Chi segue il canale Youtube di questo sito sa di un certo apprezzamento del sottoscritto nei confronti dello stacco da terra con la trap bar (o hex bar, bilanciere esagonale).
Introduzione: complementare o fondamentale?
Lo stacco con bilanciere esagonale viene solitamente visto come una delle tante varianti dello stacco tradizionale, forse perché l’ambiente dei pesi, almeno in questo caso, è un po’ figlio di una visione “powerlifter-centrica” degli esercizi. Se è indiscutibilmente vero che nel powerlifting (squat, panca, stacco) il “trap bar deadlifts” è un’alzata complementare, pertanto qualcosa di non fondamentale o prioritario, in un allenamento improntato sulla crescita muscolare (fitness/bodybuilding) o sul miglioramento della propria condizione atletica, la musica è differente. Riguardo a quest’ultimo punto, un programma ragionato di strength and conditioning potrebbe integrare lo stacco con trap bar principalmente in tre modi:
Esercizio complementare (forza): un atleta fa squat/leg press/stacco convenzionale più, in certi momenti, il trap bar deadlifts;
Esercizio fondamentale (forza): all’interno di un macrociclo di allenamento un atleta basa sul trap bar deadlifts l’aumento (o il mantenimento) della propria forza massimale;
Esercizio (fondamentale o complementare) di potenza: si eseguono dei salti esplosivi utilizzando come sovraccarico il bilanciere esagonale e un tot di dischi (trap bar jump deadlift).
Ma ora andiamo un po’ più nello specifico.
Punti a favore dell’esercizio
Maggiore attivazione dei quadricipiti rispetto allo stacco tradizionale;
A differenza del deadlift classico, il bilanciere non va mai a contatto con le tibie (assenza di abrasioni);
Permette di muovere il bilanciere con una certa velocità, anche con carichi sub-massimali (90% 1RM);
Generalmente si sollevano carichi leggermente superiori, sempre se lo confrontiamo all’alzata sua cugina.
Criticità
A livello biomeccanico il movimento potrebbe, giustamente, ricordare molto uno squat, ma il ROM (range di movimento) dell’accosciata è minore;
Se uno o più studi evidenziano una elevata potenza meccanica (sul bilanciere spostato) ed una notevole potenza metabolica muscolare, ciò non è detto che significhi: atleta che diventa più forte e potente (sempre se paragonato ad un ipotetico collega che si allena con altri esercizi multiarticolari).
Discutiamone un attimo
Il trap bar deadlift ed il deadlift standard hanno differente centro di massa, in questo il primo è più simile allo squat. In più, nel primo non vi è lo sticking point al ginocchio (punto critico dell’alzata), pertanto il sollevamento risulta un po’ più rapido e semplice.
Le immagini riportate sopra raffigurano i due tipi di stacco e provengono da uno studio che mettendo a confronto le due alzate ha osservato alcune cose interessanti1. Come già accennato nel precedente paragrafo, con la trap bar il carico massimo sollevabile (1RM) è un po’ superiore (+6%) e la velocità nei sollevamenti impegnativi (90% 1RM) è significativamente a favore dello stacco con bilanciere esagonale (+15%). Nello studio in questione, con lo stacco regular il bilanciere ha avuto una accelerazione che è durata per il 60% dell’intero tempo di alzata, mentre con trap bar per circa l’82% del tempo. Anche un altro studio condotto su soggetti esperti aveva evidenziato la tendenza degli atleti a sollevare qualche kg in più con la trap bar2.
Qui sotto, un po’ di dati (Lake J. et al., 2017):
Nella seconda immagine potete osservare come il momento più impegnativo nello stacco tradizionale (linea rossa) sia quasi a metà alzata: si parte rapidi, per poi rallentare l’alzata quando il bilanciere si trova nei pressi del ginocchio, discorso ben diverso per quello con trap bar. In quest’ultimo le incertezze vi sono all’inizio – momento della partenza -, poi tutto fila piuttosto liscio.
Greg Nuckols, coach e powerlifter d’élite, scrive che:
«It’s common to argue that conventional deadlifts should be trained instead of trap bar deadlifts because a trap bar deadlift isn’t a true “hinge” movement – more like a hinge/squat hybrid. So, the thinking goes, since you’re already training the squat (or at least you should be), you’re wasting your time with the trap bar deadlift since it won’t train the hinge pattern very well by itself, and it doesn’t train the squat pattern as well as actually squatting. While it’s true that trap bar deadlifts are a little bit “squattier” than conventional barbell deadlifts, they’re much closer to a “hinge” than a squat».
In poche parole, il trap bar deadlift non è un vero “hinge movement”, cioè un movimento a cerniera, molto anca-dipendente (come nello stacco tradizionale dove il grosso del movimento lo fa questa articolazione) ma nemmeno un movimento più ginocchio-dipendente (come il normale squat con bilanciere). Ciò tuttavia non significa che nei propri allenamenti non si debba dedicare del tempo a questo movimento (discorso diverso per i powerlifter, loro in gara portano direttamente lo stacco regular).
Circa il range di movimento, anche a seconda delle leve del soggetto in questione, lo stacco trap bar pare una sorta di via di mezzo fra uno squat classico (femore parallelo al terreno) ed un mezzo squat. Questo non rende sempre ottimale il lavoro muscolare, ma c’è un piccolo trucco per ovviare al problema (rialzo sotto ai piedi). Nel video in basso potete osservare un modo pratico per aumentare il ROM dello stacco con bilanciere esagonale: deficit trap bar deadlift.
Anche se raramente si vede effettuare qualcosa di diverso dallo stacco, col bilanciere esagonale si possono effettuare anche salti esplosivi, facendo oppure no la fase eccentrica sovraccaricata. Come? Molto semplicemente si salta verso l’alto (come in uno squat jump o 1/2 squat jump) e si atterra. Va tenuto a mente che occorre essere ben condizionati per tollerare l’impatto a terra con tutto il carico senza farsi male. Per rendere più leggero l’esercizio si può lasciare andare il bilanciere qualche istante prima di toccare il suolo coi piedi, facendolo rimbalzare sul pavimento (sempre che il proprietario della palestra non vi cacci via…).
Va citata anche una analisi elettromiografica pubblicata su Journal of Strength and Conditioning Research3 che ha sottolineato come durante la fase concentrica ed eccentrica dello stacco da terra, il bilanciere esagonale coinvolga maggiormente il vasto laterale, mentre il movimento dello stacco col bilanciere dritto il bicipite femorale (durante la concentrica) e gli erettori spinali (durante l’eccentrica).
Conclusioni
L’esercizio magico non esiste, l’arma vincente è sempre (o quasi) la variazione degli stimoli allenamenti sul lungo periodo. Anche se uno degli studi3 qui presi in esame, traducendo, arriva alle seguenti conclusioni: «Questi risultati suggeriscono che […] il bilanciere esagonale possa essere più efficace (rispetto a quello normale, ndr) nello sviluppo di forza, potenza e velocità massima», dobbiamo tenere a mente che non necessariamente una maggior potenza generata in un sollevamento porterà a futuri incrementi di forza, potenza o ipertrofia. Ciò non toglie che il bilanciere esagonale, spesso ingiustamente sottovalutato, possa essere un ottimo alleato per coach, atleti e personal trainer.
Buon allenamento!
Ho deciso di scrivere questo articolo anche grazie a dei post di Simone Calabretto che mi hanno fatto appassionare all’argomento. A lui vanno i miei ringraziamenti.
1 Jason Lake, Freddie Duncan, Matt Jackson, David Naworynsky – Effect of a Hexagonal Barbell on the Mechanical Demand of Deadlift Performance. Sports (Basel) . 2017 Oct 24;5(4):82.
2 Paul A Swinton, Arthur Stewart, Ioannis Agouris, Justin W L Keogh, Ray Lloyd – A biomechanical analysis of straight and hexagonal barbell deadlifts using submaximal loads. J Strength Cond Res . 2011 Jul;25(7):2000-9.
