulla forza di impatto del pugno [2].
Punti chiave
Il miglioramento della tecnica porta a generare una maggior potenza nel proprio sport;
Un approccio che prevede l’utilizzo di più metodi di allenamento è superiore ad una approccio basato su un singolo metodo allenante (variare razionalmente gli stimoli è sempre cosa buona e giusta);
La forza rappresenta l’abc, la capacità fondamentale su cui poter costruire il resto;
La pliometria e l’allenamento balistico sono i metodi suggeriti per migliorare la capacità di generare forza in tempi brevi;
La capacità di sviluppare potenza può essere ulteriormente incrementata tramite il metodo P.A.P. (Post-activation potentiation) di cui parleremo al fondo dell’articolo.
Va ricordato che ciò che serve ad un praticante di sport da combattimento è innanzitutto un bel bagaglio tecnico, la giusta condizione atletica ottenibile tramite un intelligente protocollo di strength & conditioning è solo uno degli elementi necessari per ottenere la vittoria. Per quanto sia utile l’allenamento con sovraccarichi al fine di migliorare qualsiasi parametro delle prestazioni fisiche [3], l’allenamento specifico (tecnica, colpitori, sparring) è insostituibile.
Senza stress non c’è adattamento
Molti allenatori ritengono che la pliometria o gli esercizi leggermente zavorrati eseguiti ad alta velocità siano il metodo migliore (e talvolta solo) per migliorare la potenza per le MMA. Altri hanno un punto di vista più tradizionale, sostenendo che il metodo più efficace è lo sviluppo della forza massima attraverso un allenamento pesante. I sostenitori del sollevamento pesi in stile olimpico sostengono che il weightlifting è la miglior via per aumentare la potenza specifica delle MMA. Come con la maggior parte degli aspetti delle prestazioni di alto livello, la vera risposta sta nel mezzo.
Ciò significa che la massima potenza ha sia una componente di forza che di velocità. Se la forza spinge o “tira” un oggetto la velocità contribuisce a spostare quest’ultimo in una certa direzione a determinati m/s.
Tutto sta nel trovare un compromesso fra l’allenamento della forza massimale e quello della velocità.
Ci sono varie scuole di pensiero e metodi di lavoro. Si può allenare la forza massimale (pesi impegnativi spostati a bassa velocità), praticare weightlifting (alti pesi e alte velocità), praticare allenamento balistico (alta e bassa forza / alta velocità) o pliometria (bassa forza / alta velocità).
Ricapitolando…
Heavy strength training (high force/low velocity)
Weightlifting (high force/high velocity)
Ballistic training (high-low force/high velocity)
Plyometric exercises (low force/high velocity)
Come già accennato, non concentrarsi su un unico metodo ma alternarli è la cosa più saggia da fare, anche i test lo confermano [4,5].
Heavy Strength Training
L’allenamento della forza con carichi intensi ( ≥ 80% 1RM) è utile all’atleta per molte ragioni: aumenta la forza massimale, la coordinazione inter e intramuscolare, l’ipertrofia, la potenza, il tasso di sviluppo di forza (RFD, rate force-development), e così via [6,7,8]. Migliorando la forza, a cascata, entro un certo limite miglioreranno anche la velocità e la potenza. Per queste ragioni lo strength training deve far parte del protocollo di allenamento di ogni atleta di MMA. Tuttavia, se l’allenamento della forza ad alti carichi dà importanti miglioramenti sugli atleti principianti e intermedi (soggetti che non si allenano coi pesi da molti anni), con gli atleti più esperti la musica cambia. Chi si allena da molti anni e solleva carichi (kg) importanti non ha benefici significativi nel provare ad aumentare ulteriormente i dischi sul bilanciere nella panca piana o nello squat. Per questi atleti è importante continuare ad allenare la forza mantenendo buoni carichi di lavoro, evitando così il deallenamento, ma per eccellere in quanto a potenza devono concentrarsi su altro.
Weightlifting
Le alzate olimpiche sono efficacissime per migliorare potenza, RFD (rate force-development), coordinazione e gesti atletici molto comuni come il salto o la corsa veloce [9]. Il sequenziamento delle azioni muscolari è tra l’altro un importante principio di specificità, pertanto questi esercizi hanno un grande transfer sul gesto (specifico) di gara.
