Quali adattamenti fisiologici possono portare differenti tempi di recupero fra una serie e l’altra durante l’allenamento in palestra? Sono correlati in qualche modo all’aumento della massa muscolare? Scopriamolo insieme!
Per trattare questo argomento, prenderemo in esame una nota review sistematica di Schoenfeld B. J. e colleghi pubblicata sull’European Journal of Sport Science [1].
Sicuramente vi sarà capitato almeno una volta di provare dolore ai muscoli dopo qualche sforzo fisico. Bene, quel dolore non è altro che del DOMS, ovvero: indolenzimento muscolare a insorgenza ritardata. Scopriamo insieme di cosa si tratta!
Cenni di fisiologia
In passato si ipotizzava che i DOMS (delayed onset muscle soreness) derivassero dall’accumulo di acido lattico, negli anni a venire è però stato dimostrato che l’acido lattico e gli scarti metabolici non c’entravano, almeno non sui dolori ad insorgenza ritardata. Si tratta infatti, secondo le teorie più accreditate, di micro-lacerazioni a livello muscolare derivanti soprattutto da contrazioni eccentriche [1,2,3].
Certi studiosi suggeriscono che alcuni radicali liberi (ROS) possano concorrere nella formazione dei DOMS [4], altri che interferiscano fattori metabolici e neurologici [5,6]. Ma date le scarse prove, quella del danno muscolare rimane comunque la teoria più attendibile.
L’indolenzimento muscolare a insorgenza ritardata fa perdere forza alla contrazione muscolare. Secondo Warren e colleghi [7] questo è imputabile a tre macro-fattori: il danno al tessuto muscolare, una disfunzione nell’ambito del processo di accoppiamento eccitazione-contrazione ed una perdita delle proteine contrattili (il tutto è illustrato nella figura a sinistra).
Post allenamento
I DOMS insorgono a 8-12h dal termine dell’allenamento
Si acutizzano a 24-48h dal termine dell’allenamento
Diminuiscono a 48-72h dal termine dell’allenamento
Scompaiono a 72-120 ore dal termine dell’allenamento
Le cifre riportate sopra, ovviamente, sono molto indicative.
Se i DOMS sono particolarmente lievi, non è necessario rimandare gli allenamenti, un buon riscaldamento può far cessare l’indolenzimento.
Risposta tardiva all’esercizio fisico di diversi indici fisiologici (la densità di colore della barra corrisponde all’intensità della risposta nel tempo indicato) [8]
Tecniche per ridurli
Alcuni modi per ridurre i DOMS sono i seguenti:
Iniziare un nuovo programma/scheda di allenamento con un’intensità moderata, alzandola piano piano nel corso delle settimane
Eseguire immersioni in acqua fredda (temperatura di 8-15° C per 11-15 minuti di bagno). Maggiori informazioni le trovate in questo articolo.
Assunzione di una buona quota giornaliera di proteine
Prendere della caffeina tramite caffè o compresse. Si è vista infatti una correlazione fra il calo del dolore muscolare e l’assunzione di questa sostanza eccitante [9].
Caffeina e riduzione dei DOMS (Hurley C. F. et al., 2013)
Conclusioni
L’indolenzimento muscolare, acuto e ad insorgenza ritardata, è un evento assolutamente fisiologico. Tenere “a bada” i DOMS non è di fondamentale importanza per chi si allena in palestra, magari con schede full-body, 2-3 volte a settimana o per chi pratica sport a livello dilettantistico con una frequenza moderata. Tuttavia, per gli sportivi professionisti, o per gli agonisti che puntano a competere ad alti livelli, tenere a bada i DOMS è spesso di aiuto per limitare i dolori e non sfociare nell’overtraining.
Wilmore H. J., Costill L. D. – Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport (Calzetti Mariucci, 2005) 1 Stone M. H. et al. – A hypothetical model for strength training (1981) 2 Schwane J. A. et al. – Delayed-onset muscular soreness and plasma CPK and LDH activities after downhill running (1983) 3 Schwane J. A. et al. – Is Lactic Acid Related to Delayed-Onset Muscle Soreness? (1983) 4 Close G. L. et al. – Eccentric exercise, isokinetic muscle torque and delayed onset muscle soreness: the role of reactive oxygen species (2004) 5 Malm C. et al. – Leukocytes, cytokines, growth factors and hormones in human skeletal muscle and blood after uphill or downhill running (2004) 6 Ayles S. et al. – Vibration-induced afferent activity augments delayed onset muscle allodynia (2011) 7 Warren G. L. et al. – Excitation-contraction uncoupling: major role in contraction-induced muscle injury (2001) 8 Evans W. J. et al. – The metabolic effects of exercise-induced muscle damage (1991) 9 Hurley C. F. et al. – The effect of caffeine ingestion on delayed onset muscle soreness (2013)
Il curl eseguito alla panca Scott è un must dell’allenamento delle braccia. Ma siamo davvero sicuri che sia così efficace? Il titolo provocatorio dell’articolo suggerisce di no. Ora, partendo dalla biomeccanica e fisiologia muscolare, cercheremo di scoprire i pro ed i contro di questo esercizio. Buona lettura!