3 Kevin D Camara, Jared W Coburn, Dustin D Dunnick, Lee E Brown, Andrew J Galpin, Pablo B Costa – An Examination of Muscle Activation and Power Characteristics While Performing the Deadlift Exercise With Straight and Hexagonal Barbells. J Strength Cond Res . 2016 May;30(5):1183-8.
Articolo dopo articolo, asimmetria dopo asimmetria, ora tocca parlare del tennis, sport molto particolare date le esigenze tecniche.
Quanto segue è il sunto di una tesi compilativa elaborata dal sottoscritto ed esposta presso l’Università degli Studi di Torino (Unito) per la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive. Buona lettura.
Ipertrofia e non solo
In sport come il tennis solitamente gli atleti tendono a usare di più un arto superiore rispetto all’altro, palesando quindi una preferenza laterale. Non a caso questo sport viene associato a delle asimmetrie scapolari (e non solo)1,2.
Uno studio di Calbet J. A. et al.3 ha osservato che nell’età prepuberale (11-13 anni) i giovani tennisti hanno una asimmetria fra l’arto dominante e quello non dominante più marcata (20%) rispetto ai tennisti professionisti uomini (deltoidi, tricipiti, flessori del braccio e flessori superficiali dell’avambraccio del lato dominante erano più ipertrofizzati del 11-15%). Anche altri successivi studi, metodologicamente più accurati, hanno confermato una “asimmetria ipertrofica” abbastanza importante (12-13%)2,4. Va sottolineato come il grosso dell’ipertrofia sul braccio forte venga ottenuta quando gli atleti iniziano ad allenarsi molto giovani, specialmente a livello dell’avambraccio3, forse per questioni ormonali, oppure per il differente rapporto fra il peso della racchetta ed il volume muscolare dell’avambraccio dei bambini («ratio weight of racket/forearm muscle volume in children»)5,6,7,8,9. Basandoci sul materiale attualmente presente in letteratura scientifica sappiamo che l’asimmetria fra i due arti superiori include anche la muscolatura dei deltoidi (asimmetria simile fra professionisti e fascia d’età prepuberale: 16 e 13%)4, discorso differente per i tricipiti ed i flessori del braccio (tipicamente coracobrachiale, bicipite brachiale e brachiale). Questi ultimi muscoli sono asimmetrici nei giocatori adulti e professionisti ma non nei giovani in fase prepuberale4, ma questa differenza potrebbe essere comunque spiegabile. È possibile che le differenze nei tricipiti e nei flessori del braccio tra giovanissimi tennisti e atleti professionisti derivino dalla maggiore richiesta di forza e potenza dei colpi nei professionisti, specialmente durante il servizio10,11.
Sopra, il grado di asimmetria fra giovani tennisti (fase prepuberale) e coetanei sedentari che non praticano tennis (Sanchis-Moysi J. et al., 2012).
Possibili infortuni
Più studi dimostrano come durante i colpi del tennis (dritto, rovescio, servizio, colpo al volo) vi sia una attivazione asimmetrica dei muscoli della zona inferiore del tronco12,13. Asimmetrie muscolari dell’ileopsoas e del grande gluteo14 sono state associate al dolore lombare15, dolore cronico all’inguine16, borsite e tendinite all’ileopsoas, più dolori al gran trocantere17. Infine, uno studio condotto su 61 tennisti professionisti ha palesato una notevole incidenza di infortuni, lesioni muscolari, al retto addominale, nello specifico situate nel lato non dominante18.
1 Cools A. M. et al. – Prevention of shoulder injuries in overhead athletes: a science-based approach – Braz J Phys Ther. 2015 Sep- Oct;19(5):331-9. 2 Sanchis-Moysi J, Idoate F, Serrano-Sanchez JA, Dorado C, Calbet JA – Muscle hypertrophy in prepubescent tennis players: a segmentation MRI study – PLoS One. 2012;7(3):e33622. 3 Calbet JA, Moysi JS, Dorado C, Rodríguez LP – Bone mineral content and density in professional tennis players. Calcif Tissue Int. 1998 Jun;62(6):491-6. 4 Sanchís-Moysi J, Idoate F, Olmedillas H, Guadalupe-Grau A, Alayón S, Carreras A, Dorado C, Calbet JA – The upper extremity of the professional tennis player: muscle volumes, fiber-type distribution and muscle strength. Scand J Med Sci Sports. 2010 Jun;20(3):524-34. 5 Morris M, Jobe FW, Perry J, Pink M, Healy BS – Electromyographic analysis of elbow function in tennis players. Am J Sports Med. 1989 Mar- Apr;17(2):241-7. 6 Blackwell JR, Cole KJ – Wrist kinematics differ in expert and novice tennis players performing the backhand stroke: implications for tennis elbow. J Biomech. 1994 May;27(5):509-16. 7 Knudson D, Blackwell J – Upper extremity angular kinematics of the one-handed backhand drive in tennis players with and without tennis elbow. Int J Sports Med. 1997 Feb;18(2):79- 82. 8 Wei SH, Chiang JY, Shiang TY, Chang HY – Comparison of shock transmission and forearm electromyography between experienced and recreational tennis players during backhand strokes. Clin J Sport Med. 2006 Mar;16(2):129-35. 9 Giangarra CE, Conroy B, Jobe FW, Pink M, Perry J – Electromyographic and cinematographic analysis of elbow function in tennis players using singleand double-handed backhand strokes. Am J Sports Med. 1993 May- Jun;21(3):394-9. 10 Elliot B. C. – Biomechanics of tennis (1992) 11 Sanchís-Moysi J. et al. – Large asymmetric hypertrophy of rectus abdominis muscle in professional tennis players. PLoS One. 2010 Dec 31;5(12):e15858. 12 Chow JW, Park SA, Tillman MD – Lower trunk kinematics and muscle activity during different types of tennis serves. Sports Med Arthrosc Rehabil Ther Technol. 2009 Oct 13;1(1):24. 13 Wang LH, Lin HT, Lo KC, Hsieh YC, Su FC – Comparison of segmental linear and angular momentum transfers in two-handed backhand stroke stances for different skill level tennis players. J Sci Med Sport. 2010 Jul;13(4):452- 9. 14 Sanchis-Moysi J, Idoate F, Izquierdo M, Calbet JA, Dorado C. – Iliopsoas and Gluteal Muscles Are Asymmetric in Tennis Players but Not in Soccer Players. PLoS One. 2011;6(7):e22858. 15 Nelson-Wong E, Gregory DE, Winter DA, Callaghan JP – Gluteus medius muscle activation patterns as a predictor of low back pain during standing. Clin Biomech (Bristol, Avon). 2008 Jun;23(5):545- 53. 16 Holmich P. – Long-standing groin pain in sportspeople falls into three primary patterns, a ‘‘clinical entity’’ approach: a prospective study of 207 patients. Br J Sports Med. 2007 Apr;41(4):247-52. 17 Williams BS, Cohen SP – Greater trochanteric pain syndrome: a review of anatomy, diagnosis and treatment. Anesth Analg. 2009 May;108(5):1662- 70. 18 Balius R. et al. – Ultrasound assessment of asymmetric hypertrophy of the rectus abdominis muscle and prevalence of associated injury in professional tennis players. Skeletal Radiol. 2012 Dec;41(12):1575-81.
La genetica è ingiusta, anti-meritocratica, avvantaggia alcuni ed affossa altri. Spesso può capitare di sentire discorsi di questo tipo nelle palestre o sui social, ma cosa c’è di vero? Domanda retorica…
Qualche tempo fa è stato pubblicato un bell’articolo in inglese (Genetics and Elite Athletes), spero che prenderne in prestito alcuni punti possa giovare anche al pubblico non anglofono. Buona lettura!
