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  • Aumentare l’EPO in maniera naturale: teoria, consigli pratici e mode

    Aumentare l’EPO in maniera naturale: teoria, consigli pratici e mode

    E’ possibile incrementare l’EPO, e quindi la capacità di trasporto dell’ossigeno, in maniera naturale, senza ricorrere all’utilizzo di farmaci dopanti? La risposta è sì, ora scopriamo come!

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    Cos’è l’EPO?

    Come già ampiamente spiegato in un altro articolo, l’acronimo EPO non è altro che l’abbreviazione della parola eritropoietina, un ormone glicoproteico prodotto naturalmente dai reni, dal fegato ed in misura molto minore dal cervello. La sua funzione principale è la regolazione dell’eritropoiesi, cioè la produzione dei globuli rossi da parte del midollo osseo.

    Andando un po’ più nello specifico, l’EPO umana presenta una catena di 165 aminoacidi con tre N-glicosilazioni ed una O-glicosilazione, invece l’eritropoietina di sintesi, per quanto riguarda le dimensioni, il numero complessivo, il grado di ramificazione e la posizione delle glicosilazione, differisce un po’ da quella umana. Viene somministrata tramite iniezioni sottocutanee o endovenose, in medicina è utilizzata per trattare numerose forme di anemia e sembra avere effetti positivi anche sulla salute di alcuni organi interni.

    N.B:  benché abbia a che fare con l’ossigeno e l’acronimo sia simile, l’eritropoietina non va confusa con l’EPOC (aumento del consumo di ossigeno post allenamento).

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    Come incrementare i livelli di EPO

    Solo a scopo informativo, ricordiamo che l’EPO è utilizzata a fini dopanti, quindi illegalmente, per incrementare il trasporto di ossigeno, un fattore importantissimo in molti sport, soprattutto quelli di endurance. L’assunzione di eritropoietina alza il VO2max, la soglia lattacida e migliora la respirazione cellulare. È quindi facile intuire come la sua utilità sia maggiore negli sport di resistenza. I primi a notare gli effetti di questo ormone sulla performance sportiva furono gli studiosi Ekblom e Berglund nei primi anni 90, riconducendo le somministrazioni di eritropoietina (20-40 IU/kg alla settimana) ad un notevole aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 max) [1].

    Ma ora veniamo al punto forte: l’EPO è aumentabile in via naturale (e legale), senza rischi per la salute, svolgendo degli allenamenti ad alta quota. Un’attività fisica può considerarsi a tutti gli effetti ad alta quota quando si svolge oltre i 1500 metri, dato che a quote inferiori non sono mai stati evidenziate variazioni significative sulla prestazione.

    Indipendentemente che uno si trovi al livello del mare o sull’Everest, la miscela di gas da cui è composta l’aria che respira è identica (la sua composizione varia superati i 13.500 m), cambia unicamente la pressione parziale dei singoli gas. Inoltre, ogni 150 metri circa, in altezza, la temperatura aumenta di 1°C.

    Anche se scontato, va ricordato che l’umidità e l’altitudine sono inversamente proporzionali. Questo, nell’immediato, può portare alla secchezza ed irritazione delle mucose e delle pareti degli alveoli. Tuttavia, dopo tre settimane di “adattamento” l’organismo mette in atto dei sistemi di difesa, migliorando la vascolarizzazione delle mucose. Anche per i motivi sopraelencati, gli sportivi che si allenano e gareggiano ad alte quote hanno un maggior bisogno di acqua per compensare le ingenti perdite idriche del proprio organismo, specialmente per quanto riguarda gli sport di endurance.

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    Risposte fisiologiche e adattamenti all’allenamento ad alta quota

    La pressione parziale di ossigeno (PO2) diminuisce sempre di più a certe altezze, ciò determina una minore pressione d’ossigeno negli alveoli polmonari, ne consegue una minore saturazione d’ossigeno del sangue arterioso. Tutto questo porta ad una diminuzione del VO2 max (massimo consumo di ossigeno), quindi un ostacolo per le prestazioni di resistenza. Ad un’altezza superiore a 1500 metri il VO2 max diminuisce del 10% ogni 1000 m di quota [2,3].

