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  • Il cedimento muscolare: tipologie e consigli pratici

    Il cedimento muscolare: tipologie e consigli pratici

    Il cedimento, altro non è che una delle tante tecniche per ricercare la massima ipertrofia muscolare. Nelle prossime righe si tenterà di far luce su questa pratica, elencando i pro, i contro e dispensando un po’ consigli, senza voler salire in cattedra ma cercando ragionare insieme sulla questione.

    training-to-failure.jpg

    Tipologie

    Esistono principalmente due tipi di cedimento muscolare:

    • Cedimento tecnico: mantenendo una buona esecuzione tecnica, non si è più in grado di portare a termine una o più ripetizioni (l’unico modo per farlo sarebbe “sporcare” la tecnica).
    • Cedimento concentrico: il muscolo target non è più in grado di contrarsi, il peso non può più essere sollevato.

    A sua volta, il cedimento concentrico si suddivide in:

    • C. concentrico neurale: quando il sistema nervoso centrale (SNC) è “cotto” e non riesce quindi a garantire alcuna contrazione muscolare (ciò capita soprattutto quando si cerca di sollevare grossi carichi).
    • C. concentrico metabolico: le unità motorie (um), anche se reclutate, non sono più in grado di contrarsi efficientemente in quanto sature di acido lattico (congestione lattacida).
    Applicazioni pratiche

    Se si ricorre al cedimento, soprattutto quello concentrico metabolico, è meglio limitarsi ad eseguire esercizi monoarticolari, che coinvolgono quindi un minor numero di muscoli, magari come finisher della seduta di allenamento. Come avevamo già detto in passato, ogni stimolo allenante può essere utile all’ipertrofia e quello metabolico non fa eccezione (anche tenendo conto dell’elevato TUT). Sui muscoli più grandi, c’è il rischio che i DOMS (indolenzimento muscolare) vengano protratti nel tempo, andando ad influenzare negativamente gli allenamenti dei giorni successivi.

    Anche se si parla di cedimento concentrico neurale, vale la stessa cosa. Meglio limitarlo ai distretti muscolari più piccoli e verso la fine della seduta di allenamento, in modo da non cuocere il SNC, cosa che comprometterebbe gli esercizi successivi ed il recupero fra una seduta di allenamento e l’altra.

    A livello metabolico si è visto che il cedimento muscolare a basse ripetizioni (cinque per la precisione) altera la produzione di acido lattico (glicolisi anaerobica), la deplezione della fosfocreatina (PCr) e l’abbassamento delle scorte di ATP (adenosin trifosfato) in misura molto minore rispetto al cedimento muscolare su ripetizioni più alte (dieci) [6].

    Cedimento
    Gorostiaga E. M. et al. (2012)

    Riguardo al cedimento tecnico possiamo affermare che è più o meno pericoloso a seconda degli esercizi. Inarcare la schiena e sfruttare strani effetti di rimbalzo non è certo il massimo per la sicurezza delle articolazioni. Quello tecnico è il tipo cedimento che più di ogni altro va limitato, soprattutto sulle alzate che consentono di sollevare grandi carichi (squat, panca piana e varianti, ecc.).

    Ma i neofiti? I principianti non hanno la capacità di esprimere grandi intensità sotto carico, per loro il cedimento muscolare è, il più delle volte, un’arma di scarsa utilità. Meglio se usata per gli atleti intermedi ed avanzati.

    Benché la letteratura scientifica sottolinei che le priorità di un allenamento mirato allo sviluppo della massa muscolare siano altre [1], è difficile parlare di cedimento muscolare tramite gli studi scientifici perché il cedimento non è sempre facile da catalogare. Tuttavia, prendendo in esame quelli più quotati, possiamo affermare che…

    Per Izquierdo M. e colleghi [2], in 16 settimane di allenamento mirate all’incremento della forza, potenza e resistenza muscolare, non ci sono state variazioni significative fra i soggetti, se non per il rendimento muscolare nella panca piana (75% 1RM).

    Drinkwater E. J. e coll. [3] in acuto hanno evidenziato un lieve miglioramento della potenza muscolare nell’allenamento della panca piana con un carico da 6RM (sei ripetizioni massime possibili) utilizzato per 6 settimane di allenamento.

    Una revisione di Willardson J. M. e coll. [4] non evidenzia differenze rilevanti fra un allenamento con cedimento ed un altro senza. Sottolinea però l’importanza di limitare questa pratica, soprattutto se si parla di cedimento tecnico.

    Nel 2010, un altro studio di Izquierdo e coll. [7] ha messo in luce miglioramenti della forza massimale e della potenza negli atleti che non ricercavano continuamente il cedimento muscolare. Per questo motivo quasi tutti i powerlifters si affidano al buffer (mantenere un certo margine di distanza dal cedimento), raggiungendo magari il cedimento nell’ultima serie di un esercizio.