Introduzione
Non siamo tutti uguali e per accorgersi di questo bastano due occhi ed un cervello, in realtà neanche due gemelli omozigoti lo sono. C’è chi è un po’ più alto,chi più basso,chi più predisposto alla crescita muscolare, allo sviluppo della velocità, a quello della resistenza… O ancora, chi apprende un compito motorio nella metà del tempo rispetto ad un soggetto meno predisposto, chi è più soggetto a infortuni, malattie, e chi più ne ha ne metta.
Capisci l’importanza della genetica quando un ragazzo che non ha mai fatto del movimento in vita sua mette piede in palestra e in un paio d’anni ottiene i tuoi medesimi risultati, peccato solo che tu ti alleni dal triplo – se non quadruplo – del suo tempo, cercando di fare le cose a modo, lui magari neanche sa eseguire bene gli esercizi.
Genetica e forza
In base a come un muscolo si inserziona su un osso, od un complesso articolare, molte cose possono cambiare. Una giusta inserzione può permettere a un soggetto di eseguire più velocemente un determinato movimento tramite un maggior sviluppo di forza1,2.
Gli studi ortopedici hanno effettivamente dimostrato che cambiare il sito di attacco di un tendine in una posizione meno vantaggiosa dal punto di vista meccanico, può ridurre il range di movimento di un’articolazione e la coppia articolare in varie posizioni (quando i muscoli si contraggono o si allungano, creano forza muscolare, questa forza muscolare attira le ossa creando una coppia articolare)3.
Il punto in cui il muscolo si “attacca” all’osso è determinato da questioni genetiche4, non lo scegliamo noi, inutile piangersi addosso o incolpare i genitori. Allo stesso tempo, anche la forza generata da due muscoli di analoga dimensione e inserzione può essere differente, basti pensare alla diversa distribuzione di fibre muscolari5. Di esse, tipologie e caratteristiche, avevamo già abbondantemente parlato qui.
Sopra potete osservare i cambiamenti del livello di forza dei quadricipiti di 53 soggetti sedentari che hanno eseguito un 4×10 (80% 1RM) di leg extension per 9 settimane (tre allenamenti a settimana). Vi è stata un’ampia variabilità fra i risultati ottenuti dai praticanti: c’è chi è migliorato tantissimo (forza incrementata di quasi il 50%) e chi quasi non è progredito per nulla (uno addirittura è peggiorato). Da Robert M. Erskine et al., 201028.
Genetica e sviluppo muscolare
L’ipertrofia può dipendere da una moltitudine di fattori. Ad esempio, a livello genetico, può essere fortemente influenzata dalla miostatina (un gene). Mutazioni geniche potrebbero portare certi soggetti fortunati ad accumulare più muscoli del normale6. Inoltre, è assai probabile che una carenza di miostatina giochi un ruolo importante nel reclutamento di cellule satellite. Quest’ultime sono sostanzialmente delle cellule staminali, stem cells, del muscolo. Quando le fibre muscolari subiscono dei danni, le stem cells vengono attivate per fornire assistenza nel processo di adattamento e ricostruzione muscolare7. Sempre le cellule satellite possono donare i loro nuclei alle cellule muscolari per consentirne la crescita8.
In letteratura scientifica si è visto come il reclutamento di cellule satellite sia estremamente variabile da persona a persona9,10. E’ stato quindi ipotizzato che la capacità di attivazione delle stem cells sia un fattore genetico11 che premia, parlando di ipertrofia, gli individui in grado di reclutare meglio queste particolari cellule8. Quindi se avete un amico che pur allenandosi un po’ alla carlona cresce molto bene a livello muscolare, è probabile che egli sia inconsciamente capace di reclutare naturalmente le cellule satellite a ritmi molto superiori al normale.
Sopra, stesso studio preso in esame poc’anzi28, è mostrato l’incremento della sezione trasversale dei quadricipiti dopo le solite 9 settimane di leg extension (4×10 all’80% 1RM, 3xweek). La crescita muscolare media è stata del 5,7%; anche qui i soggetti più predisposti hanno visto aumentare i propri volumi muscolari di quasi il 20% e quelli meno fortunati hanno avuto dei lievi peggioramenti (-3% circa). Come sempre, vi è stata una grande variabilità individuale.
Genetica e velocità
I velocisti d’élite possiedono muscoli mediamente più dotati di fibre bianche rispetto a una popolazione di comuni sedentari12,13. Si è anche osservato che i pesisti olimpici, atleti notoriamente molto esplosivi, hanno percentuali molto alte di fibre bianche14. Pare quindi ovvio constatare che gli atleti ben messi in quanto a fibre bianche rapide (tipo II) abbiano un enorme vantaggio sugli sport di velocità e/o potenza rispetto agli sportivi meno “geneticamente fortunati”. La maggior velocità ed efficienza muscolare di un soggetto rispetto a un altro non data unicamente dalla forza contrazione, ma anche dalla fase di rilassamento. «Possiamo suddividere la contrazione e il rilassamento muscolare in tre fasi principali, ovvero la contrazione, il rilassamento ed infine la fase latente, fase che segue lo stimolo, ma nella quale non c’è risposta. Questo complesso sistema di reazioni chimiche determinerà lo scorrimento di un filamento sull’altro, e quindi la contrazione del sarcomero. A seguito della contrazione la troponina rilascia ioni Ca2+ che tornano nel reticolo sarcoplasmatico»15. Più velocemente si possono rilassare le fibre muscolari, più velocemente il muscolo si accorcerà, generando una maggiore potenza complessiva16. Questo processo è mediato da più enzimi all’interno del muscolo che sono necessari per la risintesi dell’ATP, il legame del calcio e altri complicati processi biochimici16. Il celebre allenatore sovietico Yuri Verkhoshansky sosteneva che i velocisti talentuosi di natura rispondessero all’allenamento principalmente migliorando i tassi di rilassamento più che la forza muscolare effettiva16. Ben lungi dall’avere delle certezze, ci sono effettivamente dei dati che avallano la tesi del Prof. Verkhoshansky17. Sfortunatamente, anche i tassi di rilassamento sembrano essere altamente ereditari poiché gli studi hanno dimostrato che né l’età, né il sesso hanno alcuna correlazione con essi18.
Un altro fattore determinante della prestazione atletica può essere l’isteresi del tendine. L’isteresi del tendine si riferisce all’efficienza con cui un tendine assorbe e reindirizza la forza19. I tendini sono il tessuto connettivo tra muscolo e ossa, si allungano quando un muscolo si allunga e si contraggono quando un muscolo si accorcia. Pertanto, la capacità di un tendine di trasmettere efficacemente la forza dall’allungamento all’accorciamento può determinare la quantità di potenza complessiva che può essere trasferita all’osso e alla locomozione complessiva19. Come riportato in letteratura scientifica20 i tendini durante un ciclo di accorciamento-stiramento e durante le contrazioni isometriche massimali possono allungarsi fino dal 6 fino al 14%, inoltre se il tendine è lungo, i fascicoli muscolari si allungano di meno. Un tendine che è più rigido, per questioni genetiche ma anche adattamento all’attività fisica, è più prestante (assicura maggior potenza e velocità nei movimenti) ma è più soggetto agli infortuni.
Genetica e resistenza
Direttamente correlato all’idea di isteresi tendinea è l’economia del gesto nella corsa su lunghe distanze effettuata da atleti esperti. È stato teorizzato nel corso degli anni che i maratoneti d’élite sono semplicemente più bravi a “dissipare il calore” rispetto agli altri corridori21,22. Un corridore inefficiente, può manifestare un maggiore accumulo di calore a causa, in parte, della scarsa isteresi del tendine che accelera il processo di affaticamento durante una corsa protratta nel tempo19. A livello biochimico, diversi enzimi all’interno del muscolo sono necessari per determinare il “tasso metabolico” di uno sforzo fisico. Il più grande degli atleti di endurance può essere tale perché semplicemente ha degli enzimi più attivi dei suoi avversari di gara22. Ci sono infatti degli studi che mostrano come alcuni corridori particolarmente performanti siano in grado di mantenere velocità elevate a un VO2 max (massimo consumo di ossigeno) inferiore ai valori di altri soggetti meno allenati (o meno portati)23. Un po’ come se due veicoli andassero alla stessa velocità per innumerevoli chilometri e uno consumasse il 10% di carburante in meno rispetto all’altro.