Il tuo compito è trovare il metodo più rapido ed efficiente per ottenere il risultato desiderato
Il weightlifting ha però un difetto non trascurabile: per molti le alzate sono tecnicamente difficili da eseguire, quasi impraticabili (a meno che qualcuno non voglia infortunarsi). Di conseguenza servono tanto tempo e pazienza per imparare a farle, ed ancora più tempo per riuscire a farle con carichi decenti sul bilanciere (uno strappo od uno slancio con 40 kg di carico non sono realmente allenanti per un atleta che di lì a poco dovrà entrare in gabbia). Bisogna mettere in conto che un atleta ventenne che vede per la prima volta un vero bilanciere olimpico magari non riuscirà mai a destreggiarsi nel clean & jerk (video sotto) con dei pesi dignitosi.
Come diceva l’allenatore Ado Gruzza in un suo libro, dopo 2 o 3 anni ben fatti di squat, panca e stacco da terra (powerlifting) un soggetto inizialmente principiante sarà diventato un bel torello, forte e potente, col weightlifting invece?
Sta quindi al coach capire se il proprio atleta può utilizzare le alzate olimpiche (eseguibili anche con kettlebell) o se è meglio concentrarsi su altri esercizi più alla sua portata, senza mettere troppa carne al fuoco.
Allenamento balistico
Un esercizio si dice balistico quando un atleta al termine della fase concentrica lascia andare l’attrezzo senza eseguire una fase eccentrica. Esempio pratico: se Giovanni lancia la palla medica contro il muro esegue solo la fase di spinta (concentrica) e poi lascia andare la palla (se non la lasciasse andare e richiamasse la braccia eseguirebbe anche la fase eccentrica). Possiamo considerare come balistici molti esercizi, dai salti al lancio di attrezzi. Il solo allenamento balistico è meno efficace dell’accoppiata allenamento balistico + allenamento della forza [10].
Il momento migliore per eseguire esercizi balistici è ad inizio allenamento, quando si è ancora freschi, o in accoppiata con esercizi volti all’incremento della forza massimale.
L’allenamento pliometrico si differenzia da quello balistico per la presenza di una breve contrazione eccentrica che ha come fine quello di potenziare la successiva fase concentrica. Il veloce passaggio da una fase eccentrica ad una successiva concentrica è detta stretch-shortening cycle (SSC) che possiamo tradurre come ciclo di stiramento-accorciamento. Infatti, un più rapido SSC può aumentare l’efficacia delle tecniche di striking, schivate o entrate alle gambe. Senza voler entrare troppo nei tecnicismi, come riportato dal team di Science for Sport nella pliometria i tempi di contatto fra l’estremità di un arto (o degli arti) e il terreno, a seconda della durata, possono essere divisi in due categorie: movimenti pliometrici veloci (≤ 0,250 sec.) e lenti (≥ 0,251 sec.).
Sopra vengono riportati i tempi medi di contatto con il terreno (istanti in cui avviene il ciclo di stiramento-accorciamento) in millisecondi. Tanto per fare degli esempi, gli sprint sono pliometria veloce, anche i salti in lungo ma non i salti con contro-movimento (slow plyometric exercise).
Sopra, le fasi di un salto pliometrico illustrate e spiegate dai nostri colleghi di @boxingscience. Durante l’atterraggio da un salto l’organismo può assorbire forze d’impatto pari a 3-10 volte il proprio peso [11,12], pertanto è necessario usare delle progressioni per creare un “adattamento anatomico” delle articolazioni ai salti pliometrici. Senza un adeguato condizionamento dell’apparato locomotore (attivo e passivo) gli infortuni sono sempre dietro l’angolo. Da qui l’importanza di utilizzare in una prima fase del training camp gli shock jump, per poi passare a salti più rapidi e impegnativi.
La PAP è una metodica di allenamento molto simile al più classico metodo a contrasto. Essa prevede lo stressare duramente l’organismo con uno sforzo sub-massimale per poi passare ad uno sforzo vagamente simile, senza peso, per incrementare le performance atletiche in un determinato gesto atletico.
Nel video l’atleta passa dall’eseguire 1/4 di squat per due volte (ripetizioni spezzate) al saltare più in alto che può (gesto atletico a corpo libero).
Se un atleta salta 60 cm, cifra d’esempio, l’obiettivo è quello di utilizzare la PAP per abituare il corpo, in tempi medio-brevi, a saltare quei 4 o 5 cm in più [13,14,15].