    Conclusioni

    Per terminare, come già ribadito più volte, il cedimento muscolare in alcuni contesti trova tranquillamente il suo spazio, migliorando i livelli di forza e lo sviluppo muscolare, [5] va tuttavia usato con parsimonia, eccedere può potenzialmente portare molti più problemi che benefici. Perché è vero che, a parità di volume, il cedimento può garantire dei risultati mediamente superiori (massa magra), tuttavia non potrebbe essere meglio tenere il cedimento come “asso nella manica” da giocarsi nell’ultima serie di un determinato esercizio, dopo aver accumulato un certo volume allenante, piuttosto che tentare di portare a cedimento ogni serie di ogni esercizio fin da subito? Oppure, come consiglia il noto ricercatore e coach Chris Beardsley, per massimizzare l’ipertrofia tramite il cedimento, si potrebbe aumentare il recupero fra le serie (a discapito della densità) o ricorrere a super serie (super set) alternando esercizi per muscoli, cosiddetti, agonisti e antagonisti. Come? Passando da, per esempio, esercizi per il dorso (lat machine) ad esercizi per il petto (chest press). Esempio: 10 ripetizioni alla lat machine (raggiungendo il cedimento), 10 ripetizioni alla chest press (cedimento) e tot minuti di recupero e via di nuovo ad accorpare questi due esercizi per X numero di serie. “There are basically two ways to get around the problem: (1) take more rest between sets (or use agonist-antagonist supersets to get lots of rest between agonist exercises), and (2) only go to failure on the final set“.

    Buon allenamento!


    oc
    Referenze

    1 Schoenfeld B. J. et al. – Influence of Resistance Training Frequency on Muscular Adaptations in Well-Trained Men (2015)

    2 Izquierdo M. et al. – Differential effects of strength training leading to failure versus not to failure on hormonal responses, strength, and muscle power gains (2006)

    3 Drinkwate E. J. et al. – Training leading to repetition failure enhances bench press strength gains in elite junior athletes (2005)

    4 Willardson J. M. et al. – Effect of Short-Term Failure Versus Nonfailure Training on Lower Body Muscular Endurance (2008)

    5 Nobrega R. S. et al. – Is Resistance Training to Muscular Failure Necessary? (2016)

    6 Gorostiaga E. M. et al. – Energy Metabolism during Repeated Sets of Leg Press Exercise Leading to Failure or Not (2012)

    7 Izquierdo M. et al. – Concurrent endurance and strength training not to failure optimizes performance gains (2010)

  • Alcol e sport: dalla composizione corporea alla performance

    Alcol e sport: dalla composizione corporea alla performance

    L’alcol fa ingrassare? Contribuisce a formare quell’odiosa pancetta, non facendo così emergere la tanto agognata tartaruga? Influisce sulle prestazioni fisiche?

    Cerchiamo di scoprirlo insieme!

    beer

    Un po’ di nozioni generali

    Con la parola alcol si intende l’alcol etilico, la cui formula bruta è C2H5OH. Più in generale, si usa il termine alcol quando si accenna ad una sostanza che presenta un gruppo idrossilico (OH).

    L’alcol, anche se si  perfettamente sobri, è presente nel sangue (altro…)

  • DOMS: cosa sono e tecniche per ridurli

    DOMS: cosa sono e tecniche per ridurli

    Sicuramente vi sarà capitato almeno una volta di provare dolore ai muscoli dopo qualche sforzo fisico. Bene, quel dolore non è altro che del DOMS, ovvero: indolenzimento muscolare a insorgenza ritardata. Scopriamo insieme di cosa si tratta!

    DOMS.jpg

    Cenni di fisiologia

    In passato si ipotizzava che i DOMS (delayed onset muscle soreness) derivassero dall’accumulo di acido lattico, negli anni a venire è però stato dimostrato che l’acido lattico e gli scarti metabolici non c’entravano, almeno non sui dolori ad insorgenza ritardata. Si tratta infatti, secondo le teorie più accreditate, di micro-lacerazioni a livello muscolare derivanti soprattutto da contrazioni eccentriche [1,2,3].

    DOMS1

    Certi studiosi suggeriscono che alcuni radicali liberi (ROS) possano concorrere nella formazione dei DOMS [4], altri che interferiscano fattori metabolici e neurologici [5,6]. Ma date le scarse prove, quella del danno muscolare rimane comunque la teoria più attendibile.

    L’indolenzimento muscolare a insorgenza ritardata fa perdere forza alla contrazione muscolare. Secondo Warren e colleghi [7] questo è imputabile a tre macro-fattori: il danno al tessuto muscolare, una disfunzione nell’ambito del processo di accoppiamento eccitazione-contrazione ed una perdita delle proteine contrattili (il tutto è illustrato nella figura a sinistra).