Sempre riguardo alla corsa, una miglior economicità del gesto (andatura efficiente) può essere dovuta alla preponderanza di fibre muscolari di tipo I, quindi lente e rosse. Queste fibre, come molti sanno, sono le più adatte per impegni fisici protratti nel tempo: accumulano meno sottoprodotti metabolici e si affaticano più lentamente. Inoltre, uno dei fattori limitanti dei lavori di resistenza è l’afflusso di ossigeno ai muscoli. Questo, entro un certo limite, può essere migliorato con l’allenamento ma esistono anche qui persone più inclini di altre ad essere resistenti grazie a una maggior capacità (innata) di rifornire i propri muscoli di ossigeno24. Anche la densità capillare può essere influenzata dalla genetica individuale24,25. I capillari sono il sito dello scambio di ossigeno tra il sistema vascolare e il muscolo. È qui che l’ossigeno viene fornito al muscolo e i prodotti metabolici di scarto vengono rimossi. Pertanto, è facile intuire che più capillari ha un atleta nel tessuto muscolare, più ossigeno può essere erogato e più rifiuti metabolici possono essere smaltiti o riconvertiti25.
Genetica e infortuni
Come sottolineato da Collins M. et al.26, gli sforzi eccessivi che portano a lesioni dei tessuti molli del sistema muscolo-scheletrico, derivanti da lavori usuranti o attività fisica, sono influenzate dalla genetica individuale. In special modo quelle al tendine d’Achille (caviglia), alla cuffia dei rotatori (spalla) ed ai legamenti crociati (ginocchia). Le varianti di sequenza all’interno dei geni che codificano le diverse proteine di matrice extracellulare dei tendini e/o dei legamenti sono state associate a specifici infortuni di specifiche zone dei tessuti. Per esempio le varianti della sequenza del gene della Tenascina-C (TNC), COL5A1 ed Metalloproteinasi di matrice 3 (MMP3) sono state collegate alle tendinopatie del tendine d’Achille. Entrando un po’ più nel dettaglio, le varianti della sequenza del gene della Tenascina-C sono state associate sia alle tendinopatie che alle rotture del tendine d’Achille. mentre le varianti del COL5A1 e COL1A1, geni che forniscono le istruzioni genetiche per realizzare le componenti del collagene di tipo I e V, sono state correlate ad infortuni al legamento crociato posteriore.
Inoltre, una meta-analisi del 2015, quindi alto impatto statistico, ha raccolto i dati provenienti da studi pubblicati in letteratura scientifica fra il 1984 ed il 2014 (trent’anni precisi). I ricercatori – Longo U. G. et al. – hanno confermato tutto ciò che avevano dedotto Collins e Raeligh nel 2009, aggiungendo che, oltre alla genetica, contano ovviamente diversi altri fattori, in primis lo stile di vita27.
Nella seconda metà dello scorso secolo ci fu un interessante confronto intellettuale, dovuto a una netta divergenza di opinioni, tra i filosofi d’oltreoceano John Rawls e Robert Nozick. Il primo era un grande sostenitore dell’equità in ogni aspetto della vita sociale, il secondo – ideologicamente più a destra – no. Quest’ultimo, ricorrendo all’esempio di una partita di basket, sosteneva che i tifosi dovessero essere liberi di pagare il prezzo del biglietto facendo arricchire, direttamente o indirettamente, un giocatore particolarmente bravo (spendere i propri soldi in quel modo è un loro diritto). Qualora quel giocatore attirasse milioni di appassionati, egli ben presto diventerebbe molto ricco.
Ovviamente Rawls era in totale disaccordo: un società giusta non dovrebbe permettere a un uomo, sportivo o meno, di accumulare troppi soldi, salvo che ciò non porti dei vantaggi ai più poveri. Stando sempre al pensiero di J. Rawls, un grande talento nello sport o un’intelligenza superiore alla media è solo frutto di una fortuna sfacciata. Noi potremmo dire: genetica favorevole. Per questo filosofo, notevoli doti fisiche o intellettive non sono altro che una vittoria alla “lotteria della natura“, qualcosa che con la meritocrazia non ha nulla a che vedere. Per il collega Nozick, era invece giusto che l’eccellenza fosse meglio retribuita (anche con cifre milionarie). A distanza di anni, quello dell’equità e dei guadagni è ancora un argomento che infiamma il dibattito pubblico, saltuariamente anche in campo sportivo.
Conclusioni
In un certo senso potremmo dire che non siamo noi a selezionare scientemente uno sport da fare, ma è lo sport a scegliere noi. La pratica e la dedizione, non solo riguardo l’attività fisica, possono far migliorare praticamente chiunque e mettere delle pezze a certe lacune. Certo è che, a parità di impegno, chi ha ricevuto i biglietti fortunati per la lotteria della natura sarà sempre un passo avanti agli altri, anche senza averlo voluto.
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Quella che segue è una traduzione ed adattamento di un articolo particolarmente interessante del chinesiologo e coach Dean Somerset.
Buona lettura!
Un concetto chiave
Una delle cose più importanti che desidero che le persone si portino a casa è la seguente: ogni individuo ha una propria anatomia, punti di forza, punti deboli e obiettivi. Pertanto, l’approccio a certi esercizi potrebbe non essere quello riportato sui comuni libri di testo. La compilazione del programma di allenamento, la scelta degli esercizi e l’approccio a quest’ultimi può variare da soggetto a soggetto.
Gran parte della ricerca sulla variazione anatomica può mostrare che alcune persone hanno strutture che possono facilitare e consentire movimenti di un certo tipo, mentre per altre sarebbe più facile abbattere un muro di mattoni col labbro superiore piuttosto che eseguire una accosciata molto profonda, indipendentemente dai lavori sulla mobilità articolare e tessuti molli. Le loro articolazioni non hanno la conformazione idonea per fare certe cose!
E anche guardando più in profondità nella tana anatomica del bianconiglio, uno stesso atleta può avere differenze significative fra l’arto destro e sinistro, superiore o inferiore che sia, specialmente se vi sono state delle esperienze sportive importanti prima dell’adolescenza (si parla di sport dove un lato del corpo è più impegnato rispetto alla controparte).
Nella pratica
I giocatori di baseball per esempio hanno la testa dell’omero del loro braccio di lancio leggermente deformata, questa “caratteristica” ovviamente non si presenta nel braccio che solitamente non viene utilizzato per i lanci. Cambiando sport, la postura che generalmente tengono i praticanti di hockey nell’impugnare il bastone li porta ad avere un’estensione dell’anca maggiore da un lato rispetto all’altro.
Sopra, le variazioni anatomiche dell’angolatura del collo del femore.
Guardando le differenze nell’angolo del collo femorale della gamba sinistra e destra nei bambini con paralisi cerebrale, Davids et al. (2002) hanno dimostrato che in alcuni bambini questa differenza può essere piccola, di pochi gradi, e in altri molti più netta (fino a più di 25 gradi). Questa differenza strutturale potrebbe stare a indicare che mentre un piede extraruota (turns out) l’altro magari intraruota (turns in).
Uno studio di Zalawadia et al. (2010) ha mostrato come anche soggetti senza problemi cerebrali possano avere significative differenze nell’antiversione fra l’arto inferiore destro e sinistro (20 o più gradi). Al riguardo qui sotto potete osservare qualche numero.
Pertanto, se in uno stesso individuo vi sono asimmetrie rilevanti, ma comunque fisiologiche, ricercare a tutti i costi asimmetrie nel movimento potrebbe essere impossibile, nonché inutile.
