Non è raro, fra internet e televisione, vedere atleti dei più svariati sport allenarsi appositamente in zone parecchio sopra il livello del mare (+1500 m). Ora, in questo articolo, andremo a vedere le risposte fisiologiche e gli adattamenti indotti dall’allenamento svolto a determinate altezze.
Vi avviso: sono argomenti abbastanza complessi, quindi un po’ noiosi, ma é fondamentale saperli se si vuole essere ben informati su i pro e i contro di certe scelte sportive.
Un’attività fisica può considerarsi a tutti gli effetti ad alta quota quando si svolge oltre i 1500 metri, dato che a quote inferiori non sono mai stati evidenziate variazioni significative sulla prestazione.
La pressione atmosferica, misurabile con il barometro, non è mai costante. Dipende da svariati fattori come l’altezza del luogo, la stagione, condizioni atmosferiche, distanza dall’equatore, eccetera.

Queste variazioni sono irrilevanti per chi si allena in prossimità del livello del mare ma non vanno invece trascurate per chi si allena e/o gareggia a certe altezze.
Indipendentemente che uno si trovi al livello del mare o sull’Everest, la miscela di gas da cui è composta l’aria che respira è identica (il discorso cambia oltre i 13.500 m), cambia unicamente la pressione parziale dei singoli gas. Inoltre ogni 150 metri circa, in altezza, la temperatura aumenta di 1°C.
Anche se scontato, va ricordato che l’umidità e l’altitudine sono inversamente proporzionali. Questo, nell’immediato, può portare alla secchezza ed irritazione delle mucose e delle pareti degli alveoli. Tuttavia, dopo tre settimane di “adattamento” l’organismo mette in atto dei sistemi di difesa, migliorando la vascolarizzazione delle mucose. Anche per i motivi sopraelencati, gli sportivi che si allenano e gareggiano ad alte quote hanno un maggior bisogno di acqua per compensare le ingenti perdite idriche del proprio organismo, specialmente per quanto riguarda gli sport di endurance.
Risposte fisiologiche e adattamenti del sistema respiratorio e cardiovascolare
Come già accennato, la pressione parziale di ossigeno (PO2) diminuisce sempre di più a certe altezze, ció determina una minore pressione d’ossigeno negli alveoli polmonari, ne consegue una minore satutazione d’ossigeno del sangue arterioso. Tutto questo porta ad una diminuzione del VO2 max, il massimo consumo di ossigeno, quindi un ostacolo per le prestazioni di resistenza. Ad un’altezza superiore a 1500 metri il VO2 max diminuisce del 10% ogni 1000 m di quota [1,2].
Più si é lontani dal livello del mare e più, a riposo, la forza della muscolatura respiratoria diminuisce [3]. Sotto sforzo la stessa cosa vale per il diaframma [4]. Entrambi i casi sono una conseguenza dell’ipossia* e dall’iperventilazione causata dall’altitudine, dato che il minor rifornimento di ossigeno diminuisce l’apporto di energia alla muscolatura [5].
*Insufficiente presenza di ossigeno nei tessuti, dovuta a scarso apporto o a una sua mancata utilizzazione.
In alta quota l’aria è meno densa, perciò la ventilazione polmonare aumenta (sia a riposo che sotto sforzo). Di conseguenza, la quantità di anidride carbonica negli alveoli viene ridotta e aumenta la diffusione del sangue verso i polmoni, tramite i quali la CO2 verrà eliminata. La maggior eliminazione dell’anidride carbonica porta ad un alcalosi respiratoria, con aumento del ph ematico, allora i reni intervengono aumentando l’escrezione di ioni bicarbonato (tamponatori dell’acido carbonico formatosi dalla CO2). Questo passaggio finale, diminuisce la capacità del sangue di tamponare i prodotti acidi del metabolismo, così, in altitudine, peggiora la trasformazione di energia per via anaerobica [6].