    Post allenamento
    • I DOMS insorgono a 8-12h dal termine dell’allenamento
    • Si acutizzano a 24-48h dal termine dell’allenamento
    • Diminuiscono a 48-72h dal termine dell’allenamento
    • Scompaiono a 72-120 ore dal termine dell’allenamento

    Le cifre riportate sopra, ovviamente, sono molto indicative.

    Se i DOMS sono particolarmente lievi, non è necessario rimandare gli allenamenti, un buon riscaldamento può far cessare l’indolenzimento.

    DOMS2
    Risposta tardiva all’esercizio fisico di diversi indici fisiologici (la densità di colore della barra corrisponde all’intensità della risposta nel tempo indicato) [8]
    Tecniche per ridurli

    Alcuni modi per ridurre i DOMS sono i seguenti:

    • Iniziare un nuovo programma/scheda di allenamento con un’intensità moderata, alzandola piano piano nel corso delle settimane
    • Eseguire immersioni in acqua fredda (temperatura di 8-15° C per 11-15 minuti di bagno). Maggiori informazioni le trovate in questo articolo.
    • Stretching
    • Assunzione di una buona quota giornaliera di proteine
    • Prendere della caffeina tramite caffè o compresse. Si è vista infatti una correlazione fra il calo del dolore muscolare e l’assunzione di questa sostanza eccitante [9].
    agujetas
    Caffeina e riduzione dei DOMS (Hurley C. F. et al., 2013)
    Conclusioni

    L’indolenzimento muscolare, acuto e ad insorgenza ritardata, è un evento assolutamente fisiologico. Tenere “a bada” i DOMS non è di fondamentale importanza per chi si allena in palestra, magari con schede full-body, 2-3 volte a settimana o per chi pratica sport a livello dilettantistico con una frequenza moderata. Tuttavia, per gli sportivi professionisti, o per gli agonisti che puntano a competere ad alti livelli, tenere a bada i DOMS è spesso di aiuto per limitare i dolori e non sfociare nell’overtraining.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Wilmore H. J., Costill L. D. – Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport (Calzetti Mariucci, 2005)
    1 Stone M. H. et al. – A hypothetical model for strength training (1981)
    2 Schwane J. A. et al. – Delayed-onset muscular soreness and plasma CPK and LDH activities after downhill running (1983)
    3 Schwane J. A. et al. – Is Lactic Acid Related to Delayed-Onset Muscle Soreness? (1983)
    4 Close G. L. et al. – Eccentric exercise, isokinetic muscle torque and delayed onset muscle soreness: the role of reactive oxygen species (2004)
    5 Malm C. et al. – Leukocytes, cytokines, growth factors and hormones in human skeletal muscle and blood after uphill or downhill running (2004)
    6 Ayles S. et al. – Vibration-induced afferent activity augments delayed onset muscle allodynia (2011)
    7 Warren G. L. et al. – Excitation-contraction uncoupling: major role in contraction-induced muscle injury (2001)
    8 Evans W. J. et al. – The metabolic effects of exercise-induced muscle damage (1991)
    9 Hurley C. F. et al. – The effect of caffeine ingestion on delayed onset muscle soreness (2013)

  • Test atletici per sport da combattimento

    Test atletici per sport da combattimento

    AJPrima di ogni training camp, sia che si tratti di professionismo o di semplice dilettantismo, è buona cosa far effettuare agli atleti dei test specifici, per valutare lo stato di forma e capire quali sono i punti deboli e quali quelli di forza. Durante l’imminente macrociclo di allenamento, si andrà ovviamente a lavorare di più sui primi e un po’ meno sui secondi. Per chi fosse poco ferrato in materia è consigliabile fare prima un breve ripasso sulle capacità condizionali e coordinative (qui) e sui sistemi energetici (qui).

    Questo e molto altro ancora nel libro sullo strength and conditioning per sport da combattimento che è attualmente in fase di scrittura.

    Buona lettura!

    Capacità organico-muscolari e coordinative da testare
    • Forza massimale
    • Forza esplosiva (o potenza)
    • Forza resistente
    • Resistenza
    • Velocità/rapidità
    • Mobilità articolare
    • Stabilità ginocchio
    Test atletici e relativi valori

    Forza massimale: panca piana; squat; stacco da terra; trazioni zavorrate.

    Ovviamente è di fondamentale importanza la tecnica. Possedere il corretto schema motorio consente di reclutare i giusti muscoli (tenendo comunque presente che si tratta di esercizi multiarticolari) e di limitare il rischio infortunio.