La PAP può essere utilizzata per rendere più veloci e potenti gli atleti in esercizi generici (salti di vario genere) o in movimenti più specifici. Volendo ci si può sbizzarrire abbinando l’esercizio di forma sub-massimale ad una breve combinazione di boxe, dei calci al sacco, un esercizio balistico, uno pliometrico, e così via. Esercizi con schemi di movimento, reclutamento di unità motorie e sequenziamento di muscoli e articolazioni simili devono essere accoppiati insieme per migliorare l’effetto di potenziamento.
Esempi pratici
PAP generica
Squat 4×2 (serie x ripetizioni) + Depth Jumps 4×4
Nello schema riportato sopra dopo ogni serie di squat (due ripetizioni) vengono eseguiti quattro depth jump (nel mezzo è consigliabile una breve pausa).
Weighted Pull-Ups 4×3 + Reactive Med Ball Slams 4×4
Affondi con manubri verso dietro 4×4 (a lato) + ginocchiate contro sacco/pad 4×4
Panca piana con catene 4×3 + pugni al sacco pesante 4×6 sec.
Sempre riguardo alla PAP è consigliabile tenere un basso volume (3-5 serie x 4-6 ripetizioni) di allenamento in modo da non sporcare troppo la tecnica e scongiurare un prematuro affaticamento. Di contro, l’intensità dev’essere piuttosto elevata per l’alzata pesante (1-3 RM) e molto leggera sul secondo esercizio (<30% 1RM o corpo libero). Bisogna inoltre motivare l’atleta affinché egli esegua gli esercizi alla massima esplosività possibile.
A differenza del metodo a contrasto, dove si passa dall’alzata pesante all’esercizio esplosivo senza pause, qui si consiglia un recupero di 30-60 secondi fra i due esercizi e 2-3 minuti fra le serie. Vi sono anche studi che parlano di tempi di recupero nella serie (fra i due esercizi) vicini o superiori addirittura ai 10 minuti (Wilson J. M. et al., 2013), tuttavia ciò è poco funzionale a causa dell’enorme dilatazione dei tempi di lavoro e l’esperienza pratica porta a suggerire di rimanere su tempi più umani (30″-1′), in modo da poter accumulare un maggiore volume di allenamento.
Conclusioni
Come sempre, questi metodi e suggerimenti dovrebbero essere considerati insieme agli obiettivi dell’atleta, alla storia dell’allenamento e a vari tratti individuali che possono limitare determinati approcci. L’approccio misto risulta spesso il più indicato ma nulla vieta di concentrarsi su uno o due metodi inseriti nei momenti più opportuni all’interno di un macrociclo di allenamento.
Per ulteriori approfondimenti vi sono altre letture da fare (elenco sotto), oppure potete scegliere una consulenza Skype col sottoscritto o farvi allenare(anche a distanza).
PJ Nestler – Optimizing Power for MMA (2019) 1 Franchini, E. et al. – Physiological Profiles of Elite Judo Athletes (2011) 2 Loturco, Irineu, et al. – Strength and Power Qualities Are Highly Associated With Punching Impact in Elite Amateur Boxers (2016) 3 Stone, M., Stone, M., & Lamont, H. (n.d.). Explosive Exercise. Retrieved November 20, 2017 4 Cormie P. et al. – Power Versus Strength-Power Jump Squat Training (2007) 5 Fatouros I. G. et al. – Evaluation of Plyometric Exercise Training, Weight Training, and Their Combination on Vertical Jumping Performance and Leg Strength (2000) 6 Cronin J. et al. – The role of maximal strength and load on initial power production (2000) 7 Antonio, J. – Nonuniform response of skeletal muscle to heavy resistance training: can bodybuilders induce regional muscle hypertrophy? (2000) 8 Behm, D. – Neuromuscular implications and applications of resistance training (1995) 9 Hori N. et al. – Does Performance of Hang Power Clean Differentiate Performance of Jumping, Sprinting, and Changing of Direction? (2008) 10 James, Lachlan – Mixed methods power development for mixed martial arts: A review of the literature (2014) 11 Witzke K. et al. – Effects of plyometric jump training on bone mass in adolescent girls (2000) 12 Hayes W. et al. – Toward a definition of impact loading in exercise studies of bone (1997) 13 Baudry S. et al. – Postactivation potentiation in human muscle is not related to the type of maximal conditioning contraction (2004) 14 French D. N. et al. – Changes in Dynamic Exercise Performance Following a Sequence of Preconditioning Isometric Muscle Actions (2003) 15 Wilson J. M. et al. – Meta-Analysis of Postactivation Potentiation and Power (2013)
Ogni tanto si legge di atleti, magari anche famosi, che alternano le proprie sessioni tecniche (boxe/mma/muay thai/lotta) ad allenamenti in piscina. La cosa può funzionare? Discutiamone brevemente.