    Più si è lontani dal livello del mare e più, a riposo, la forza della muscolatura respiratoria diminuisce [4]. Sotto sforzo la stessa cosa vale per il diaframma [5]. Entrambi i casi sono una conseguenza dell’ipossia* e dall’iperventilazione causata dall’altitudine, dato che il minor rifornimento di ossigeno diminuisce l’apporto di energia alla muscolatura [6].

    *Insufficiente presenza di ossigeno nei tessuti, dovuta a scarso apporto o a una sua mancata utilizzazione.

    In alta quota l’aria è meno densa, perciò la ventilazione polmonare aumenta (sia a riposo che sotto sforzo). Di conseguenza, la quantità di anidride carbonica negli alveoli viene ridotta e aumenta la diffusione del sangue verso i polmoni, tramite i quali la CO2 verrà eliminata. La maggior eliminazione dell’anidride carbonica porta ad un alcalosi respiratoria, con aumento del ph ematico, allora i reni intervengono aumentando l’escrezione di ioni bicarbonato (tamponatori dell’acido carbonico formatosi dalla CO2). Questo passaggio finale, diminuisce la capacità del sangue di tamponare i prodotti acidi del metabolismo, così, in altitudine, peggiora la trasformazione di energia per via anaerobica [7].

    Con l’abbassamento della già citata pressione parziale dell’ossigeno, PO2,  questo si riflette anche nella PO2 degli alveoli e nei capillari polmonari. Allo stesso tempo cala anche la saturazione dell’emoglobina (dal 98% al livello del mare passa a 92% se ci troviamo a 2439 m). Mentre la PO2 arteriora diminuisce con l’altitudine, la PO2 dei tessuti rimane praticamente invariata, almeno fino ad altezze ragionevoli (circa 2500 m), quindi la differenza fra queste due (gradiente di pressione), viene drasticamente ridotta. Il passaggio dell’ossigeno dal sangue ai tessuti dipende proprio da questo gradiente di pressione. L’abbassamento della pressione parziale d’ossigeno arteriosa è uno dei maggiori responsabili del calo del VO2max in alta quota.

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    La diminuzione del massimo consumo di ossigeno inizia ad essere rilevante dopo i 1500-1600 metri, quando la PO2 atmosferica scende sotto i 125 mmHg (millimetri di mercurio). Dai 1600 metri in poi il VO2max cala di circa l’8-11% ogni singolo km di altezza.

    Nella figura a sinistra è illustrata la capacità aerobica di prestazione espressa attraverso il VO2max [3].

    Vecchi studi [9,10,11] evidenziavano come la permanenza a certe altitudini riusciva a far sviluppare al corpo una certa tolleranza all’ipossia. Dopo un periodo compreso fra i 18 e 57 giorni, i soggetti che già in passato erano stati esposti a condizioni analoghe, dopo il calo iniziale del VO2max, avevano un discreto miglioramento di questo parametro, inoltre la loro capacità aerobica rimaneva invariata.

    Ma in ogni caso, anche con una certa acclimatizzazione, il massimo consumo di ossigeno in quota non sarà mai paragonabile a quello in prossimità del livello del mare.

    Per adeguarsi alle variazioni del sistema respiratorio anche quello cardiovascolare subisce delle modifiche. Infatti, già nelle prima 24-48h di permanenza a certe altezze, si verifica una riduzione del volume plasmatico del 25%, queste principalmente perchè ad alte quote c’è una certa perdita di acqua attraverso la respirazione. Tuttavia, in cronico, l’organismo mette in atto una serie di adattamenti che portano ad un aumento della massa ematica, con la quale il corpo riesce, almeno parzialmente, a compensare la riduzione della PO2 dovuta all’alta quota.

    Ma non finisce qui! Anche la gittata cardiaca, prodotto del volume di scarica sistolica per la frequenza cardiaca, subisce dei cambiamenti.