Con l’abbassamento della già citata pressione parziale dell’ossigeno, PO2, questo si riflette anche nella PO2 degli alveoli e nei capillari polmonari. Allo stesso tempo cala anche la saturazione dell’emoglobina (dal 98% al livello del mare passa a 92% se ci troviamo a 2439 m). Mentre la PO2 arteriora diminuisce con l’altitudine, la PO2 dei tessuti rimane praticamente invariata, almeno fino ad altezze ragionevoli (circa 2500 m), quindi la differenza fra queste due (gradiente di pressione), viene drasticamente ridotta. Il passaggio dell’ossigeno dal sangue ai tessuti dipende proprio da questo gradiente di pressione. L’abbassamento della pressione parziale d’ossigeno arteriosa è uno dei maggiori responsabili del calo del VO2max in alta quota.

Le diminuzioni del massimo consumo di ossigeno inizia ad essere rilevante dopo i 1500-1600 metri, quando la PO2 atmosferica scende sotto i 125 mmHg (millimetri di mercurio). Dai 1600 metri in poi il VO2max cala di circa l’8-11% ogni singolo km di altezza.

Vecchi studi [9,10,11] evidenziavano come la permanenza a certe altitudini riuscisse a far sviluppare al corpo una certa tolleranza all’ipossia. Dopo un periodo compreso fra i 18 e 57 giorni, i soggetti che già in passato erano stati esposti a condizioni analoghe, dopo il calo iniziale del VO2max, avevano un discreto miglioramento di questo parametro, inoltre la loro capacità aerobica rimaneva invariata.
Ma in ogni caso, anche con una certa acclimatizzazione, il massimo consumo di ossigeno in quota non sarà mai paragonabile a quello in prossimità del livello del mare.
Per adeguarsi alle variazioni del sistema respiratorio anche quello cardiovascolare subisce delle modifiche. Infatti, già nelle prima 24-48h di permanenza a certe altezze, si verifica una riduzione del volume plasmatico del 25%, queste principalmente perchè ad alte quote c’è una certa perdita di acqua attraverso la respirazione. Tuttavia, in cronico, l’organismo mette in atto una serie di adattamenti che portano ad un aumento della massa ematica, con la quale il corpo riesce, almeno parzialmente, a compensare la riduzione della PO2 dovuta all’alta quota.
Ma non finisce qui! Anche la gittata cardiaca, prodotto del volume di scarica sistolica per la frequenza cardiaca, subisce dei cambiamenti.
“La risposta immediata in seguito all’esposizione all’alta quota consiste in un aumento della gittata cardiaca a parità di carico submassimale rispetto al livello del mare, tuttavia, questa risposta tende a spegnersi nel corso dei giorni e settimane di acelimatazione.
Il processo è da attribuire alla riduzione della gittata pulsatoria che progressivamente si instaura con l’esposizione all’alta quota. Riducendosi la gittata cardiaca, a parità di consumo di ossigeno, si verifica una maggior differenza artero-venosa in ossigeno.
In una certa misura, la riduzione della gittata pulsatoria viene compensata da un aumento della frequenza cardiaca (fc) a ogni lavoro subinassimale. In effetti, si è riscontrato che anche in vetta all’Everest. e quindi a gradi estremi di ipossia, il cuore mantiene intatta la sua capacità contrattile e la sua ritmicità” [8]. Discorso un po’ diverso invece per gli sforzi di intensità massimale. Per lavori di questo tipo, svolti ad alta quota, si verifica sia una riduzione della massima fc e del massimo volume di scarica sistolica. Il primo fattore è legato al SNC ed il secondo al repentino calo del volume plasmatico, di consenguenza, pure la gittata cardiaca ha un peggioramento (affinchè questo sia rilevante bisogna essere a circa 3000 m). A tutto ciò si aggiunge la riduzione del gradiente di diffusione, quest’ultimo facilità il passaggio dell’O2 dal sangue ai muscoli. Risulta quindi chiaro il perchè del peggioramento delle prestazione aerobiche quando si è ad alta quota.
Come sappiamo però, il corpo umano è una macchina meravigliosa, anche in situazioni ostiche, col tempo, è in grado di adattarsi e migliorare. Infatti, dopo una permanenza di circa 6 mesi a quota 4000 m, la massa del sangue (volume ematico) aumenta del 9-10%, questo a causa di una maggior produzione di globuli rossi (indotta dall’altitudine) e di un’espansione del volume plasmatico, inizialmente ridotto del 25% circa.