    Panca piana: 1,25-1,5x Bw; Squat: 1,5-2xBw

    Stacco: 1,75-2xBw; Trazioni zavorrate: 0,25-0,5xBw*

    *le cifre rappresentano i carichi massimali che gli atleti riescono a sollevare (1RM) riferiti al proprio peso corporeo (Bw, bodyweight). Riguardo alle trazioni, il peso è il sovraccarico legato alla vita tramite la cintura. Ad esempio, un atleta che pesa 100 kg (x0,25 o x0,5) deve riuscire ad eseguire una trazione alla sbarra completa con una zavorra di almeno 25 kg.

    Forza esplosiva: push press; vertical jump; broad jump; plyo box jump up.

    A differenza degli esercizi di forza massimale, qui entrano in gioco veramente troppi fattori soggettivi. E’ quindi molto difficile stabilire una scala di valori numerici per i vari esercizi. Eccetto che per il push press: 0,75-1xBw.

    Gli esercizi esplosivi riguardano i piani di movimento tipici degli sport da combattimento (frontale e trasversale). Le unità di misura per tutti e tre i salti sono, ovviamente, in centimetri.

    Forza resistente: push ups max reps; pull ups max reps, plank max time.

    Qui c’è poco da spiegare, un esercizio di spinta, uno di trazione ed uno di isometria del core. Massimo numero di piegamenti sulle braccia consecutivi, massimo numero di trazioni prone (pull ups) ed infine un ponte (plank) mantenuto per più tempo possibile (senza perdere la contrazione addominale).

    Resistenza: test di Conconi (individuazione soglia anaerobica) e test di Cooper; è necessario per prima cosa prendere il battito cardiaco a riposo.

    TEST

    Il test di Conconi può essere effettuato in laboratorio (su cicloergometro), su tapis roulant o cyclette, in alternativa anche su pista di atletica [1]. Quest’ultima opzione è la meno attendibile e infatti sta cadendo un po’ in disuso. Il test di Cooper va invece fatto per avere un’idea generale della resistenza fisica dell’atleta. Consiste nel correre per dodici minuti di fila, cercando di coprire la maggior distanza possibile [2]. Sui tapis roulant più moderni, si possono eseguire entrambi questi test, insieme a molti altri (foto a sinistra).

    Di seguito, i risultati ritenuti più o meno soddisfacenti (da molto bene a malissimo), espressi in metri, rapportati alla varie fasce di età (si parla ovviamente di uomini attivi e perfettamente sani). Ulteriori approfondimenti, compresi i valori validi per la popolazione femminile, li potete trovare qui.

    valutazioni

    Velocità: sprint sui 40 metri e test delle due linee.

    Indicativamente dei tempi ritenuti soddisfacenti per gli sprint sui 40 m sono:

    Uomini → mediocre: 5.20-5.40″; buono: 5.19-4.90″; ottimo: <4.90″.

    Donne → mediocre: 5.90-5.65″; buono: 5.64-5.35″; ottimo: <5.35.

    I valori si riferiscono ad atleti sani con un’età compresa fra 18-35 anni.

    40m

    Il secondo test consiste invece nel tracciare due linee parallele, distanti circa 40 cm (immagine riportata sotto) e nell’andare con i piedi “avanti e indietro” per il maggior numero di volte possibile nel tempo concesso (dieci secondi).

    40 cm
    Una singola ripetizione dell’esercizio (non ci sono spostamenti laterali)

    Si parte con entrambi i piedi dietro ad una linea (B) e si portano i piedi oltre la linea opposta (A) uno per volta, alla massima velocità possibile, poi alla stessa maniera si riportano i piedi dietro alla line di partenza (B), e così via, senza interruzioni, fino allo scadere del tempo (10″). Nella figura sopra, tutti i passaggi (1-5) corrispondono ad una singola ripetizione dell’esercizio.

    Mobilità articolare: sit and reach e test di mobilità delle spalle (sollevamento bracia con bacino retroverso e schiena appoggiata ad un muro).

    Il sit and reach test consiste nel ricercare la massima estensione della catena muscolare posteriore da seduti, inclinando il busto in avanti (figura sotto). Le punte delle dita devono cercar di toccare la porzione della tavola più distante possibile. Si salverà il risultato facendo un segno proprio sulla superficie della tavola posizionata poco sopra i piedi ed annotando la distanza raggiunta. A questo link potete trovare un video pratico del test.

    Invece nell’altro test, dopo un breve riscaldamento, l’atleta si posiziona di spalle ad un muro, con la schiena perfettamente aderente alla parete in ogni suo punto (zona lombare compresa).

    Cattura

    Successivamente deve sollevare gli arti superiori provando a toccare il muro alle proprie spalle, mantenendo ovviamente l’articolazione del gomito bloccata. Si misura con un metro (o righello) la distanza delle mani dalla parete.

    Con le suddette regole, la maggior parte delle persone non è in grado di arrivare a toccare la parete. Quando la mobilità richiesta in questa prova viene raggiunta, si passa ad esercizi più impegnativi, di cui magari parleremo in futuri articoli.