Principio di Archimede e articolazioni
Chiunque abbia un minimo di memoria riguardo ciò che ha studiato al liceo si ricorderà della legge (o principio) di Archimede. Secondo quest’ultima, un corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido, in questo caso l’acqua, riceve una spinta dal basso verso l’alto di intensità uguale a quella del fluido spostato.
Immergersi in acqua non fa valere le solite regole della forza di gravità terrestre, questo rende il nuoto meno stressante per le articolazioni umane, da qui l’interesse che molti praticanti di sport di combattimento nutrono nei confronti dell’acquaticità.
Nuoto o movimento in acqua?
Va specificato che “allenarsi in acqua” non significa necessariamente mettersi a nuotare e fare vasche su vasche.
Moltissimi atleti si limitano semplicemente a fare movimento in acqua con balzi, shadow boxing o a spostare oggetti (bilancieri di plastica, maniglie di gomma).
Occorre sottolineare che la maggior parte delle persone, sportive e non, generalmente non ha una buona tecnica natatoria. Eventuali lezioni di nuoto toglierebbero tempo ed energie, anche mentali, ad altri allenamenti più utili e specifici.
In acqua la propriocezione e l’esterocezione sono assolutamente alterate rispetto a quel che poi succederà sul ring, tatami o gabbia. Per questo sarebbe meglio relegare questi stimoli allenanti alla preparazione generale (GPP).
Qui sotto un allenamento di power endurance fatto svolgere a Marvin Vettori (atleta UFC).
Conclusioni
In un protocollo di strength & conditioning molte cose possono funzionare, il nuoto ed il movimento in acqua non fanno eccezione, a patto che sia monitorata la frequenza cardiaca (parametro di fondamentale importanza) e che, come detto poco fa, i lavori acquatici rientrino nella fase di preparazione atletica generale.
All’estremità di ogni fibra muscolare, la membrana plasmatica si fonde con una struttura fibrosa che si inserisce nell’osso (o sulla pelle), questa struttura è il tendine.
In alto a sinistra è osservabile il tendine che si inserisce sull’osso
Definizione generale
I celebri ricercatori Wilmore e Costill nel libro Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport definiscono i tendini come strutture fatte di corde fibrose (o fili) di tessuto connettivo che trasmettono la forza generata dalle fibre muscolari alle ossa, creando così movimento. I tendini sono formati da fibroblasti e matrice extracellulare. I primi sintetizzano sostanze della matrice extracellulare, ossia il collagene (sostanza resistente) e l’elastina (sostanza più elastica).
Come riporta uno studio di qualche anno fa [1], il tendine aiuta a facilitare il movimento e la stabilità articolare attraverso la tensione generata dal muscolo. I tendini possono anche immagazzinare preventivamente l’energia che poi sarà utilizzata per dei movimenti successivi. Ad esempio, il tendine di Achille può immagazzinare fino al 34% della potenza totale della caviglia.
Salute
Le fibre di collagene citate poco prima, sono fondamentali per fornire resistenza alla trazione del tendine. La disposizione parallela delle fibre di collagene fornisce resistenza al tendine permettendole di sperimentare grandi forze di trazione senza subire lesioni [2]. Quando un tendine sperimenta livelli di stress da carico superiori alla sua fisiologica capacità di trazione si verificano micro o macrotraumi, anche se difficilmente l’allenamento della forza porta a lesioni serie.
Come ampiamente spiegato in passato (qui), la solidità dei tendini è in buona parte legata a fattori genetici individuali, quindi legati alla nascita e non modificabili. Pertanto con un corretto allenamento si può migliorare ma solo fino a un certo punto.
Sopra, la classificazione degli infortuni tendinei (Brumitt J. et al., 2015).
In caso di gravi danni al tendine, come una sua rottura dello stesso, il movimento è seriamente compromesso (perdita totale, o quasi).
Come evidenziano studi condotti sia sugli uomini che sugli animali, l’allenamento contro resistenze (pesi) è in grado di aumentare la rigidità dei tendini [3,4]. I tendini, sul lungo periodo, rispondono all’allenamento con i sovraccarichi aumentando il numero e la densità delle fibrille di collagene [5,6].