Variabilità della frequenza cardiaca (fc)
L’allenamento in altitudine, fra le altre cose, modifica la variabilità della frequenza cardiaca (HRV, Heart Rate Variability). Ricerche di qualche anno fa [12] mostrano un cambiamento considerevole dell’HRV dopo numerosi allenamenti in ipossia effettutati durante 18 giorni. Inoltre, un aumento globale dell’HRV é associato ad una diminuzione della fc a riposo e ad una più elevata capacità di prestazione sportiva [13,14,15].
Adattamenti muscolari all’altitudine
Purtroppo in letteratura scientifica non c’è moltissimo materiale al riguardo. Nella tabella sottostante sono illustrate le variazioni muscolari e metaboliche avvenute durante uno studio del 1992 (D. L. Costill et al. dati non pubblicati), durante il quali le cavie umane scalarono l’Everest ed il Monte Denali. L’unico aumento riscontrato è stato quello dei capillari per mm2, dovuto al bisogno dell’organismo di apportare un maggior quantitativo di sangue e ossigeno ai muscoli. I pochi dati che ci mette a disposizione questo studio, in ogni caso, sono molto ambigui: le diminuzioni raffigurate nella tabella sotto sono benissimo riconducibili alla perdita di appetito che si verifica in in alta quota (deficit calorico). Inoltre, al perdita di peso di alcuni scalatori (fino a 6 kg) è attribuibile alla disidratazione corporea, soprattutto a livello extracellulare.
Informazioni venute fuori negli anni successivi, hanno mostrato che dai 2500 m in su, dopo alcune settimane il potenziale metabolico dei muscoli si riduce. In più, ad altezze ancora maggiori sembrerebbe ridursi l’attività mitocondriale e degli enzimi glicolitici (sono quindi limitati i processi biochimici come la fosforilazione ossidativa). Va ricordato anche che a causa del potenziale stress causato dalle condizioni climatiche ostiche, potrebbero essere alti i livelli di cortisolo, ormone legato al catabolismo.
Sulla questione muscolare non si sa molto altro.
Adattamenti metabolici all’altitudine
Dal momento che il trasporto di ossigeno ad alta quota è ostacolato (ipossia), diminuisce anche la capacità ossidativa dell’organismo, quest’ultimo allora deve puntare alla produzione di energia per via anaerobica. Ciò, ovviamente, assicura dei livelli di lattato ematico più alti durante sforzi di intensità submassimale. Durante sforzi massimali invece, non si verifica la medesima cosa, per essi l’accumulo di acido lattico nei muscoli e sangue risulta essere più basso [16,17], questo probabilmente per l’incapacità dell’organismo di tollerare carichi di lavoro troppo intensi e/o per la riduzione della capacità glicolitica dei muscoli (limitata dall’intolleranza nei confronti dell’accumulo di H+).

Reazioni del sistema nervoso centrale (SNC)
Oltre ad un calo della performance, viene intaccata anche la capacità funzionale del SNC. Il cervello con una carenza di ossigeno va in ipossia, perció, in atltitudine si va incontro a ció che segue:
- diminuzione della capacità di pensiero analitico, della capacità di presa di decisione e di giudizio;
- aumento del nervosismo;
- peggioramento delle prestazioni sensoriali (a causa dell’ipossia diminuisce l’accuratezza visiva);
- calo delle capacità coordinative;
- aumento dei disturbi del sonno.
Scelta della quota, durata e frequenza della permanenza
L’altitudine più favorevole per i training camp è quella compresa fra i 2000 e 3000 metri, la quale corrisponde ad una riduzione dell’ossigeno disponibile dal 16 al 24% [18]. Ad una quota inferiore ai 1800 m gli adattamenti fisiologici ci sono ma sono troppo deboli per consentire un tangibile miglioramento prestativo. Al contrario, con ad altezze troppo elevate (+3000 m) le condizioni diventano veramente troppo ostiche per consentire l’ottenimento di risultati, si rischia così un decremento della performance.
Il grosso degli adattamenti avviene entro due settimane dall’arrivo in alta quota, quindi una permanenza di 2-3 settimane, abbinata ai giusti allenamenti, è considerata ottimale per ottenere i risultati sperati [18]. Infatti, sembrerebbe che dal 22° giorno di permanenza in poi le prestazioni degli atleti comincino ad avere dei discreti cali [19]. In più, almeno per quanto riguarda le attività di resistenza, ripetere più volte un periodo di allenamento in altitudine durante l’anno dà migliori risultati rispetto ad un unico training camp troppo lungo.