    Stabilità ginocchio: lateral and medial single leg hop series (video sotto). Con questo esercizio si valuta la stabilità dell’articolazione del ginocchio, una delle più soggette agli infortuni. Nel caso venissero notate delle problematiche (valgismo, varismo, scarso equilibrio, errato appoggio monopodalico), queste dovranno essere corrette, se necessario con la supervisione di un fisioterapista od un fisiatra.

    Conclusioni

    Quelli di cui abbiamo appena parlato sono i principali test che un preparatore atletico serio dovrebbe far eseguire ai propri atleti praticanti SdC. Ovviamente nulla vieta di sostituirne alcuni con delle varianti, ci sono anche vari fattori che entrano in gioco (disponibilità delle strutture, caratteristiche individuali dei fighters, infortuni pregressi, tipo di programmazione, tempo a disposizione, eccetera). I test vanno eseguiti all’inizio di ogni training camp e vanno poi ripetuti all’inizio del training camp successivo, confrontando i risultati.

    Senza numeri sono tutti atti di fede

    Detto ciò, non resta che salutarci ed augurare a tutti un buon allenamento!


    oc
    Bibliografia

    [1] Conconi F. et al. – Determination of the anaerobic threshold by a noninvasive field test in runners (1982)

    [2] Cooper H. K. et al. – A means of assessing maximal oxygen intake. Correlation between field and treadmill testing (1968)

    Landow L. – Ultimate conditioning for martial arts (Human Kinetics 1a Ediz., 2016)

    Riccaldi A. – The chronicles of Legionarius: la preparazione atletica di Alessio Sakara (2013)

    Bertuzzi R. – Energy System Contributions During Incremental Exercise Test (2013)

    Cravanzola E. – Allenarsi in base alla frequenza cardiaca (2016)

    Travis N. Triplett – Assessing Speed and Agility Related to Sport Performance (2012)

  • Curl alla panca scott? C’è di meglio!

    Curl alla panca scott? C’è di meglio!

    Il curl eseguito alla panca Scott è un must dell’allenamento delle braccia. Ma siamo davvero sicuri che sia così efficace? Il titolo provocatorio dell’articolo suggerisce di no. Ora, partendo dalla biomeccanica e fisiologia muscolare, cercheremo di scoprire i pro ed i contro di questo esercizio. Buona lettura!

    Scott

    Descrizione e cenni biomeccanica

    In breve, l’esecuzione è la seguente: partendo da seduti si impugna il bilanciere, portandolo a pochi centimetri dal viso tramite la flessione del gomito, fin dove l’escursione articolare lo permette. Una volta terminata la fase concentrica, si lascia scendere il bilanciere fino a distendere quasi completamente gli arti superiori. La presa è supina, quindi con i palmi rivolti verso l’alto, garantita dall’articolazione del gomito, la quale appunto permette anche i movimenti di flessione ed estensione dell’avambraccio sul braccio (fisiologia articolare).

    Bicipite-brachiale

    Nelle palestre si vede eseguire questo esercizio quasi sempre con il bilanciere ma può essere anche svolto con dei manubri.

    “Difetti” dell’esercizio

    Teoricamente il curl su panca Scott dovrebbe coinvolgere maggiormente il capo breve del bicipite brachiale, ma in realtà i test scientifici non hanno mai rilevato grosse differenze nella sua attivazione nei tre principali tipi di curl: in piedi (DBC), da seduti su panca inclinata (IDC) e Scott (DPC) [1].

    Va comunque ricordato che l’attività muscolare, misurabile tramite le elettromiografie, non è un parametro troppo attendibile per quanto riguarda l’ipertrofia muscolare (approfondimenti qui).

    Infatti, seguendo il diagramma tensione-lunghezza del tessuto muscolare, se un sollevamento inizia quando il muscolo target è in massimo allungamento, il muscolo non può esercitare alti livelli di forza. Stessa cosa se il muscolo, prima che inizi il sollevamento, è già molto accorciato. Infatti, anche in questa situazione la forza espressa non è molta. Per di più, in quest’ultimo caso il ROM (range of motion) è anche scarso. Il primo caso è quello del curl su panca Scott, il secondo riguarda invece il curl su panca inclinata.

    Invece, il classico curl in piedi è un po’ una via di mezzo fra le due modalità di esecuzione. Il muscolo infatti non parte né troppo allungato, né troppo accorciato.