Descrizione e cenni biomeccanica
In breve, l’esecuzione è la seguente: partendo da seduti si impugna il bilanciere, portandolo a pochi centimetri dal viso tramite la flessione del gomito, fin dove l’escursione articolare lo permette. Una volta terminata la fase concentrica, si lascia scendere il bilanciere fino a distendere quasi completamente gli arti superiori. La presa è supina, quindi con i palmi rivolti verso l’alto, garantita dall’articolazione del gomito, la quale appunto permette anche i movimenti di flessione ed estensione dell’avambraccio sul braccio (fisiologia articolare).
Nelle palestre si vede eseguire questo esercizio quasi sempre con il bilanciere ma può essere anche svolto con dei manubri.
“Difetti” dell’esercizio
Teoricamente il curl su panca Scott dovrebbe coinvolgere maggiormente il capo breve del bicipite brachiale, ma in realtà i test scientifici non hanno mai rilevato grosse differenze nella sua attivazione nei tre principali tipi di curl: in piedi (DBC), da seduti su panca inclinata (IDC) e Scott (DPC) [1].
Va comunque ricordato che l’attività muscolare, misurabile tramite le elettromiografie, non è un parametro troppo attendibile per quanto riguarda l’ipertrofia muscolare (approfondimenti qui).
Infatti, seguendo il diagramma tensione-lunghezza del tessuto muscolare, se un sollevamento inizia quando il muscolo target è in massimo allungamento, il muscolo non può esercitare alti livelli di forza. Stessa cosa se il muscolo, prima che inizi il sollevamento, è già molto accorciato. Infatti, anche in questa situazione la forza espressa non è molta. Per di più, in quest’ultimo caso il ROM (range of motion) è anche scarso. Il primo caso è quello del curl su panca Scott, il secondo riguarda invece il curl su panca inclinata.
Invece, il classico curl in piedi è un po’ una via di mezzo fra le due modalità di esecuzione. Il muscolo infatti non parte né troppo allungato, né troppo accorciato.
Dato il range di movimento veramente scarso, il curl Scott è sembrerebbe essere quello meno ottimale per la crescita muscolare. E c’è anche da considerare il fatto che le ripetizioni parziali in massimo accorciamento, rispetto a quelle in massimo allungamento, non siano l’ideale per l’ipertrofia (minor rilascio di IGF-1, ridotto stimolo meccanico e metabolico) [2]. In aggiunta, quando l’avambraccio è perpendicolare, o quasi, al suolo (fine della fase concentrica), la tensione esercitata sul bicipite brachiale è molto bassa, vicino allo zero. E’ importante sottolineare ciò perché la tensione continua ed il TUT sono dei fattori fondamentali dello sviluppo ipertrofico.
Come fatto notare dal Dott. Andrea Roncari (qui), un altro studio presente in letteratura scientifica [3] ha evidenziato che una flessione della spalla di circa 90°, cioè quella imposta da alcuni modelli di panca Scott, non sia ottimale per l’attivazione del bicipite brachiale, meglio una flessione meno ampia (75°). L’angolo di flessione è il rapporto fra l’arto superiore completamente disteso ed il busto. Ad esempio, quello nella figura a sinistra è un angolo di soli 50°, la maggior parte dei modelli di panca Scott presenti nelle palestre hanno una struttura che impone degli angoli di flessione maggiori.
Conclusioni
Ovviamente il curl Scott, come del resto ogni altro esercizio, può trovare il suo posto all’interno di una sensata programmazione dell’allenamento. Già solo il variare lo stimolo allenante è uno dei principi base dell’ipertrofia muscolare (alternare gli esercizi, tecniche di intensità nuove, tempo sotto tensione ecc.). Pertanto occasionalmente può essere inserito in delle schede di allenamento, magari abbinato ad esercizi a ROM più ampio. Sui neofiti, soggetti alle prime armi carenti un po’ in tutti i distretti muscolari, sarebbe saggio evitare – o comunque limitare il più possibile – esercizi come questo. Meglio incrementare la massa muscolare in toto e solo successivamente andare a lavorare sui dettali.