Se io voglio stare con la punta del piede destro extrarotata è perché ho una differenza strutturale a livello dell’anca (la destra è differente dalla sinistra). I muscoli dell’anca sono relativamente bilanciati quando le articolazioni su cui agiscono sono a riposo, se però provo a stare in una stance perfettamente simmetrica durante l’esecuzione di un qualche esercizio l’equilibrio viene alterato.
Forzare la simmetria su una struttura asimmetrica non aiuta a correggere gli squilibri muscolari. Anzi, è probabile che li causi.
Spesso, per esercizi come squat o stacco da terra si cerca una stance simmetrica, simile a quella mostrata nella figura qui sotto.
Secondo quanto affermato fino ad ora, potrebbe non essere una scelta saggia. Almeno in teoria, persone con strutture asimmetriche dovrebbero trovarsi più a loro agio in stance fisiologiche e che quindi rispettano le loro asimmetrie corporee (figura sotto).
Oppure per certe persone sarebbe naturale avere un piede un po’ dietro l’altro (fig. sotto).
Altre persone ancora potrebbero avere dei benefici in stance tipiche di esercizi dove non si appoggia sempre l’intera superficie del piede a terra (affondi/piegate).
Discostandoci un attimo dall’articolo originale, le asimmetrie, particolarmente presenti negli atleti più navigati, secondo i dati attualmente presenti in letteratura scientifica il più delle volte sono da considerarsi come un qualcosa di assolutamente normale. Testimoniano ciò fior fior di studi. Ne è un esempio quello di Haugen T. et al. (2018) i cui numeri chiave sono riportati nella tabella qui sotto.
Parecchie asimmetrie sono comunissime negli sprinter d’élite e non rappresentano in alcun modo un ostacolo alla performance od un pericolo per la salute. “Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters” (immagine presa da qui).
«Molti esperti di allenamento della forza, fisiologi e ricercatori hanno proposto che dovremmo cercare di ridurre l’asimmetria del movimento durante lo sport, al fine di migliorare le prestazioni e ridurre il rischio di infortuni. Tuttavia, come dimostra questo nuovo studio sugli sprinter di pista, l’asimmetria del movimento è estremamente comune durante lo sprint e non è correlata né alle prestazioni di sprint né al rischio di lesioni. È quasi come se l’asimmetria fosse una caratteristica del tutto naturale del movimento umano».
Conclusioni
Riguardo alle immagini dei piedi nel paragrafo precedente, qualcuna di quelle posizioni è sbagliata? No. Una posizione potrebbe essere completamente giusta per qualcuno, ma non funzionare affatto per qualcun altro. E va bene così. Non tutti abbiamo bisogno di fare le medesime cose, o muoverci allo stesso modo.
Se pensiamo ad esempio alle visite oculistiche, è diffusissimo il fatto che le persone vedano bene da un occhio e meno bene dall’altro. Anche gli occhi, esteticamente identici, nelle persone sane non sono uguali, e lo stesso concetto è valido per le altre parti del corpo.
Certi accorgimenti tecnici su gesti/esercizi sportivi potrebbero essere utilissimi per alcuni soggetti ed inutili per altri. Solo l’esperienza ed un occhio attento possono fare la differenza e capire quali esercizi e movimenti sono più adatti ad un individuo e quali meno. Distinguendo le asimmetrie fisiologiche – che sono la stragrande maggioranza – da quelle patologiche.
Somerset D. – Symmetry Doesn’t Even Matter, And Probably Causes More Problems Than It Solves (2018) Davids J. R. et al. – Assessment of femoral anteversion in children with cerebral palsy: accuracy of the trochanteric prominence angle test (2002) Zalawadia A. et al. – Study Of Femoral Neck Anteversion Of Adult Dry Femora In Gujarat Region (2010) Haugen T. et al. – Kinematic stride cycle asymmetry is not associated with sprint performance and injury prevalence in athletic sprinters (2018)
Oltre alla miriade di cose in cui interviene la genetica, nel bene e nel male, essa è in grado di influenzare anche la struttura legamentosa e tendinea del corpo, aumentando o diminuendo così la predisposizione agli infortuni.
Cenni di fisiologia articolare
Prima di passare a piatto caldo, è necessario partire dalle basi. Le ossa dello scheletro (lunghe, corte, irregolari, piatte) si uniscono tra di loro attraverso articolazioni, o per continuità o per contiguità.
Le articolazioni continue prendono il nome di sinartrosi dove la continuità è caratterizzata dalla interposizione di un tessuto cartilagineo fibroso (sono la maggioranza delle articolazioni). Quelle per contiguità invece, prendono il nome di diartrosi, o giunture sinoviali, e sono formate da due capi articolari, una capsula articolare ed una cavità articolare. I capi articolari sono rivestiti da uno strato di cartilagine (più frequentemente ialina che fibrosa), di spessore variabile da 0,2 a 0,5 mm, che conferisce quella caratteristica d superficie liscia. La capsula articolare, lassa oppure tesa, è strutturata all’interno con due strati di membrana sinoviale e all’esterno con una membrana fibrosa. Nella membrana sinoviale prendono posto anche strutture nervose e vasi sanguigni. La cavità articolare infine, è uno spazio a forma di fessura contenente il liquido sinoviale che, oltre ad avere la capacità di lubrificare l’articolazione, nutre la cartilagine articolare.
Le articolazioni si compongono inoltre di: legamenti (di rinforzo, conduzione ed arresto), borse e guaine articolari, dischi e menischi articolari, labbra articolari.
Le articolazioni sono soggette ad usura a causa della degenerazione cartilaginea che si verifica per una non appropriata non capillarizzazione che, nel tempo, favorisce la perdita di plasticità propria della cartilagini, producendo patologie artrosiche degenerative.
Come sottolineato da Collins M. e Raeligh S., gli sforzi eccessivi che portano a lesioni dei tessuti molli del sistema muscolo-scheletrico, derivanti da lavori usuranti o attività fisica, sono influenzate dalla genetica individuale. In special modo quelle al tendine d’Achille (caviglia), alla cuffia dei rotatori (spalla) ed ai legamenti crociati (ginocchia). Le varianti di sequenza all’interno dei geni che codificano le diverse proteine di matrice extracellulare dei tendini e/o dei legamenti sono state associate a specifici infortuni di specifiche zone dei tessuti. Per esempio le varianti della sequenza del gene della Tenascina-C (TNC), COL5A1 ed Metalloproteinasi di matrice 3 (MMP3) sono state collegate alle tendinopatie del tendine d’Achille. Entrando un po’ più nel dettaglio, le varianti della sequenza del gene della Tenascina-C sono state associate sia alle tendinopatie che alle rotture del tendine d’Achille. mentre le varianti del COL5A1 e COL1A1, geni che forniscono le istruzioni genetiche per realizzare le componenti del collagene di tipo I e V, sono state correlate ad infortuni al legamento crociato posteriore.
Tuttavia, gli stessi ricercatori specificano che è difficile capire in che misura questi fattori genetici possano influenzare gli infortuni, aggiungendo che in futuro potranno essere fatti dei programmi riabilitativi personalizzati proprio sulla base di queste informazioni legate ai geni [1].
Una meta-analisi del 2015, quindi alto impatto statistico, ha raccolto i dati provenienti da studi pubblicati in letteratura scientifica fra il 1984 ed il 2014 (trent’anni precisi). I ricercatori – Longo U. G. et al. – hanno confermato tutto ciò che avevano dedotto Collins e Raeligh nel 2009, aggiungendo che, oltre alla genetica, contano ovviamente diversi altri fattori, in primis lo stile di vita [2].
Più di un decennio fa, September A. V. e coll. in una review avevano parlato del ruolo della genetica negli infortuni. Dicendo però che mentre per le problematiche al crociato posteriore e al tendine d’Achille vi sono delle sequenze genomiche “incriminate”, per il crociato anteriore e la cuffia dei rotatori no. Per queste ultime due sono necessari più studi e più dati [3,4].