    Dato il range di movimento veramente scarso, il curl Scott è sembrerebbe essere quello meno ottimale per la crescita muscolare. E c’è anche da considerare il fatto che le ripetizioni parziali in massimo accorciamento, rispetto a quelle in massimo allungamento, non siano l’ideale per l’ipertrofia (minor rilascio di IGF-1, ridotto stimolo meccanico e metabolico) [2]. In aggiunta, quando l’avambraccio è perpendicolare, o quasi, al suolo (fine della fase concentrica), la tensione esercitata sul bicipite brachiale è molto bassa, vicino allo zero. E’ importante sottolineare ciò perché la tensione continua ed il TUT sono dei fattori fondamentali dello sviluppo ipertrofico.

    B1Come fatto notare dal Dott. Andrea Roncari (qui), un altro studio presente in letteratura scientifica [3] ha evidenziato che una flessione della spalla di circa 90°, cioè quella imposta da alcuni modelli di panca Scott, non sia ottimale per l’attivazione del bicipite brachiale, meglio una flessione meno ampia (75°). L’angolo di flessione è il rapporto fra l’arto superiore completamente disteso ed il busto. Ad esempio, quello nella figura a sinistra è un angolo di soli 50°, la maggior parte dei modelli di panca Scott presenti nelle palestre hanno una struttura che impone degli angoli di flessione maggiori.

    Conclusioni

    Ovviamente il curl Scott, come del resto ogni altro esercizio, può trovare il suo posto all’interno di una sensata programmazione dell’allenamento. Già solo il variare lo stimolo allenante è uno dei principi base dell’ipertrofia muscolare (alternare gli esercizi, tecniche di intensità nuove, tempo sotto tensione ecc.). Pertanto occasionalmente può essere inserito in delle schede di allenamento, magari abbinato ad esercizi a ROM più ampio. Sui neofiti, soggetti alle prime armi carenti un po’ in tutti i distretti muscolari, sarebbe saggio evitare – o comunque limitare il più possibile – esercizi come questo. Meglio incrementare la massa muscolare in toto e solo successivamente andare a lavorare sui dettali.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Kapandji – Fisiologia articolare (1999)
    1 Oliveira L. F. et al. – Effect of the shoulder position on the biceps brachii emg in different dumbbell curls (2009)
    2 McMahon G et al. – Muscular adaptations and insulin-like growth factor-1 responses to resistance training are stretch-mediated (2014)
    3 Moon J. et al. – The Effect of Shoulder Flexion Angles on the Recruitment of Upper-extremity Muscles during Isometric Contraction (2013)

  • Hip thrust: una valida alterativa allo squat nella preparazione atletica?

    Hip thrust: una valida alterativa allo squat nella preparazione atletica?

    L’hip thrust è un’esercizio che interessa principalmente gli arti inferiori, tornato alla ribalta negli ultimi anni grazie ad alcuni coach e studiosi d’oltreoceano, come per esempio Bret Contreras.

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    Oltre alla mera ipertrofia, l’hip thrust può trovare il suo spazio anche all’interno di una preparazione atletica finalizzata al miglioramento delle capacità condizionali. In questo  (altro…)

  • I massaggi per il recupero fisico

    I massaggi per il recupero fisico

    I massaggi sono veramente utili per il recupero fisico? Scopriamolo insieme!

    Therapies Massage Handling Osteopathy Wellness

    Concetti basilari

    Se utilizzato nella maniera più opportuna, il massaggio può favorire recupero fisico e performance. Le tecniche manuali che si utilizzano nel massaggio sportivo sono lo (altro…)

  • Kettlebell Marathon: cos’è e come si allena

    Kettlebell Marathon: cos’è e come si allena

    Questa particolare ed estrema branca del Ghiri Sport altro non è che la specialità “di fondo” riguardante appunto le gare di sollevamento delle Ghirie o Kettlebell.

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    Un po’ di teoria

    Come già affrontato in precedenti articoli da me prodotti, l’uso del kettlebell è estremamente  (altro…)

  • Struttura base di un training camp per sport da combattimento

    Struttura base di un training camp per sport da combattimento

    Come viene strutturato il training camp di un atleta professionista di MMA, pugilato, grappling o muay thai?

    Scopriamolo insieme!

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    Cos’è un traing camp?

    Col termine “training camp” si intende tutta la preparazione, fisica e non, che uno sportivo segue in vista di una competizione. L’insieme degli allenamenti tecnici, tattici, sparring, le sedute di strength and conditioning, le tecniche di recupero, incluse le sedute di fisioterapia e, qualora servano, gli incontri col mental coach. Tutto ciò, se gli impianti sportivi lo permettono, viene fatto presso una singola grande struttura. Basti pensare alle grosse palestre di MMA d’oltreoceano che uniscono in qualche centinaio (o migliaio) di metri quadrati tatami, gabbie, ring, sale pesi, centri massaggi e fisioterapici, eccetera.

    Com’è strutturato un training camp?