Inizio e/o ripresa degli allenamenti
Una volta arrivati ad altura, per non ostacolare gli adattamenti fisologici è bene non eccedere con l’intensità allenante e concentrarsi piuttosto sul volume. Il primo parametro andrà ricercato gradualmente, col passare dei giorni [18,20]. Autori come Willmoore e Costill consigliano una iniziale diminuzione dell’intensità pari al 60-70%, in modo da non stressare troppo l’organismo, quest’ultima tornerà poi ai livelli standard entro una decina di giorni.
Allenamenti aerobici e anaerobici ad alta quota
Esercizi anaerobico alattacidi, quindi molto brevi, non rappresentano un problema in altura, dato l’irrisorio accumulo di acido lattico. Anzi, l’aria più rarefatta diminuisce la resistenza aerodinamica garantendo dei risultati anche leggerissimamente superiori, non è un caso che alle Olimpiadi del 1968, a Città del Messico (2250 m), i velocisti abbiano avuto degli ottimi risultati. Discorso diverso per le discipline con una forte componente lattacida, i quali sarebbe bene evitare e/o limitare data la difficoltà dell’organismo di gestire gli accumuli di acido lattico.
In ogni caso, a meno che non si debbano svolgere della gare ad alta quota, allenarsi in altura per competizioni anaerobiche ha poco senso. I possibili vantaggi di questa scelta riguardano unicamente gli sport principalmente aerobici. Per essi l’altitudine consigliata è di 2000-3000 metri. Gli atleti, soprattutto all’inizio, saranno sì svantaggiati ma facendo le cose con metodo i miglioramenti non tarderanno ad arrivare. Se generalmente si sta in prossimità del livello del mare è bene arrivare in altura con un livello di VO2max piuttosto alto, bisogna quindi allenare soprattutto la potenza aerobica.
Allenarsi in alto e gareggiare in basso
Le problematiche iniziali legate all’ipossia, come riportato qualche riga prima, potranno essere risolte anche in meglio, ció sempre a patto che gli allenamenti vengano svolti con criterio e che altezza e permanenza siano quelle giuste (2000-3000 m e tre settimane circa), repetita iuvant. In questo modo, gli atleti, chi più chi meno, riescono a guadagnare dei livelli più alti di EPO* (eritropoietina, ormone glicoproteico), un aumento della massa cellulare dei globuli rossi e del livello di emoglobina nel sangue. Una volta tornati al livello del mare, questi miglioramenti svaniscono nel giro di qualche giorno. Occorre quindi effettuare gare (di resistenza) entro pochissimo tempo dal proprio rientro. Discorso diverso per gli atleti che gareggiano in basso ma vivono in alto, loro non sembrano aver vantaggi sulle competizioni al livello del mare.
*L’aumento dei livello di EPO, ottenibile anche tramite iniezioni sottocutanee, incrementa il trasporto di ossigeno, un fattore importantissimo in molti sport, soprattutto quelli di endurance. L’assunzione di eritropoietina alza il VO2max, la soglia lattacida e migliora la respirazione cellulare. Un abuso di EPO può portare ad arresti cardiaci improvvisi, questo perchè l’eritropoietina aumenta l’ematocrito (Hct) tanto da provocare un grande aumento del numero di globuli rossi nel sangue (policitemia). Di conseguenza, il sangue si presenta più viscoso e tutto questo insieme di fattori aumenta il rischio di coagulazione, la quale porta a problemi cardiaci, specialmente durante il sonno (momento in cui la frequenza cardiaca si abbassa). L’EPO è somministrata in medicina per trattare numerose forme di anemia e sembra avere effetti positivi anche sulla salute di alcuni organi interni. Tuttavia, un suo eccesso può portare a trombosi, ipertensione e tumori.
Per ulteriori approfondimenti vi rimandiamo a questo articolo: clicca qui.

Allenarsi in basso e gareggiare in alto
Anche in questo caso, una volta arrivati in alta quota vale sempre la regola delle 2-3 settimane di adattamento. Se invece non si ha tutto questo tempo a disposizione é consigliabile arrivare in altura poco prima della competizione (12-24h), in modo che l’ipossia non abbia iniziato a mettere sufficientemente in difficoltà il nostro corpo. Per limitarne i danni (in acuto), come già detto, é buona cosa avere i livelli del VO2max (massimo consumo di ossigeno) molto alti, perché ricordo che questo é il parametro che più di tutti risente dell’alta quota, questo già nelle prime ore.