Kapandji – Fisiologia articolare (1999) 1 Oliveira L. F. et al. – Effect of the shoulder position on the biceps brachii emg in different dumbbell curls (2009) 2 McMahon G et al. – Muscular adaptations and insulin-like growth factor-1 responses to resistance training are stretch-mediated (2014) 3 Moon J. et al. – The Effect of Shoulder Flexion Angles on the Recruitment of Upper-extremity Muscles during Isometric Contraction (2013)
Come da titolo, in questo articolo parleremo del ritmo scapolo-omerale. Un meccanismo forse sconosciuto ai più ma che riveste una certa importanza, anche in ambito pratico, se si sollevano pesi o si compiono sforzi con gli arti superiori. Buona lettura!
Cenni di fisiologia articolare
La spalla è l’articolazione più mobile del corpo umano. Permette movimenti sui tre assi principali (asse trasversale, antero-posteriore, verticale).
Asse trasversale (piano frontale): permette movimenti di flesso-estensione sul piano eseguiti in un piano sagittale (fig. 1.a)
Asse antero-posteriore: è contenuto nel piano sagittale. Permette movimenti di abduzione degli arti superiori (l’arto superiore si allontana dal piano si simmetria del corpo) e di adduzione (l’arto superiore si avvicina al piano si simmetria del corpo) eseguiti in un piano frontale (fig. 2.b)
Asse verticale: determinato dell’inserzione del piano sagittale con quello frontale. Permette movimenti di flessione ed estensione eseguiti sul piano orizzontale, tenendo il braccio in abduzione a 90° gradi.
Figura n.1
Figura n.2
Altri movimenti della spalla e del braccio sono illustrati nella foto sotto
Ma ora veniamo a noi, il ritmo scapolo-omerale non è altro che il movimento contemporaneo di scapola ed omero. Durante l’elevazione della spalla, a seconda del grado di abduzione della scapola e dell’omero, lavoreranno più alcuni muscoli rispetto ad altri. Tutto ciò, ovviamente, è applicabile nello sport come in palestra. Alcuni gesti/esercizi interesseranno determinati distretti muscolari ed altri no.
Movimento combinato di scapola ed omero durante una abduzione
Uno degli studi più quotati in fisiologia articolare [1] evidenzia come nei primi 80° di abduzione degli arti superiori, quindi con le braccia quasi parallele al suolo, il ritmo scapolo-omerale si concentri sull’omero, dando maggior lavoro al deltoide (rapporto scapola-omero di circa 1:3)*. Invece, dagli 80° ai 140°, inizia a “lavorare” di più la scapola, pertanto c’è una maggior attivazione degli elevatori scapolari (trapezio superiore), con un rapporto scapola-omero indicativamente di 1:2. Infine, oltre i 140 gradi aumenta sempre di più l’attivazione degli elevatori della scapola (trapezio superiore, muscolo elevatore della scapole, piccolo romboide e grande romboide), sottraendo così lavoro al deltoide (rapporto 1:1).
*a seconda dei testi possiamo trovare delle cifre un po’ differenti ma comunque sempre vicine al range dei 70-90°.
Ricapitolando…
0-80° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:3
80-140° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:2
140-170° ⟶ rapporto scapola-omero di 1:1
80°
140°
170°
Applicazioni pratiche
Per rendere più concrete tutte queste informazioni, ci basta pensare a quali esercizi prevedono una abduzione delle braccia (figura sopra). Gli esercizi più comuni che includono quel movimento sono le alzate laterali con manubri, le tirate al mento (o al petto) e le distensioni sopra la testa (military press).
Alzate laterali: consistono nell’impugnare un manubrio e, partendo dai fianchi, portarlo all’altezza della base del collo, anche se non è raro vedere della varianti che prevedono un range di movimento più ampio (oppure ridotto). Ragionando su quanto detto prima, possiamo arrivare a concludere che portare le braccia a parallele al suolo come in figura sia effettivamente la scelta più corretta a livello biomeccanico. Andando oltre i 90° di abduzione delle braccia, i deltoidi inizierebbero via via a lavorare meno, quindi se l’intento è quello di allenare i muscoli della spalla e non gli elevatori delle scapole, terminare la fase concentrica dell’alzata una volta raggiunti i 90° di abduzione è una cosa più che sensata.