Conclusioni
Come già accennato, molte cose devono ancora essere scoperte, al giorno d’oggi sappiamo che la salute di alcuni tendini e legamenti è fortemente influenzata dalla genetica, quindi dai caratteri ereditari non modificabili. Sta alla scienza scoprire quali altri lo sono e come può essere individualizzato un programma di allenamento e di riabilitazione, in modo minimizzare il rischio infortuni e recuperare l’efficienza articolare al meglio possibile.
Ma accantonando un attimo tutte queste nozioni teoriche, essere attivi fisicamente è il miglior modo per preservare una buona salute articolare, in modo da prevenire l’osteoporosi ed evitare posture errate. Per quanto riguarda invece gli sportivi, un buon riscaldamento e una corretta esecuzione tecnica degli esercizi (con i sovraccarichi ed a corpo libero) rimangono le cose migliori da fare per evitare infortuni, le uniche, visto che di integratori con una reale efficacia non ce ne sono (la glucosamina non fa eccezione).
Weineck J. – Biologia dello sport (Calzetti Mariucci, 2013) Pruna R. et al. – Influence of Genetics on Sports Injuries (2017) September A. V. et al. – Application of genomics in the prevention, treatment and management of Achilles tendinopathy and anterior cruciate ligament ruptures (2012) 1 Collins M. et al. – Genetic risk factors for musculoskeletal soft tissue injuries (2009) 2 Longo U. G. et al. – Unravelling the genetic susceptibility to develop ligament and tendon injuries (2015) 3 September A. V. et al. – Tendon and ligament injuries: the genetic component (2007) 4 Orth T. et al. – Current concepts on the genetic factors in rotator cuff pathology and future implication for sports physical therapists (2017)
Vi siete mai chiesti quali sono i processi che stanno dietro alla selezione delle fonti quando dobbiamo informarci su un determinato argomento? Come mai noi tendiamo a propendere per un articolo piuttosto che un altro? In che modo possono influenzarci i pregiudizi?
Se la risposta è negativa, questo è l’articolo che fa per voi!
A differenza di quel che si potrebbe pensare in un primo momento, l’argomento di questo articolo è perfettamente attinente all’ambiente del benessere e dello sport, anzi, lo è a tutti gli aspetti dell’esistenza umana.
Definizione
I bias cognitivi sono costrutti basati su percezioni errate della realtà e/o pregiudizi che di frequente possono portare le persone a fare affermazioni e pensieri errati su i più svariati argomenti. Invece, le fallacie logiche (o sofismi) sono errori nascosti nel ragionamento che comportano la violazione delle regole di un confronto argomentativo corretto.
E’ tutt’altro che raro – soprattutto su internet – quando i commenti sono espressi in maniera civile, vedere utenti consapevoli di essere di parte o pieni di pregiudizi circa un determinato tema, principiare una discussione con frasi del tipo: «Premetto che riguardo all’argomento x ho i miei bias, …».
Quanti tipi di bias esistono?
Esistono svariate decine di bias cognitivi. Qui di seguito ne elencheremo i principali:
bias di conferma: qualunque nuova informazione conferma le nostre convinzioni precedenti, confutando quelle opposte. Questo è in assoluto uno dei pregiudizi più comuni, è infatti fortemente legato alle posizioni religiose e politiche: «Nel valutare notizie e idee, la nostra mente è più attenta a riconoscersi in un gruppo di appartenenza, che rafforza la nostra identità, che non a valutare l’accuratezza delle informazioni» [1]. Inoltre, il bias di conferma va a nozze con le cosiddette bugie blu, restando in tema politico: «I bambini iniziano a dire bugie egoistiche verso i tre anni, quando scoprono che gli adulti non possono leggere i loro pensieri: non ho rubato quel giocattolo, papà ha detto che potevo, mi ha picchiato lui per primo. A circa sette anni iniziano a dire “bugie bianche” motivate da sentimenti di empatia e compassione: che bello il tuo disegno, i calzini sono un bel regalo di Natale, sei divertente. Le “bugie blu” appartengono a una categoria del tutto diversa: sono allo stesso tempo egoiste e vantaggiose per gli altri, ma solo se appartengono al proprio gruppo. Come spiega Kang Lee, psicologo all’Università di Toronto, queste bugie cadono a metà fra quelle “bianche” dette per altruismo e quelle “nere” di tipo egoista. “Si può dire una bugia blu contro un altro gruppo”, dice Lee, e questo rende chi la dice allo stesso tempo altruista ed egoista. “Per esempio, si può mentire su una scorrettezza commessa dalla squadra in cui giochi, che è una cosa antisociale, ma aiuta la tua squadra.” In uno studio del 2008 su bambini di 7, 9 e 11 anni – il primo del suo genere – Lee e colleghi hanno scoperto che i bambini diventano più propensi a raccontare e approvare le bugie blu via via che crescono. Per esempio, potendo mentire a un intervistatore sulle scorrettezze avvenuta durante la fase di selezione delle squadre in un torneo scolastico di scacchi, molti erano abbastanza disposti a farlo, e i ragazzi grandi più di quelli più giovani. I bambini che mentivano non avevano nulla da guadagnare personalmente; lo stavano facendo per la loro scuola. Questa ricerca suggerisce che le bugie nere isolano le persone, le bugie bianche le uniscono, e le bugie blu coalizzano alcune persone e ne allontanano altre. […] Questa ricerca – e queste storie – evidenziano una dura verità sulla nostra specie: siamo creature intensamente sociali, ma siamo inclini a dividerci in gruppi competitivi, in gran parte per il controllo della distribuzione delle risorse. […] “La gente perdona le bugie contro le nazioni nemiche, e dato che oggi in America molte persone vedono quelli dall’altra parte politica come nemici, possono ritenere – quando le riconoscono – che siano strumenti di guerra appropriati”, dice George Edwards, politologo alla Texas A & M e uno dei più importanti studiosi nazionali della presidenza» [2]. Per concludere, questo meccanismo psicologico è direttamente collegato al concetto della post-verità (post–truth), cioè alla non importanza della veridicità di una notizia. Vera o falsa che sia, l’unico fine di quest’ultima è quello di rafforzare i pregiudizi delle persone, è anche per questo motivo che il Debunking (sbufalamento) spesso e volentieri risulta essere inefficace [3]. Circa quest’ultimo punto, un dato teoricamente dovrebbe correggere una nostra errata convinzione, in realtà – paradossalmente – rischia di radicalizzare ulteriormente la stessa (backfire effect). Contestando un’affermazione vi è la possibilità che questa si pianti ancor più a fondo nel cervello (transparency of denial).
Bias di gruppo: bias che ci porta a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo di appartenenza, attribuendo perentoriamente alla sfortuna gli eventi negativi e al talento quelli positivi (basti pensare alle vittorie e sconfitte nello sport).
Bias d’autorità: detto ache principio d’autorità, porta le persone a credere per filo e per segno a tutto ciò che asserisce chi è in possesso di una laurea od un ottimo curriculum, anche se magari questo fantomatico esperto esce dalla sua sfera di competenze. Per la scienza i dati e gli studi contano più delle opinioni dei singoli individui, laureati o meno che siano. Ne aveva parlato bene il chimico e ricercatore Dario Bressanini nel suo articolo: Il potere mediatico del camice bianco.
Bias della negatività: tendenza a focalizzarsi principalmente sugli avvenimenti negativi, ignorando – almeno parzialmente – quelli positivi. Ciò può portare a sminuire se stessi e ad essere stressati.
Bias dell’ottimismo: l’optimis bias è molto più diffuso di quel che si potrebbe pensare e consiste nel vedere il proprio futuro in maniera molto più rosea di ciò che ci suggerirebbe la razionalità. Questo è una specie di trucco che mette in atto la nostra mente per ricercare serenità in periodi difficili.