    In breve, si inizia la preparazione in vista di un match/gara, iniziando prima ad eseguire dei test atletici per valutare lo stato di forma dell’atleta e, col proseguire delle settimane, si va a lavorare sulle varie capacità condizionali e coordinative per rendere più prestante il fighter, alternando parametri come il volume, l’intensità, la densità, gli esercizi, in modo da fornire al corpo degli stimoli nuovi ma cercando di evitare il sovrallenamento (overtraining). Ovviamente la preparazione fisica affiancherà il lavoro principale: gli allenamenti tecnici, tattici e gli sparring. Per questo è fondamentale essere guidati da dei buoni coach e avere a disposizione molti compagni di allenamento.

    All’interno della preparazione, come già accennato, trovano il loro posto le sedute di fisioterapia e le tecniche di recupero come i massaggi o le immersioni in acqua fredda, generalmente quest’ultime durano 8-15 minuti e la temperatura dell’acqua è inferiore o uguale a 15° C. Maggiori approfondimenti li trovate qui.

    Ha il suo collocamento pure il mental coach, o psicologo, figura che in determinati casi può dare un sostegno psicologico importante all’atleta, specialmente quando questo si trova in un periodo delicato della sua carriera.

    Penso che la figura dello psicologo nello sport sia molto importante. In America è appunto presente già da molto tempo, pur non essendo – diciamo – obbligatoria. […] Tutti in quanto umani viviamo difficoltà psicologiche e quando riesci a superarle ecco, è davvero una gran cosa.

    Marvin Vettori

    Per maggiori informazioni sulla parte di training camp inerente la preparazione atletica vi rimandiamo ai nostri numerosi articoli presenti sul blog (clicca qui).

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Landow L. – Ultimate conditioning for martial (Human Kinetics, 2016)
    Cravanzola E. – Le immersioni nell’acqua fredda sono veramente utili? (2017)

  • Ritmo scapolo-omerale: definizione ed utilità in palestra

    Ritmo scapolo-omerale: definizione ed utilità in palestra

    Come da titolo, in questo articolo parleremo del ritmo scapolo-omerale. Un meccanismo forse sconosciuto ai più ma che riveste una certa importanza, anche in ambito pratico, se si sollevano pesi o si compiono sforzi con gli arti superiori. Buona lettura!

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    Cenni di fisiologia articolare

    La spalla è l’articolazione più mobile del corpo umano. Permette movimenti sui tre assi principali (asse trasversale, antero-posteriore, verticale).

    1. Asse trasversale (piano frontale): permette movimenti di flesso-estensione sul piano eseguiti in un piano sagittale (fig. 1.a)
    2. Asse antero-posteriore: è contenuto nel piano sagittale. Permette movimenti di abduzione degli arti superiori (l’arto superiore si allontana dal piano si simmetria del corpo) e di adduzione (l’arto superiore si avvicina al piano si simmetria del corpo) eseguiti in un piano frontale (fig. 2.b)
    3. Asse verticale: determinato dell’inserzione del piano sagittale con quello frontale. Permette movimenti di flessione ed estensione eseguiti sul piano orizzontale, tenendo il braccio in abduzione a 90° gradi.

    Altri movimenti della spalla e del braccio sono illustrati nella foto sotto

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    Ma ora veniamo a noi, il ritmo scapolo-omerale non è altro che il movimento contemporaneo di scapola ed omero. Durante l’elevazione della spalla, a seconda del grado di abduzione della scapola e dell’omero, lavoreranno più alcuni muscoli rispetto ad altri. Tutto ciò, ovviamente, è applicabile nello sport come in palestra. Alcuni gesti/esercizi interesseranno determinati distretti muscolari ed altri no.

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    Movimento combinato di scapola ed omero durante una abduzione

    Uno degli studi più quotati in fisiologia articolare [1] evidenzia come nei primi 80° di abduzione degli arti superiori, quindi con le braccia quasi parallele al suolo, il ritmo scapolo-omerale si concentri sull’omero, dando maggior lavoro al deltoide (rapporto scapola-omero di circa 1:3)*. Invece, dagli 80° ai 140°, inizia a “lavorare” di più la scapola, pertanto c’è una maggior attivazione degli elevatori scapolari (trapezio superiore), con un rapporto scapola-omero indicativamente di 1:2. Infine, oltre i 140 gradi aumenta sempre di più l’attivazione degli elevatori della scapola (trapezio superiore, muscolo elevatore della scapole, piccolo romboide e grande romboide), sottraendo così lavoro al deltoide (rapporto 1:1).

    *a seconda dei testi possiamo trovare delle cifre un po’ differenti ma comunque sempre vicine al range dei 70-90°.