Tirate al mento/petto: questo esercizio per comodità si esegue quasi sempre con il bilanciere. Si parte con le braccia completamente distese, vicino alla vita, e si compie un piegamento degli arti superiori, portando il bilanciere al petto o in prossimità del mento. La versione dell’esercizio da preferire è quella che prevede la fine del sollevamento all’altezza del petto, perché il grado di abduzione degli arti superiori è sufficiente a garantire una marcata attività del deltoide, limitando l’intra-rotazione dell’omero (figura sotto) e quindi il rischio di impingement (che è statisticamente più alto nei soggetti che eseguono molto di frequente le tirate al mento) [2]. Questa problematica infatti si verifica oltre i 70-90° gradi di abduzione dell’omero [3], per questo motivo è consigliabile fermare l’alzata prima che il bilanciere raggiunga il mento, facendo arrivare i gomiti poco sotto l’altezza delle spalle.
Con omero intra-rotato (fig. sopra), il capo laterale del deltoide tende a prevalere su quello anteriore, l’esatto contrario avviene invece con l’extra-rotazione [4,5,6].
Distensioni sopra la testa (lento avanti): consistono nel sollevamento di un carico sopra la testa (manubri, bilanciere, kettlebell). Da in piedi, o seduti su panca, partendo con il peso all’altezza del mento (gomito parallelo al corpo), si esegue una spinta verso l’alto, gli arti superiori si distendono e poi si piegano per tornare al punto di partenza.
L’omero compie tutto il suo percorso in una abduzione laterale. E’ da evidenziare inoltre l’intervento del tricipite in fase di spinta che ricordiamo essere l’estensore del gomito (ne avevamo già parlato qui). Pertanto, grazie al coinvolgimento di molti muscoli, questo è indubbiamente l’esercizio per le spalle in cui si può esprimere una maggior forza, sollevando più peso. In termini di ipertrofia, questo si traduce in un maggior stimolo meccanico, elemento base della crescita muscolare. E’ proprio per questo motivo che nelle distensioni sopra la testa il peso viene spinto molto in alto, facendo compiere all’omero una abduzione molto ampia, che inevitabilmente coinvolge molto anche gli elevatori della scapola. E’ bene sottolineare che il motore principale di questo gesto rimane sempre e comunque il deltoide, l’intervento di altri muscoli è secondario. Inoltre, se l’esecuzione è corretta questo esercizio ha un bassissimo rischio di impingement od infortunio, a patto che il soggetto che lo esegue sia perfettamente sano.
Benché nell’allenamento conti molto la soggettività, ci sono basi biomeccaniche e fisiologiche comuni a tutti che devono essere rispettate. Non solo per quanto concerne l’ipertrofia ma anche per la salute. Gli esercizi citati nell’articolo possono essere utili per l’incremento della forza e della massa muscolare, basta saperli eseguire correttamente ed alternare gli stimoli allenanti nella maniera più opportuna.
Kapandji I. A. – Fisiologia articolare (1999) Boccia G. – Basi del movimento (Dispense universitarie SUISM, a.a. 2014/2015) 1 Bagg S. D. et al. – A biomechanical analysis of scapular rotation during arm abduction in the scapular plane (1988) 2 Kolber MJ et al. – Characteristics of shoulder impingement in the recreational weight-training population (2014) 3 Schoenfeld BJ et al. – The upright row: implications for preventing subacromial impingement (2011) 4 Botton C. E. et al. – Electromyographical analysis of the deltoid between different strength training exercises (2013) 5 McAllister M. J. et al. – Effect of grip width on electromyographic activity during the upright row (2013) 6 Reinold M. M. et al. – Electromyographic analysis of the supraspinatus and deltoid muscles during 3 common rehabilitation exercises (2007)
Gli assi ed i piani di movimento rappresentano le basi teoriche del movimento umano. Argomenti relativamente semplici che vanno tenuti a mente, soprattutto se si vuole parlare di argomenti nerd come la biomeccanica.
Assi di movimento
Piani di movimento
Piano frontale (o coronale): asse longitudinale e trasversale (anteriore – posteriore).
Piano sagittale: asse sagittale e longitudinale (destra e sinistra).
Piano trasverso (o orizzontale): asse sagittale e trasversale (superiore – inferiore).
Queste nozioni, anche se un po’ noiose da tenere a mente, sono l’abc del movimento umano. Utili specialmente nella descrizione degli esercizi a corpo libero ed anche con i sovraccarichi.
L’asma, malattia più diffusa di quel che si crede, pregiudica l’attività fisica? In che modo? Ci sono delle precauzioni che si possono prendere? Questo, e altro ancora, nelle prossime righe!
Cos’è l’asma, sintomi, cause, trattamento e prevenzione
L’asma è un disturbo infiammatorio cronico dei bronchi che, per farla semplice, consiste in un restringimento delle vie aeree, rendendo difficoltosa la respirazione. E’ importante specificare che l’asma non è contagioso.