    “La risposta immediata in seguito all’esposizione all’alta quota consiste in un aumento della gittata cardiaca a parità di carico submassimale rispetto al livello del mare, tuttavia, questa risposta tende a spegnersi nel corso dei giorni e settimane di acelimatazione.
    Il processo è da attribuire alla riduzione della gittata pulsatoria che progressivamente si instaura con l’esposizione all’alta quota. Riducendosi la gittata cardiaca, a parità di consumo di ossigeno, si verifica una maggior differenza artero-venosa in ossigeno. In una certa misura, la riduzione della gittata sistolica (pulsatoria) viene compensata da un aumento della frequenza cardiaca (fc) a ogni lavoro subi-massimale. In effetti, si è riscontrato che anche in vetta all’Everest. e quindi a gradi estremi di ipossia, il cuore mantiene intatta la sua capacità contrattile e la sua ritmicità” [8]. Discorso un po’ diverso invece per gli sforzi di intensità massimale. Per lavori di questo tipo, svolti ad alta quota, si verifica sia una riduzione della massima fc e del massimo volume di scarica sistolica. Il primo fattore è legato al SNC ed il secondo al repentino calo del volume plasmatico, di conseguenza, pure la gittata cardiaca ha un peggioramento (affinchè questo sia rilevante bisogna essere a circa 3000 m). A tutto ciò si aggiunge la riduzione del gradiente di diffusione, quest’ultimo facilità il passaggio dell’O2 dal sangue ai muscoli. Risulta quindi chiaro il perchè del peggioramento delle prestazione aerobiche quando si è ad alta quota.

    Come sappiamo però, il corpo umano è una macchina meravigliosa, anche in situazioni ostiche, col tempo, è in grado di adattarsi e migliorare. Infatti, dopo una permanenza di circa 6 mesi a quota 4000 m, la massa del sangue (volume ematico) aumenta del 9-10%, questo a causa di una maggior produzione di globuli rossi (indotta dall’altitudine) e di un’espansione del volume plasmatico, inizialmente ridotto del 25% circa.

    L’allenamento in altitudine, fra le altre cose, modifica la variabilità della frequenza cardiaca (HRV, Heart Rate Variability). Ricerche di qualche anno fa [12] mostrano un cambiamento considerevole dell’HRV dopo numerosi allenamenti in ipossia effettutati durante 18 giorni. Inoltre, un aumento globale dell’HRV è associato ad una diminuzione della fc a riposo e ad una più elevata capacità di prestazione sportiva [13,14,15].

    Riguardo invece agli adattamenti muscolari, purtroppo in letteratura scientifica non è presente moltissimo materiale. Nella tabella sottostante sono illustrate le variazioni muscolari e metaboliche avvenute durante uno studio del 1992 (D. L. Costill et al. dati non pubblicati), durante il quali le cavie umane scalarono l’Everest ed il Monte Denali. L’unico aumento riscontrato è stato quello dei capillari per mm2, dovuto al bisogno dell’organismo di apportare un maggior quantitativo di sangue e ossigeno ai muscoli. I pochi dati che ci mette a disposizione questo studio, in ogni caso, sono molto ambigui: le diminuzioni raffigurate nella tabella sotto sono benissimo riconducibili alla perdita di appetito che si verifica in in alta quota (deficit calorico). Inoltre, al perdita di peso di alcuni scalatori (fino a 6 kg) è attribuibile alla disidratazione corporea, soprattutto a livello extracellulare.

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    Informazioni venute fuori negli anni successivi, hanno mostrato che dai 2500 m in su, dopo alcune settimane il potenziale metabolico dei muscoli si riduce. In più, ad altezze ancora maggiori sembrerebbe ridursi l’attività mitocondriale e degli enzimi glicolitici (sono quindi limitati i processi biochimici come la fosforilazione ossidativa). Va ricordato anche che a causa del potenziale stress causato dalle condizioni climatiche ostiche, potrebbero essere alti i livelli di cortisolo, ormone legato al catabolismo.

    Sulla questione muscolare non si sa molto altro.