    Ricapitolando…

    • 0-80° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:3
    • 80-140° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:2
    • 140-170° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:1
    Applicazioni pratiche

    Per rendere più concrete tutte queste informazioni, ci basta pensare a quali esercizi prevedono una abduzione delle braccia (figura sopra). Gli esercizi più comuni che includono quel movimento sono le alzate laterali con manubri, le tirate al mento (o al petto) e le distensioni sopra la testa (military press).lateral.PNG

    Alzate laterali: consistono nell’impugnare un manubrio e, partendo dai fianchi, portarlo all’altezza della base del collo, anche se non è raro vedere della varianti che prevedono un range di movimento più ampio (oppure ridotto). Ragionando su quanto detto prima, possiamo arrivare a concludere che portare le braccia a parallele al suolo come in figura sia effettivamente la scelta più corretta a livello biomeccanico. Andando oltre i 90° di abduzione delle braccia, i deltoidi inizierebbero via via a lavorare meno, quindi se l’intento è quello di allenare i muscoli della spalla e non gli elevatori delle scapole, terminare la fase concentrica dell’alzata una volta raggiunti i 90° di abduzione è una cosa più che sensata.chin

    Tirate al mento/petto: questo esercizio per comodità si esegue quasi sempre con il bilanciere. Si parte con le braccia completamente distese, vicino alla vita, e si compie un piegamento degli arti superiori, portando il bilanciere al petto o in prossimità del mento. La versione dell’esercizio da preferire è quella che prevede la fine del sollevamento all’altezza del petto, perché il grado di abduzione degli arti superiori è sufficiente a garantire una marcata attività del deltoide, limitando l’intra-rotazione dell’omero (figura sotto) e quindi il rischio di impingement (che è statisticamente più alto nei soggetti che eseguono molto di frequente le tirate al mento) [2]. Questa problematica infatti si verifica oltre i 70-90° gradi di abduzione dell’omero [3], per questo motivo è consigliabile fermare l’alzata prima che il bilanciere raggiunga il mento, facendo arrivare i gomiti poco sotto l’altezza delle spalle.

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    Con omero intra-rotato (fig. sopra), il capo laterale del deltoide tende a prevalere su quello anteriore, l’esatto contrario avviene invece con l’extra-rotazione [4,5,6].

    Distensioni sopra la testa (lento avanti): consistono nel sollevamento di un carico sopra la testa (manubri, bilanciere, kettlebell). Da in piedi, o seduti su panca, partendo con il peso all’altezza del mento (gomito parallelo al corpo), si esegue una spinta verso l’alto, gli arti superiori si distendono e poi si piegano per tornare al punto di partenza.

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    L’omero compie tutto il suo percorso in una abduzione laterale. E’ da evidenziare inoltre l’intervento del tricipite in fase di spinta che ricordiamo essere l’estensore del gomito (ne avevamo già parlato qui). Pertanto, grazie al coinvolgimento di molti muscoli, questo è indubbiamente l’esercizio per le spalle in cui si può esprimere una maggior forza, sollevando più peso. In termini di ipertrofia, questo si traduce in un maggior stimolo meccanico, elemento base della crescita muscolare. E’ proprio per questo motivo che nelle distensioni sopra la testa il peso viene spinto molto in alto, facendo compiere all’omero una abduzione molto ampia, che inevitabilmente coinvolge molto anche gli elevatori della scapola. E’ bene sottolineare che il motore principale di questo gesto rimane sempre e comunque il deltoide, l’intervento di altri muscoli è secondario. Inoltre, se l’esecuzione è corretta questo esercizio ha un bassissimo rischio di impingement od infortunio, a patto che il soggetto che lo esegue sia perfettamente sano.

    Illustrazioni prese dal libro di Nick Evans – Bodybuilding Anatomy

    Conclusioni

    Benché nell’allenamento conti molto la soggettività, ci sono basi biomeccaniche e fisiologiche comuni a tutti che devono essere rispettate. Non solo per quanto concerne l’ipertrofia ma anche per la salute. Gli esercizi citati nell’articolo possono essere utili per l’incremento della forza e della massa muscolare, basta saperli eseguire correttamente ed alternare gli stimoli allenanti nella maniera più opportuna.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Kapandji I. A. – Fisiologia articolare (1999)
    Boccia G. – Basi del movimento (Dispense universitarie SUISM, a.a. 2014/2015)
    1 Bagg S. D. et al. – A biomechanical analysis of scapular rotation during arm abduction in the scapular plane (1988)
    2 Kolber MJ et al. – Characteristics of shoulder impingement in the recreational weight-training population (2014)
    3 Schoenfeld BJ et al. – The upright row: implications for preventing subacromial impingement (2011)
    4 Botton C. E. et al. – Electromyographical analysis of the deltoid between different strength training exercises (2013)
    5 McAllister M. J. et al. – Effect of grip width on electromyographic activity during the upright row (2013)
    6 Reinold M. M. et al. – Electromyographic analysis of the supraspinatus and deltoid muscles during 3 common rehabilitation exercises (2007)