I principali sintomi che questa malattia produce sono i seguenti: difficoltà respiratorie (o affanni), tosse, sensazione di pressione all’interno del petto e rumori insoliti durante la respirazione. I sintomi possono essere lievi oppure, all’opposto, portare addirittura alla morte.
Le cause dei sintomi possono essere allergeniche (polline e acari), alimentari, derivanti da infezioni o da effetti indesiderati di farmaci. Ed in particolare, i fattori scatenanti sono il fumo, la polvere, lo stress, il pianto, l’aria fredda e gli sforzi fisici.
L’asma si manifesta con maggior frequenza in due periodi dell’anno:
Inizio autunno (settembre-ottobre): si manifesta un brusco cambiamento della temperatura ambientale e aumentano le infezioni respiratorie;
Primavera inoltrata (maggio): aumenta la quantità di polline l’aria, il 60% degli asmatici sono allergici ad esso;
A livello di prevenzione è consigliabile far stare gli asmatici lontani, per quanto possibile, dai principali fattori di rischio e, in particolari situazioni, assumere farmaci ma solamente su prescrizione medica.
Una crisi asmatica, senza voler addentrarci troppo nel campo medico, va trattata con appositi broncodilatatori spray, i quali rilassano i bronchi e facilitano il passaggio dell’aria.
Come regolarsi con l’attività fisica
Come già accennato in precedenza, l’attività fisica può essere uno degli elementi scatenanti degli attacchi d’asma ma non per questo va eliminata. I soggetti asmatici potrebbero avere dei problemi respiratori nei minuti successivi all’allenamento, per evitarli, o quantomeno minimizzarli, si può ricorrere ad un farmaco ad azione rapida poco prima di iniziare ad allenarsi. E, quando possibile, si potrebbe optare per l’utilizzo di mascherine.
Andando un po’ più nello specifico, durante lo svolgimento di una qualsiasi attività fisica si verifica una iniziale broncodilatazione (assolutamente fisiologica), tuttavia, dopo circa 10 minuti, nei soggetti asmatici avviene una broncocostrizione, la quale poi però va scemando nel giro di 30-90 minuti.
Per non alterare troppo bruscamente il ritmo respiratorio e limitare il fenomeno di broncocostrizione, è importante effettuare un buon riscaldamento, prendersi delle pause di recupero fra gli esercizi più lunghe rispetto ai soggetti non asmatici ed evitare repentini cambi di temperatura ambientale.
Inoltre, è fondamentale l’autoregolazione: non strafare se non si è particolarmente in forma o fermarsi se si iniziano ad accusare problemi respiratori anche blandi (come potrebbe essere una tosse).
Gli sport più pericolosi per quanto riguarda l’insorgenza di crisi d’asma sono: la corsa (medie e lunghe distanze), calcio, rugby, basket ed il ciclismo. Invece, quelli un po’ meno rischiosi sono: nuoto, corsa sulle brevi distane (100-400 metri) tiro con l’arco, yoga, bocce e golf.
A suo modo, anche la WADA (World Anti-Doping Agency) ha contribuito alla causa degli sportivi asmatici, liberalizzando numerosi farmaci broncodilatatori.
Conclusioni
Anche se si è asmatici l’esercizio fisico non va evitato, eliminarlo potrebbe infatti portare ad un maggior numero di svantaggi che vantaggi (basti pensare ad una ipotetica unione di asma, obesità e scarse capacità polmonari). Come in ogni cosa, va usata semplicemente la testa.
Grazie per l’attenzione.
Questo articolo rappresenta della libera informazione e non vuole in alcun modo sostituirsi al parere di un medico. Per qualsiasi tipo di problema, il sottoscritto non si assume nessuna responsabilità.
Benché non occorra essere per forza dei geni in anatomia per allenarsi correttamente, è indubbiamente utile avere nel proprio bagaglio teorico un po’ di nozioni riguardanti almeno i gruppi muscolari più grandi. Buona lettura!
Cenni anatomici sui muscoli pettorali
I muscoli del petto possiamo suddividerli in grande pettorale e piccolo pettorale. L’inserzione del gran pettorale è a livello della cresta e della grande tuberosità dell’omero. Agisce a livello della articolazione scapolo omerale generando abduzione e rotazione della articolazione; è inoltre capace di sollevare il tronco in una azione inspiratoria accessoria.