Bias di ancoraggio: la prima informazione recepita diventa il capo saldo, l’ancora, del ragionamento successivo. Su di esso fanno leva tutte le persone che vogliono vendere qualcosa: si parte da un prezzo X e dopo si propongono prezzi un po’ più bassi che al confronto del prezzo iniziale (X) sembrano veramente convenienti.
Effetto carovana: rappresenta la tendenza a credere in qualcosa solo perché molte altre persone ci credono (i fedeli di Jim Jones ne sapevano qualcosa…).
Media bias: questo bias colpisce diversi giornalisti e fabbricatori di notizie. Riguarda la selezione delle notizie, delle storie ed il modo in cui esse vengono riportate.
Bias dello status quo: il cambiamento spaventa? Allora si tenta, anche inconsciamente, di prendere le decisioni più facili, quelle che lasciano le cose così come stanno.
Bias del presente: questo bias ci fa prendere delle decisioni che hanno il fine di gratificarci sul momento, in acuto, non valutando la bontà delle nostre scelte sul lungo periodo. Ciò si riflette soprattutto sui nostri acquisti e sul cibo che mangiamo (ruolo edonistico dell’alimentazione).
Bias d’azione: le persone sono portate ad agire anche quando intervenire porta a più svantaggi che altro.
Bias di omissione: al contrario di prima, le persone non agiscono anche se sarebbe logico farlo, probabilmente perché timorose di eseguire una azione (errata) e successivamente rimpiangerla. Venne osservato ciò durante le vaccinazioni che avevano lo scopo di contrastare un’epidemia (maggiori approfondimenti qui).
Bias di proiezione: percezione distolta della realtà. Riteniamo di pensare e vedere le cose sempre nella maniera giusta e ci sembra che anche le altre persone la pensino come noi (falso consenso).
Bias conservativo: ogni novità viene vista con grande sospetto e sottovalutata rispetto alle precedenti convinzioni.
Illusione della trasparenza: illusione di conoscere e percepire con estrema precisione lo stato mentale ed i pensieri di un’altra persona.
Effetto alone: la percezione di alcuni tratti è fortemente influenzata da altre caratteristiche dell’individuo che non hanno niente a che fare con i primi. Ne è un esempio il fatto che alcune persone tendano a considerare come intelligente un uomo solo perché elegante e di bell’aspetto.
Effetto alone inverso: il contrario di prima. Se un individuo od un oggetto ha una caratteristica negativa, allora anche gli altri tratti vengono percepiti come tali.
Ottimismo retrospettivo: visione distorta del passato, che ci porta a considerare e vedere in modo diverso (e migliore) gli avvenimenti che lo riguardano. Questo bias cognitivo è simile alla nostalgia, tuttavia quest’ultima non implica necessariamente una visione falsata. Ergo, si può essere nostalgici senza sopravvalutare a tutti i costi il passato. L’ottimismo retrospettivo è fortemente legato al declinismo, cioè quel bias che ci porta a pensare che tutto vada peggio rispetto ad una volta, anche quando oggettivamente non è così (Eh, ai miei tempi…).
Effetto novità: le nuove informazioni, specialmente se bizzarre e divertenti, vengono memorizzate meglio avendo una priorità nei meccanismo cognitivi della mente umana. Al contrario, le informazioni meno insolite – più “normali” – non vengono viste come prioritarie.
Bias dello scommettitore: errata percezione delle probabilità matematiche. Se alla tombola sono stati estratti di seguito quattro numeri pari, il quinto, seguendo questa (errata) logica, sarà molto probabilmente un numero dispari. Nulla di più sbagliato, le probabilità sono sempre 50 e 50.
Bias dell’angolo cieco: si manifesta nel momento in cui si ha la sensazione che le persone che ci stanno intorno vengano condizionate dai bias molto di più rispetto a noi.
La cosa peggiore è che noi il più delle volte siamo corrotti da bias e prendiamo decisioni sbagliate senza nemmeno rendercene conto…
Fallacie logiche
Argumentum ad hominem: durante una discussione vengono messe da parte le argomentazioni ed i contenuti per concentrarsi su degli attacchi alla persona.
Cherry Picking: il cherry picking è una tattica argomentativa, talvolta involontaria, che consiste nel rafforzare una tesi con l’ausilio di argomentazioni o prove ad essa favorevoli, escludendo a priori tutte quelle sfavorevoli, che pertanto la confuterebbero.
Argumentum ad ignorantiam: “l’assenza di evidenza non è essa stessa un’evidenza“, ma non lo sa chi cade, o ricorre, a questa fallacia logica. Se ad esempio non può essere provata la non esistenza di qualcosa (fantasmi, mostri vari, extraterrestri) ciò non sta a significare che quel qualcosa esista per forza.
Fallacia della brutta china: partendo da una determinata tesi si ipotizza l’accadere di una sequenza di conseguenze (spesso gravi). Il più delle volte queste conseguenze vengono viste come pressoché inevitabili. Ad esempio, se si parte a bere una birra, di lì a poco si diventa alcolizzati. E se si prova uno spinello, sicuramente si passerà poi all’eroina.
Petitio principii: fallacia logica in cui si incappa quando la conclusione di un ragionamento conferma la premessa iniziale dello stesso. “Stephen King è un grande scrittore? Allora il suo ultimo romanzo è un gran bel libro!“.
Post hoc ergo propter hoc: tradotto letteralmente come “dopo di questo, quindi a causa di questo“, consiste nel ricondurre (con causalità) un avvenimento a ciò che è avvenuto subito prima. “Abbiamo pregato per ore ed il Signor Rossi si è risvegliato dal coma? Allora il Signor Rossi è stato salvato dalle nostre preghiere!” ma ovviamente un eventuale nesso temporale non sta necessariamente ad indicare un rapporto causa-effetto (anzi, spesso non è così).
Altre considerazioni
Non sempre è facile accorgersi degli errori insiti nelle proprie logiche argomentative e rivedere le proprie posizioni. Pensiamo ad esempio alla politica: quanto è piacevole discutere con persone del nostro medesimo orientamento politico – che quindi confermano le nostre posizioni di pensiero – e quanto è sgradevole, alle volte perfino irritante, farlo con chi ha idee molto diverse dalle nostre, magari diametralmente opposte o moralmente inaccettabili?
Quando affrontiamo seriamente un dibattito, guardiamo un documentario, leggiamo un libro o ragioniamo su un film appena visto al cinema, il nostro cervello subisce delle modificazioni strutturali. Parliamo ovviamente di cambiamenti minimi, quasi impercettibili, visibili unicamente col microscopio elettronico a scansione. Tutto ciò è garantito dalla plasticità del nostro cervello.
Nessuno è immune ai bias, ci mancherebbe altro. Ma la stessa ricerca scientifica è “livellata” per far sì che certi tipi di studi (i più attendibili) siano, per quanto possibile, esenti dai bias dei pazienti e degli stessi ricercatori.
Per esempio, i trial clinici (studi sperimentali) per contrastare pregiudizi e convinzioni personali di pazienti e ricercatori possono essere di 3-4 differenti tipologie:
Randomizzati: i soggetti sono stati inseriti in maniera del tutto casuale all’interno di uno dei gruppi di studio (gruppo che riceve il trattamento o gruppo placebo).
Cieco: i soggetti dell’esperimento non sanno quale trattamento ricevano.
Doppio cieco: nemmeno i ricercatori sanno qual è il trattamento somministrato a ciascuno dei soggetti dell’esperimento.
Triplo cieco: se oltre ai ricercatori e ai pazienti vi sono degli esaminatori esterni, anche questi non sono a conoscenza della natura della somministrazione del trattamento (placebo oppure no) a cui vanno incontro i pazienti.
Senza questi “trucchi”, la ricerca scientifica non progredirebbe da secoli.
Qui un video di Dario Bressanini molto interessante inerente la “Sindrome da Premio Nobel”, che riprende un po’ il discorso sul principio d’autorità di cui abbiamo trattato prima.