    Dal momento che il trasporto di ossigeno ad alta quota è ostacolato (ipossia), diminuisce anche la capacità ossidativa dell’organismo, quest’ultimo allora deve puntare alla produzione di energia per via anaerobica. Ciò, ovviamente, assicura dei livelli di lattato ematico più alti durante sforzi di intensità sub-massimale. Durante sforzi massimali invece, non si verifica la medesima cosa, per essi l’accumulo di acido lattico nei muscoli e sangue risulta essere più basso [16,17], questo probabilmente per l’incapacità dell’organismo di tollerare carichi di lavoro troppo intensi e/o per la riduzione della capacità glicolitica dei muscoli (limitata dall’intolleranza nei confronti dell’accumulo di H+).

    Oltre ad un calo della performance, viene intaccata anche la capacità funzionale del SNC. Il cervello con una carenza di ossigeno va in ipossia, perciò, in altitudine si va incontro a ciò che segue:

    • diminuzione della capacità di pensiero analitico, della capacità di presa di decisione e di giudizio;
    • aumento del nervosismo;
    • peggioramento delle prestazioni sensoriali (a causa dell’ipossia diminuisce l’accuratezza visiva);
    • calo delle capacità coordinative;
    • aumento dei disturbi del sonno.
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    Applicazioni pratiche

    Dopo tutte queste belle nozioni teoriche è giunto il momento di passare alla pratica. Se si vuole aumentare l’EPO, come bisogna organizzare un training camp?

    L’altitudine più favorevole per i training camp è quella compresa fra i 2000 e 3000 metri, la quale corrisponde ad una riduzione dell’ossigeno disponibile dal 16 al 24% [18]. Ad una quota inferiore ai 1800 m gli adattamenti fisiologici ci sono ma sono troppo deboli per consentire un tangibile miglioramento prestativo. Al contrario, con ad altezze troppo elevate (+3000 m) le condizioni diventano veramente troppo ostiche per consentire l’ottenimento di risultati, si rischia così un decremento della performance.

    Il grosso degli adattamenti avviene entro due settimane dall’arrivo in alta quota, quindi una permanenza di 2-3 settimane, abbinata ai giusti allenamenti, è considerata ottimale per ottenere i risultati sperati [18]. Infatti, sembrerebbe che  dal 22° giorno di permanenza in poi le prestazioni degli atleti comincino ad avere dei discreti cali [19]. In più, almeno per quanto riguarda le attività di resistenza, ripetere più volte un periodo di allenamento in altitudine durante l’anno dà migliori risultati rispetto ad un unico training camp troppo lungo.

    Una volta arrivati ad altura, per non ostacolare gli adattamenti fisiologici è bene non eccedere con l’intensità allenante e concentrarsi piuttosto sul volume. Il primo parametro andrà ricercato gradualmente, col passare dei giorni [18,20]. Autori come Willmoore e Costill consigliano una iniziale diminuzione dell’intensità pari al 60-70%, in modo da non stressare troppo l’organismo, quest’ultima tornerà poi ai livelli standard entro una decina di giorni.

    Esercizi anaerobico alattacidi, quindi molto brevi, non rappresentano un problema in altura, dato l’irrisorio accumulo di acido lattico. Anzi, l’aria più rarefatta diminuisce la resistenza aerodinamica garantendo dei risultati anche leggerissimamente superiori, non è un caso che alle Olimpiadi del 1968, a Città del Messico (2250 m), i velocisti abbiano avuto degli ottimi risultati. Discorso diverso per le discipline con una forte componente lattacida, i quali sarebbe bene evitare e/o limitare data la difficoltà dell’organismo di gestire gli accumuli di acido lattico.

    In ogni caso, a meno che non si debbano svolgere della gare ad alta quota, allenarsi in altura per competizioni anaerobiche ha poco senso. I possibili vantaggi di questa scelta riguardano unicamente gli sport principalmente aerobici. Per essi l’altitudine consigliata è di 2000-3000 metri. Gli atleti, soprattutto all’inizio, saranno sì svantaggiati ma facendo le cose con metodo i miglioramenti non tarderanno ad arrivare. Se generalmente si sta in prossimità del livello del mare è bene arrivare in altura con un livello di VO2max piuttosto alto, bisogna quindi allenare soprattutto la potenza aerobica.