A sua volta, il gran pettorale è diviso in tre capi:
Clavicolare: si origina dal margine anteriore della clavicola
Sterno-costale: che origina dalla faccia anteriore dello sterno e dalle cartilagini costali (dalla seconda a sesta)
Addominale: che origina dalla parte superiore della lamina anteriore.
Questi tre capi si uniscono in un’unica inserzione omero, sulla cresta del tubercolo maggiore.
Il piccolo pettorale invece, si origina con tre fasci distinti sulla terza, quarta e quinta costola, si inserisce a livello del processo coracoideo della scapola (si tratta di un’altra struttura scapolare mediale all’acromion). La sua funzione principale è quella di abbassare la spalla e sollevare le coste, si tratta pertanto di un muscolo inspiratorio.
Un po’ di muscoli della parte alta del corpo
Quando andiamo a sforzare il petto in un qualsiasi esercizio, inevitabilmente interverranno anche il capo anteriore del deltoide, il tricipite, il gran dentato ed il subclavio. Quando tutto questo insieme di muscoli lavora, inevitabilmente agisce su due grandi strutture articolari: il cinto scapolare (scapola e clavicola) e l’omero.
Biomeccanica di base
In letteratura scientifica è ormai assodato che il gran pettorale abbia all’incirca 42% di fibre muscolari rosse (tipo I) ed il 58% di fibre bianche (tipo II) [1]. La sua funzione principale è quella di addurre e abdurre l’omero, abbassarlo, fletterlo orizzontalmente, intraruotarlo, collocarlo in una posizione di anteposizione e realizzare una flessione sagittale dell’omero.
Illustrazione di alcune delle funzioni del gran pettorale: a = anteposizione dell’omero; b = abbassamento; c = adduzione e abduzione; d = adduzione sul piano sagittale; e = anteposizione (fino a circa 60°); f = intrarotazione; g = flessione orizzontale.
Il piccolo pettorale invece, ha una diversa distribuzione di fibre muscolari: 51% rosse (I) e 49% rapide (II). Le sue funzioni sono in primo luogo il far eseguire delle flessioni orizzontali dell’omero, mettere sempre quest’ultimo in anteposizione, abbassarlo ed estendere le scapole.
Illustrazione di alcune funzioni del piccolo pettorale: a = abbassamento dell’omero; b = anteposizione.
Il deltoide anteriore ha indicativamente un 60% circa di fibre rosse (I) e un 40% di fibre bianche (II). Le sue funzioni più importanti sono quelle di flettere orizzontalmente l’omero e di extraruotarlo.
Il tricipite ha all’incirca il 60% di fibre rosse (I) ed il 40% di fibre bianche (II). Presenta tre capi (lungo, laterale e mediale) ed esercita la sua azione sull’articolazione scapolo-omerale, adducendo ed estendendo l’omero, e l’articolazione del gomito, estendendo l’avambraccio sul braccio.
Il gran dentato ha un grosso predominio di fibre rosse (I), come funzioni base garantisce una flessione orizzontale dell’omero, una sua flessione sagittale, una abduzione scapolare e una rotazione esterna delle scapole.
Il succlavio, come il gran dentato, è composto per lo più da fibre rosse (I) e la sua funzione di maggior importanza è quella di abbassare la clavicola.
Tutte queste nozioni ci serviranno ora per andare ad analizzare i principali esercizi per il petto e per valutare quali possono essere i migliori e perchè.
Breve analisi degli esercizi
Dopo aver osservato le funzioni dei muscoli sui vari piani di movimento, possiamo arrivare a capire che per far lavorare al meglio i pettorali, dobbiamo muovere dei carichi con movimenti di spinta (es. distensioni su panca) e di apertura (es. croci).
Distensioni su panca piana: quando andiamo a eseguire delle distensioni su panca piana, i muscoli che intervengono sono principalmente il grande e piccolo pettorale, il capo anteriore del deltoide ed i tricipiti anche se a voler essere pignoli, i muscoli coinvolti in questo esercizio sono infinitamente di più, la mia è una semplificazione. Nell’esecuzione della panca, l’alternarsi di fase concentrica ed eccentrica, fa addurre ed abdurre il petto. Inoltre la distensione delle braccia garantisce un marcato lavoro del tricipite.