Perchè non tutti ottengono dei miglioramenti?
Ovviamente gli adattamenti e le risposte fisiologiche variano da persona a persona. Si distinguono infatti due categorie di soggetti: i responder ed i non responder. I primi reagiscono positivamente all’ipossia dovuta all’alta quota, gli altri no. Questo soprattutto per quanto riguarda i livelli di EPO [21]. Uno studio di Ri-Li e colleghi [22], effettuato su un gruppo di 48 atleti (32 uomini e 16 donne) evidenzió nelle prime 24 h di allenamento in altitudine (2800 m), cambiamenti dei livelli plasmatici di EPO molto diversi da persona a persona. Alcuni addirittura arrivarono ad un aumento del 400% e altri ad un misero +41%. La causa di tale discrepanza sembrerebbe essere geneticamente determinata (polimorfismi individuali del gene EPO o del gene ricettore dell’EPO).

Per i soggetti “non responder” si potrebbe tranquillamente accantonare l’idea di effettuare dei training camp in alta quota.
Simulazione degli effetti dell’alta quota
Non tutti sono a conoscenza del fatto che, senza scomodarsi, chi vive in prossimità del livello del mare puó simulare tramite particolari e costose l’alta quota, in modo da beneficiare di alcuni suoi effetti.

Quella che segue é una parte dell’intervista effettuata da parte del dott. Capodaglio a Chad Macias, fisiologo molecolare e preparatore di numerosi atleti d’élite (lottatori, corridori ecc.).
“Per quanto riguarda l’allenamento abbiamo usato la tenda ipossica che simula l’altitudine, questo perché un vero e proprio allenamento in altitudine potrebbe essere una cattiva scelta per la performance, ad esempio sulla VO2 max danneggiando alcune fibre con la soglia più alta. […] I miei atleti stanno nella tenda per circa 8-10 ore al giorno minino, di solito mentre dormono, e questo aumenta la sintesi dell’EPO e l’ematocrito. Questo tipo di esercizio é combinato con la camera iperbarica e ci permette di avere risultati davvero significativi.”
Testimonianza sicuramente di valore, però non tutti concordano sull’assoluta efficacia di questi metodi. Ad esempio, Reiss [23] sostiene che un soggiorno di questo tipo (o reale, non simulato) abbinato ad un allenamento svolto al livello del mare, per atleti di un certo livello, non dia miglioramenti rilevanti e associa un eventale presenza di questi ultimi al placebo. E per Koistinen e colleghi [24], sembrerebbe che con le condizioni precedenti, i miglioramenti ci siano unicamente per atleti amatori (quindi non di alto livello) di discipline prettamente aerobiche, dati i miglioramenti notturni dell’EPO.
Resta quindi un po’ dubbia l’assoluta validità di queste “strategie”.
N.B: i metodi soprpacitati, in alcune nazioni, sono vietati (considerati vero e proprio doping).
Controindicazioni più e meno gravi dell’allenamento in altura
- scottature solari e oftalmia delle nevi;
- irritazioni delle vie respiratorie;
- mal di montagna (l’incidenza aumenta con l’altitudine), i sintomi tipici sono il mal di testa, nausea e vomito;
- edema polmonare (colpisce soprattutto le persone che salgono troppo rapidamente a quote oltre i 2700 m);
- edema cerebrale (si verifica perlopiù a quote superiori ai 4000 m)
- emorragia retinica (si verifica dai 6000 m in poi).
Curiosità
La reazione di una bottiglia chiusa a 4300 m di altitudine, e poi riportata a livello del mare.
“Poiché a 4300 m la pressione atmosferica è molto minore (circa il 60% rispetto a livello del mare), la bottiglia verrà schiacciata dalla maggiore pressione atmosferica. Le aree di bassa pressione hanno sostanzialmente una minore massa d’aria sopra di esse, viceversa aree di alta pressione hanno una maggior massa atmosferica” [25].
Grazie per l’attenzione.