Bias, fallacie e modi di pensare, come già detto, il più delle volte sfuggono al nostro controllo ed alla nostra volontà. Difficilmente riconoscibili per i diretti interessati, è come se rientrassero nell’imponderabile. Sappiamo che ci sono e ci possiamo fare poco, indipendentemente di nostri sforzi.
Dato che tutto ciò è connaturato alla mente umana, non vi è una soluzione, un antidoto, un vaccino. Pesare le proprie parole, mettersi in discussione, non sentirsi sempre e comunque superiori alle altre persone è forse un buon modo per limitare l’influenza dei bias nella quotidianità ma il raggiungimento di una sorta di immunità è impossibile. In fondo, anche la sensazione di essere inscalfibili dai bias è data da un pregiudizio bello e buono (bias dell’angolo cieco).
Quello di cui andremo a parlare oggi riguarda uno studio che ha preso in esame tre tipi di trazioni, analizzando le differenze nell’attivazione muscolare (misurate tramite elettromiografie, EMG) [1].
Avevamo giù trattato l’argomento in un episodio del nostro Podcast, prendendo spunto da un post di Alessio Ferlito. Ma ora veniamo a noi… (altro…)
Che cos’è l’intelligenza? E quella di tipo motorio? Cosa c’entra la psicologia?
Nel seguente articolo cercheremo di fornire delle risposte a queste domande.
Intelligenza e predizione
Sin dall’alba dei tempi filosofi, psicologi, sociologi, medici e altri studiosi di vario tipo si sono arrovellati il cervello nel tentativo di comprendere al meglio e definire l’intelligenza umana. Il giornalista scientifico Marco Magrini, nel bellissimo testo Cervello. Manuale dell’utente, parla dell’intelligenza nel seguente modo:
«Nel suo libro On intelligence, Hawkins definisce l’intelligenza come «la capacità del cervello di predire il futuro attraverso analogie con il passato». Il che potrebbe essere addirittura un po’ riduttivo. “Nuovi studi scientifici – scrive Lisa Feldman Barrett, una psicologa della Northeastern University – suggeriscono che pensieri, emozioni, percezioni, ricordi, decisioni, categorizzazioni, immaginazioni, e molti altri fenomeni mentali storicamente considerati come processi cerebrali distinti, possono essere riuniti sotto un singolo meccanismo: la predizione”».
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«In poche parole, il cervello predice costantemente le proprie percezioni. È un po’ come se guardasse sempre nel futuro, più o meno prossimo».
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«Si potrebbe dire che il cervello ha questa ossessione per il futuro perché è l’unico modo che ha per gestire gli imprevisti e le incertezze della vita, e che quindi è evolutivamente motivata. La mostruosa mole di informazioni, interne ed esterne, che il suo encefalo calcola ogni secondo è spesso poco chiara ed ambigua, così lui ripara cercando immaginare cosa accadrà. Per l’esattezza, deve fare un’enorme sequenza di inferenze (dal latino inferre, “portare dentro”), al fine di predire l’immediato futuro».
Restando in tema, quando noi camminiamo il cervello predice a ogni passo quando il piede raggiungerà il suolo. Privati di questo meccanismo di predizione, probabilmente non saremmo neanche in grado di camminare per pochi metri senza cadere, in special modo se la superficie a cui il nostro piede va in contro è irregolare.
Tipi di intelligenza per la psicologia
Come molti sapranno, negli anni numerosi psicologi hanno tratto il tema dell’intelligenza, provando a definirla e classificarla in varie tipologie. Una delle classificazioni più note è indubbiamente quella fatta dallo psicologo statunitense Howard Gardner, il quale distingue ben 9 tipi di intelligenza*: intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, musicale, interpersonale, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale.
*inizialmente sette, altri due vennero aggiunti negli anni novanta.
Per questo motivo è troppo semplicistico, nonché arrogante, giudicare le persone dividendole in due macrocategorie, intelligenti o stupide. L’essere umano è qualcosa di assai più complesso e sfumato. Al riguardo Einstein diceva: «Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido».
Tonando a noi, l’intelligenza che ci interessa di più trattare in questo articolo, come da titolo, è ovviamente quella corporeo-cinestetica, talvolta volgarmente definita “motoria”. Coinvolge alcune aree del cervello ben specifiche (cervelletto, talamo e gangli fondamentali). I soggetti in cui questa intelligenza è più sviluppata, presentano un’efficienza motoria ed una padronanza dei movimenti corporei molto superiore alla media. Essa riguarda non solo gli sportivi ma anche chi si occupa di lavori manuali che richiedono una certa precisione (abilità fino motorie). La sua valenza è inoltre allargata agli usi espressivi del corpo, come quelli adottati dagli attori.
Tanto per fare un esempio più pratico, gli atleti con skills motorie di un certo livello apprendono movimenti e gesti tecnici a loro nuovi quasi sempre con un’elevata rapidità. Ne parlava bene un paio d’anni fa Donato Formicola, docente universitario, ricercatore e coach di weightlifting per la Federazione Italiana Pesistica (FIPE). Egli aveva raccontato di come fosse stato semplice insegnare due alzate olimpiche complesse come lo stappo (snatch) e lo slancio (clean and jerk) a degli sciatori agonisti che prima di allora non avevano visto quelle alzate con bilanciere.
Del resto, anche durante la quotidiana pratica sportiva, a tutti può capitare di osservare alcuni principianti apprende nuovi gesti tecnici con un’incredibile agevolezza ed altri ancora, imparare i medesimi in più tempo, palesando una maggior difficoltà.
Inoltre, per concludere, come peraltro è ben noto in letteratura scientifica, lo sviluppo dell’intelligenza è fortemente condizionato, oltre che dall’ambiente in cui cresciamo (che in qualche modo ci plasma), anche da fattori genetici [1,2]. I quali determinano perfino la struttura cerebrale [3].
Ulteriori approfondimenti li potete trovare nelle referenze al fondo dell’articolo.
E’ capitato a qualunque sportivo di parlare o sentir parlare almeno una volta di acido lattico e magari anche di lattato. Spesso confusi, questi due non sono in realtà la stessa cosa e adesso vedremo brevemente il perché.
Durante sforzi muscolari di una certa intensità, superata un certa quantità di tempo (mediamente 9-12 secondi), nei muscoli interessati inizia ad accumularsi più acido lattico del dovuto: l’organismo non è più in grado di smaltirlo come dovrebbe.
Quando l’acido lattico, dal muscolo viene spostato nel torrente ematico, prende il nome di lattato, dato che la sua struttura chimica viene modificata (perde uno ione H+).
Dopo sforzi fisici ripetuti, grafico qui sotto, è possibile effettuare dei prelievi di sangue dalla punta delle dita o dalle vene delle braccia per scoprire qual è la soglia del lattato.
Relazione tra intensità di esercizio (vel. di corsa) e accumulo di lattato. I campioni di sangue sono stati prelevati dopo che il corridore aveva corso per 5 minuti a ciuscuna delle velocità riportare sull’asse delle ascisse (LT = soglia del lattato).
Mettendo su grafico i risultati, chiameremo soglia del lattato il punto oltre il quale l’accumulo di lattato ematico schizza alle stelle, superando di gran lunga i livelli tenuti a riposo. La LT, nelle persone sedentarie, corrisponde a circa il 55-60% del VO2max, negli atleti agonisti praticanti sport di resistenza anche 70-80%.
Fino a un po’ di anni fa la soglia del lattato era, a detta di molti, corrispondente a 4 mmoli/L ma questa cifra, rimessa in discussione negli ultimi anni, in reltà altro non è che una media ottenuta da vecchie indagini effettuate su larga scala. Possono esserci soggetti con una LT di 3 come di 5 o 6 mmoli litro di lattato ematico.
Quindi ricordate bene, il lattato e l’acido lattico NON sono la stessa cosa!