Nella panca piana con bilanciere una presa molto larga diminuisce il range di movimento complessivo, il gomito scende poco sotto la testa dell’omero (scarsa adduzione-abduzione del pettorale) e i tricipiti lavorano meno (ridotto piegamento delle braccia). Viceversa, una presa più stretta aumenta il lavoro dei pettorali (maggior adduzione-abduzione) e coinvolge maggiormente i tricipiti (aumenta il piegamento delle braccia). Pertanto non esiste un soluzione al problema dei tricipiti “rubano” il lavoro al petto, poiché i muscoli lavoreranno molto in entrami i casi. Indipendentemente dalla larghezza della presa, l’esecuzione con bilanciere avrà sempre e comunque un rom (range di movimento) ridotto rispetto a quella con manubri (foto sotto). Inoltre, l’instabilità data dai manubri può aiutare le persone nella propriocezione muscolare, fattore fondamentale per un’ottimale crescita. Di contro però, con il bilanciere, nel tempo, sarà più facile aumentare il sovraccarico (anche se questo è un concetto più per atleti avanzati).
Prima di passare al prossimo esercizio, è bene ricordare un’ultima cosa sulla panca piana: questo, più di altri, non è un esercizio per tutti.
Un soggetto con leve favorevoli (cassa toracica grande, angolo fra sterno e testa omero ampio e linea di trazione del pettorale quasi verticale) riuscirà a sviluppare più forza e ad ottenere una risposta ipertrofica maggiore rispetto a soggetti più gracili e longilinei (illustrazione sotto).
Distensioni su panca inclinata: negli anni se ne sono dette di tutti i colori su di essa, ma attualmente grazie a dei progressi nella letteratura scientifica [2,3], si è scoperto un discreto vantaggio nell’utilizzo di questo esercizio, rispetto alle classiche distensioni in piano, almeno quanto riguarda il reclutamento dei fasci clavicolari (la banale “parte alta” del petto).
Come mostrato nel grafico riportato sopra, i vantaggi ci sono unicamente dai 45° in su, inclinazioni minori della panca stimolano troppo poco questi fasci muscolari.
Distensioni su panca declinata: ottimo esercizio per reclutare tutte le fibre dei muscoli pettorali, è l’esercizio in cui generalmente si carica di più, garantisce quindi un’elevata tensione meccanica nei nostri allenamenti (fattore chiave dell’ipertrofia muscolare).
Dips alle parallele: i dips, o distensioni alla parallele, non si è mai capito se siano più utili allo sviluppo dei pettorali o dei tricipiti. Osservando le nozioni fornite nel precedente paragrafo, possiamo intuire il coinvolgimento del tricipite a causa dell’estensione dell’avambraccio sul braccio (anche se in questo caso sarebbe più appropriato parlare di distensione, dato che le mani si trovano in appoggio su una sbarra). Riguardo al petto invece, il gran pettorale interviene anche’esso nella fase concentrica, essendo un flessore del braccio (con i fasci superiori o clavicolari).
Esistono in realtà due versioni di questo stesso esercizio: le distensioni classiche, con presa stretta e busto piuttosto verticale e le chest dips, con la presa un po’ più larga ed il busto più inclinato in avanti (a voler quasi simulare una panca declinata). In linea del tutto teorica, quelle classiche stimolano soprattutto i fasci clavicolari del gran pettorale, perchè impongono una flessione della spalla da posizione iperestesa. Le chest dips invece, fanno lavorare i fasci inferiori del gran pettorale a causa del movimento di adduzione della spalla.
A voler essere puntigliosi, un vecchio studio tedesco [4] dimostra come scendere oltre l’angolo di 90° nelle dips normali, testa dell’omero che va sotto il gomito, faccia calare l’attivazione del tricipite in maniera abbastanza significativa (-12%), nelle distensioni con presa più larga invece, le chest dips, il calo è molto minore (-3%).
Va infine sottolineato che il materiale scientifico per valutare l’attività elettriomiografica (EMG) dei pettorali nelle distensioni alla parallele è veramente pochissimo. Abbiamo a disposizione un solo studio più o meno attendibile [5], il quale ha evidenziato una marcata attivazione dei fasci inferiori ma purtroppo non specifica nè l’ampiezza della presa, nè l’inclinazione del busto. Va infine aggiunto che le analisi tramite EMG hanno dei palesi limiti.
Croci e aperture ai cavi: sono dei validi esercizi perchè consistono in delle flessioni orizzontali dell’omero. Ripassando quanto detto a inizio articolo, si capisce l’utilità di questi esercizi nell’andare a colpire muscoli come il grande pettorale, piccolo pettorale e deltoide anteriore. Non permettono di caricare molto peso, quindi non vengono scelti come esercizio principale per il petto e con essi si opta per ripetizioni medio-alte. Inoltre, nell’esecuzione con manubri, l’andare ad intraruotare l’omero una volta giunti verso la fine della fase concentrica può essere uno stimolo in più per il muscolo target (gran pettorale). Al contrario, un extrarotazione aumenterebbe solo lo stress al capo anteriore del deltoide.