Bibliografia
Willmore H. J., Costill L. D. – Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport (Calzetti Mariucci, 2005)
Weineck J. – Biologia dello sport (Calzetti Mariucci, 2013)
Wilber L. R. – Current Trends in Altitude Training (2001)
Sacchi N. – Farmaci e doping nello sport (Nonsolofitness, 2014)
1 Strømme A. B. – Training at altitude (1980)
2 Grover R. F. – Leistungsfähigkeit in groβen Höhen (1983)
3 Fasano et al. – High-Altitude Exposure Reduces Inspiratory Muscle Strength (2007)
4 Cibella et al. – Respiratory mechanics during exhaustive submaximal exercise at high altitude in healthy humans (1996)
5 Schoene et al. – Limits of human lung function at high altitude (2001)
6 Hollmann and H. K. Strüder – Sportmedizin (2009)
7 E. R. Buskirk et al. – Maximal performance at altitude and on return from altitude in conditioned runnerd (1967)
8 Dott. Bucosse R. – Attività fisica a quote medie ed elevate
9 Adam W. et al. – Effects of equivalent sea-level and altitude training on VO2max and running performance (1975)
10 Buskirk E. R. et al. – Physiology and Performance of Track Athletes at Various Altitudes in the United States and Peru (1967)
11 Grover R. F. et al. – Muscular exercise in young men native to 3,100 m altitude (1967)
12 Schmitt et al. – ??? (2008) fonte primaria errata sul libro di riferimento
13 Pichot et al. – Relation between heat rate variability and training load in middle-distance runners (2000)
14 Hedelin et al. – Heart rate variability in athletes: relationship with central and peripheral performance (2001)
15 Mourot et al. – Quantitative pointcare plot analysis of heart rate variability: effect of endurance training (2004)
16 Green H. et al. – Operation Everest II: adaptations in human skeletal muscle (1989)
17 Sutton J. et al. – Operation Everest II: oxygen transport during exercise at extreme simulated altitude (1988)
18 Heinicke K. et al. – A three-week traditional altitude training increases hemoglobin mass and red cell volume in elite biathlon athletes (2005)
19 Suslow F. P. et al. – Die sportliche Leistungsfähigkeit in der Periode der Reakklimatisierung nach Höhentraining (1973)
20 Bantle K. H. – Höhentraining (1980)
21 Chapman et al. – Individual variation in response to altitude training (1998)
22 Ri-Li et al. – Determinants of erythropoietin release in response to short-term hypobaric hypoxia (2002)
23 Reiss M. – Hauptrichtungen des Einsatzes und der Methodik des Höhentrainings in den Ausdauersportarten (1998)
24 Koistinen et al. – EPO, red cells, and serum transferrin receptor in continuous and intermittent hypoxia (2000)
25 Curiosità Scientifiche (Facebook page)
26 Kyle C. R. and Bassett D. R. – The cycling world hour record (2003)
27 Eschbach J. W. et al. – Correction of the anemia of end-stage renal disease with recombinant human erythropoietin. Results of a combined phase I and II clinical trial (1987)
Salve sono uno studente di Scienze Motorie e Sportive e come tesi di laurea mi piacerebbe trattare proprio l’allenamento in alta quota in una persona normale.
Ma è possibile effettuare allenamenti con una forte componente lattacida dopo che l’organismo di una persona si è abituata in alta quota?
E’ possibile solo l’allenamento della resistenza oppure si potrebbe lavorare su forza e (per quanto possibile) sulla rapidità?
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Attualmente la strategia più seguita dagli atleti è quella del “Living high and training low”, cioè si passa più tempo possibile ad alta quota (specie il tempo notturno, dedicato al sonno) e ci si allena, soprattutto in range lattacidi, quando si è più vicini al livello del mare. Chiaramente la cosa non è sempre fattibile, spostarsi quotidianamente per allenarsi può essere stressante e costoso.
Sopra il 1800 m di altitudine ci si può benissimo allenare sia sulla rapidità (es. sprint) che sulla forza (alzate pesanti a basso numero di ripetizioni). L’articolo lo scrissi durante l’estate del 2016, consiglio di buttare un occhio su PubMed per vedere se sono stati pubblicati nuovi studi riguardo a questi argomenti.
Spero che la tesi ti riesca bene.
Un saluto.
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