Come riportato in letteratura scientifica [7] i tendini durante un ciclo di accorciamento-stiramento e durante le contrazioni isometriche massimali possono allungarsi fino dal 6 fino al 14%, inoltre se il tendine è lungo i fascicoli muscolari si allungano di meno. Un tendine più rigido è più prestante (assicura maggior potenza e velocità nei movimenti) ma è più soggetto agli infortuni.
I tendini si adattano meno rapidamente dei muscoli agli stimoli allenanti, pertanto è sempre buona cosa ricordarsi che il tempo da dare all’organismo affinché esso recuperi e si adatti ai carichi di lavoro non è solo utile per il tessuto muscolare. Anche perché bisogna tenere a mente che spesso molti infortuni sono proprio di origine tendinea.
Non si può non prendere in considerazione queste informazioni se si compila una scheda di allenamento o si lavora con degli atleti infortunati.
1 Brumitt J. et al. – Current concepts of muscle and tendon adaptation to strength and conditioning (2015) 2 Lieber R. L. – Skeletal Muscle Structure, Function, and Plasticity (2010) 3 Woo S. L. et al. – The effects of exercise on the biomechanical and biochemical properties of swine digital flexor tendons (1981) 4 Kubo K. et al. – Effects of resistance and stretching training programmes on the viscoelastic properties of human tendon structures in vivo (2002) 5 Huxley A. F. – Muscle structure and theories of contraction (1957) 6 Wood T. O. et al. – The effect of exercise and anabolic steroids on the mechanical properties and crimp morphology of the rat tendon (1988) 7 Thom J. M. et al. – Passive elongation of muscle fascicles in human muscles with short and long tendons (2017)
Da molti anni a questa parte è nota un po’ a tutti, almeno si spera, la grandissima importanza delle calorienell’alimentazione, indipendentemente dagli obiettivi dei singoli (aumento del peso, dimagrimento o mantenimento).
In questo articolo torneremo a parlare di diete e calorie rifacendoci ad una delle più note meta-analisi presenti ad oggi in letteratura scientifica. Buona lettura!
Introduzione
Nell’ambiente del fitness – e non solo – girano da decenni diete di ogni tipo. Molte di queste sono protocolli alimentari che vengono riproposti da pubblicità e tornano di moda ogni tot di anni.
Avere una gamba più lunga dell’altra è possibile? Se sì, quanto può essere dannoso per la salute articolare?
Quanto segue è il sunto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive. Buona lettura.
Leg length discrepancy / leg length inequality
Effettivamente sì, la differenza di lunghezza fra le gambe non è qualcosa di raro. Una differenza di lunghezza fra l’arto inferiore destro e sinistro, talvolta è stata associata ad un maggior rischio infortuni. Nel 1992 McCaw1 notò una differenza nell’impatto del piede dell’arto più lungo, però senza dare per scontato che ciò portasse necessariamente a delle lesioni. Dieci anni prima, Friberg aveva dedotto il contrario interpretando i dati di uno studio epidemiologico condotto su alcune reclute militari2. Ma appena prima di McCaw (1991), Messier e coleghi non avevano osservato alcuna correlazione fra eventuali asimmetrie – in lunghezza – degli arti inferiori e dolori patello femorali3. Ci sono studi che avallano la tesi di Friberg (1982) ed altri ancora che la confutano.
Una lieve “leg length discrepancy” (o “leg length inequality”) pare essere fisiologica, ha affermato ciò una review4 del 2005 che ha messo in evidenza come la maggior parte delle persone abbiano una differenza di lunghezza negli arti inferiori di circa 5,2 mm.
Sopra, leg length inequality (LLI) media della popolazione (Gary A. Knutson, 2005).
Va però specificato che i test utilizzati per stabilire l’entità di una possibile LLI/LLD sono spesso imprecisi, hanno un discreto margine d’errore, sia in forma supina (paziente pancia all’aria su un lettino) che prona (paziente a pancia in giù)5. Pertanto certi discorsi più che ipotesi scientifiche sono ascrivibili alla categoria delle congetture.
Sotto, il test supino a sinistra e il test prono a destra (Cooperstein R. et al., 2017).