Nelle croci con manubri, la massima tensione è data dalla forza di gravità, infatti quando l’omero è parallelo al suolo (figura sotto), quindi all’inizio della contrazione concentrica, la tensione è massima. Mentre è prossima allo zero, se i due manubri si trovano in alto, vicini, perpendicolari al suolo (al termine della fase concentrica).
Discorso invece diverso se si opta per la variante ai cavi (fig. sotto), in essa c’è una resistenza data dai cavi “che tirano”, la quale garantirà un coinvolgimento del gran pettorale anche al termine della fase concentrica. Per evitare “pause” durante la contrazione, potrebbe essere sensato preferire le croci ai cavi a quelle con i classici manubri, oppure utilizzare sempre i manubri ma effettuare delle ripetizioni parziali (ROM incompleto).
Dopo tutta questa pappardella risulta chiaro come il voler isolare singole parti del petto, sogno di molti palestrati, sia pura fantascienza e che, a seconda di leve e di altre caratteristiche ereditate geneticamente, certi esercizi non siano ottimali per tutti. L’allenamento va programmato, periodizzato e deve essere necessariamente individualizzato, anche se esistono delle “regole” anatomiche e fisiologiche comuni un po’ a tutti, le quali devono essere rispettate.
Kapandji I. A. – Fisiologia articolare(Monduzzi; 7a ediz., 2007) Beraldo S. – Allenamento muscoli pettorali (2016) Nick Evans – Bodybuilding Anatomy(Calzetti Mariucci, 2008) 1 Bosco C. – La forza muscolare. Aspetti fisiologici ed applicazioni pratiche(Società Stampa Sportiva; 2a ediz., 2002) 2 Trebs et al. – An electromyography analysis of 3 muscles surrounding the shoulder joint during the performance of chest press at several angles (2010) 3 Luczak et al. – Shoulder muscle activation of novice and resistance trained women during variations of dumbbell press exercise (2013) 4 Boeckh-Behrens W. et al. – Fitness-Krafttraining:die besten Übungen und Methoden für Sport und Gesundheit (2000) 5 Contreras B. – Inside the Muscles: Best Chest and Triceps Exercises (2010)
E’ capitato a qualunque sportivo di parlare o sentir parlare almeno una volta di acido lattico e magari anche di lattato. Spesso confusi, questi due non sono in realtà la stessa cosa e adesso vedremo brevemente il perché.
Durante sforzi muscolari di una certa intensità, superata un certa quantità di tempo (mediamente 9-12 secondi), nei muscoli interessati inizia ad accumularsi più acido lattico del dovuto: l’organismo non è più in grado di smaltirlo come dovrebbe.
Quando l’acido lattico, dal muscolo viene spostato nel torrente ematico, prende il nome di lattato, dato che la sua struttura chimica viene modificata (perde uno ione H+).
Dopo sforzi fisici ripetuti, grafico qui sotto, è possibile effettuare dei prelievi di sangue dalla punta delle dita o dalle vene delle braccia per scoprire qual è la soglia del lattato.
Relazione tra intensità di esercizio (vel. di corsa) e accumulo di lattato. I campioni di sangue sono stati prelevati dopo che il corridore aveva corso per 5 minuti a ciuscuna delle velocità riportare sull’asse delle ascisse (LT = soglia del lattato).
Mettendo su grafico i risultati, chiameremo soglia del lattato il punto oltre il quale l’accumulo di lattato ematico schizza alle stelle, superando di gran lunga i livelli tenuti a riposo. La LT, nelle persone sedentarie, corrisponde a circa il 55-60% del VO2max, negli atleti agonisti praticanti sport di resistenza anche 70-80%.
Fino a un po’ di anni fa la soglia del lattato era, a detta di molti, corrispondente a 4 mmoli/L ma questa cifra, rimessa in discussione negli ultimi anni, in reltà altro non è che una media ottenuta da vecchie indagini effettuate su larga scala. Possono esserci soggetti con una LT di 3 come di 5 o 6 mmoli litro di lattato ematico.
Quindi ricordate bene, il lattato e l’acido lattico NON sono la stessa cosa!
Non è raro, fra internet e televisione, vedere atleti dei più svariati sport allenarsi appositamente in zone parecchio sopra il livello del mare (+1500 m). Ora, in questo articolo, andremo a vedere le risposte fisiologiche e gli adattamenti indotti dall’allenamento svolto a determinate altezze.
Vi avviso: sono argomenti abbastanza complessi, quindi un po’ noiosi, ma é fondamentale saperli se si vuole essere ben informati su i pro e i contro di certe scelte sportive.