Infatti, facendo una breve ricerca nella letteratura scientifica possiamo imbatterci in studi inerenti la leg length discrepancy (LLD) o leg length inequality (LLI) che sostengono tutto e il contrario di tutto. Dagli studi che correlano questa condizione ad una postura errata, scoliosi, lombalgia, artrosi dell’anca, peggioramento dell’artrosi del ginocchio, fratture, ecc., a quelli che smentiscono un qualsiasi legame6,7,8,9. La letteratura a nostra disposizione è molto contraddittoria, non ci sono evidenze solide riguardanti un rapporto di causalità fra le asimmetrie di questo tipo e degli infortuni.
Come illustrato sopra, sempre riguardo alla differenza di lunghezza, la stragrande maggioranza di casi di LLI si ha in un range molto basso (dagli zero ai 5 millimetri). Asimmetrie un po’ più nette rappresentano una minoranza di casi (Gary A. Knutson, 2005).
Asimmetrie degli arti superiori
Una differente tensione ed utilizzo dell’arto dominante può far sì che si sviluppi nel tempo una asimmetria corporea, detta direzionale, fra i due lati del corpo. Il maggior carico di lavoro meccanico può innescare dei meccanismi di rinforzo osseo ad opera degli osteoblasti atti ad aumentare la densità ossea10. Questo discorso dell’asimmetria direzionale vale soprattutto per l’upper body, dato che gli arti superiori sono più esposti all’utilizzo selettivo dell’arto dominante rispetto a quelli inferiori (lower body)11,12. Queste asimmetrie direzionali sono state notate principalmente nell’omero, nella clavicola, e scendendo un po’, anche nell’osso sacro13,14.
Occorre però fare una distinzione fra la preferenza laterale, detta anche lateralità, e la presenza di un arto dominante sull’altro (quindi più forte). Lake et al. e gli studi di Newton et al.15,16 non hanno osservato significative asimmetrie fra gli arti negli esercizi bipodalici, ad esempio il back squat, discorso differente per quelli monopodalici. In ogni test si evidenziavano prestazioni dissimili fra l’arto dominante, spesso coincidente con quello “preferito”, e non dominante (forza di reazione a terra, altezza di salto, distanza di salto).
Va specificato che non necessariamente gli arti preferiti, superiore e inferiore, sono collocati nello stesso lato. Ad esempio, una persona può benissimo avere una preferenza laterale per il braccio destro e per la gamba sinistra. Secondo quello che è attualmente lo stato dell’arte, circa il 90% delle persone hanno una preferenza laterale per la mano destra e solamente il 25-45% per la gamba destra.17
In ogni caso, non è del tutto chiaro se dominio e/o preferenza laterale possano causare problematiche di natura muscolo-scheletrica.18
1 McCaw S. T. – Leg length inequality. Implications for running injury prevention (1992) 2 Friberg O. – Leg length asymmetry in stress fractures (1982) 3 Messier et al. – Etiologic factors associated with patellofemoral pain in runners (1991) 4 Knutson A. G. – Anatomic and functional leg-length inequality: A review and recommendation for clinical decision-making. Part I, anatomic leg-length inequality: prevalence, magnitude, effects and clinical significance (2005) 5 Cooperstein R. – Comparison of Supine and Prone Methods of Leg Length Inequality Assessment (2017) 6 Rauh M. J. – Leg-length inequality and running-related injury among high-school runners (2018) 7 Gurney B. – Leg length discrepancy (2002) 8 Rothenberg R. J. – Rheumatic disease aspects of leg length inequality (1988) 9 Resende R. A. et al. – Mild leg length discrepancy affects lower limbs, pelvis and trunk biomechanics of individuals with knee osteoarthritis during gait (2016) 10 Steele J. et al. – Handedness and directional asymmetry in the long bones of the human upper limb (1995) 11 Hiramoto Y. – Right-left differences in the lengths of human arm and leg bones (1993) 12 Plochocki J. H. – Bilateral variation in limb articular surface dimensions (2004) 13 Mays S. et al. – Directional asymmetry in the human clavicle (1999) 14 Plochocki J. H. – Directional bilateral asymmetry in human sacral morphology (2002) 15 Lake J. P. et al. – Does side dominance affect the symmetry of barbell end kinematics during lower-body resistance exercise? (2011) 16 Newton R. U. et al. – Determination of functional strength imbalance of the lower extremities (2006) 17 Cuk T. et al. – Lateral asymmetry of human long bones (2001) 18 McGrath T. M. et al. –The effect of limb dominance on lower limb functional performance – a systematic review (2016)