    Allenarsi in alto e gareggiare in basso

    Le problematiche iniziali legate all’ipossia, come riportato qualche riga prima, potranno essere risolte anche in meglio, ció sempre a patto che gli allenamenti vengano svolti con criterio e che altezza e permanenza siano quelle giuste (2000-3000 m e tre settimane circa), repetita iuvant. In questo modo, gli atleti, chi più chi meno, riescono a guadagnare dei livelli più alti di eritropoietina, un aumento della massa cellulare dei globuli rossi e del livello di emoglobina nel sangue. Una volta tornati al livello del mare, questi miglioramenti svaniscono nel giro di qualche giorno. Occorre quindi effettuare gare (di resistenza) entro pochissimo tempo dal proprio rientro. Discorso diverso per gli atleti che gareggiano in basso ma vivono in alto, loro non sebrano aver vantaggi sulle competizioni al livello del mare.

    Allenarsi in basso e gareggiare in alto (live high and train low)

    Anche in questo caso, una volta arrivati in alta quota vale sempre la regola delle 2-3 settimane di adattamento. Se invece non si ha tutto questo tempo a disposizione è consigliabile arrivare in altura poco prima della competizione (12-24h), in modo che l’ipossia non abbia iniziato a mettere sufficientemente in difficoltà il nostro corpo. Per limitarne i danni (in acuto), come già detto, è buona cosa avere i livelli del VO2max (massimo consumo di ossigeno) molto alti, perché ricordo che questo è il parametro che più di tutti risente dell’alta quota, questo già nelle prime ore.

    Secondo la letteratura scientifica, quello del “live high and train low” sarebbe il metodo più efficace per giovare degli adattamenti indotti dalla permanenza ad alta quota ed allenarsi, anche ad alte intensità, quando si è poco sopra il livello del mare [24].

    Ovviamente gli adattamenti e le risposte fisiologiche variano da persona a persona. Si distinguono infatti due categorie di soggetti: i responder ed i non responder. I primi reagiscono positivamente all’ipossia dovuta all’alta quota, gli altri no. Questo soprattutto per quanto riguarda i livelli di EPO [20]. Uno studio di Ri-Li e colleghi [21], effettuato su un gruppo di 48 atleti (32 uomini e 16 donne) evidenzió nelle prime 24 h di allenamento in altitudine (2800 m), cambiamenti dei livelli plasmatici di EPO molto diversi da persona a persona. Alcuni addirittura arrivarono ad un aumento del 400% e altri ad un misero +41%. La causa di tale discrepanza sembrerebbe essere geneticamente determinata (polimorfismi individuali del gene EPO o del gene ricettore dell’EPO).

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    Differenza dei livelli di EPO in tutti e 48 i soggetti dello studio precedentemente citato [21]

    Per i soggetti “non responder” si potrebbe tranquillamente accantonare l’idea di effettuare dei training camp in alta quota.

    Una alternativa all’allenamento ad alta quota è indubbiamente la tena ipossica, peccato che il suo utilizzo sul suolo italiano sia vietato (considerato vero e proprio doping). Per ulteriori approfondimenti su questa pratica vi rimando al solito articolo.

    Controindicazioni più e meno gravi dell’allenamento in altura
    • Scottature solari e oftalmia delle nevi;
    • irritazioni delle vie respiratorie;
    • mal di montagna (l’incidenza aumenta con l’altitudine), i sintomi tipici sono il mal di testa, nausea e vomito;
    • edema polmonare (colpisce soprattutto le persone che salgono troppo rapidamente a quote oltre i 2700 m);
    • edema cerebrale (si verifica perlopiù a quote superiori ai 4000 m);
    • emorragia retinica (si verifica dai 6000 m in poi).
    Due parole sulla training mask (TM)

    4a7bfe9d-8041-4589-8d9f-f38cc6471bfeNegli ultimi anni il marketing ben orchestrato è riuscito a propinare al grande pubblico una maschera, che per assurdo ricorda vagamente quella di Bane, il nemico giurato di Batman.

    Tuttavia, a differenza di quella utilizzata da Bane ne “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro” la training mask non fa inalare alcun gas antidolorifico. Ma semplicemente rende più difficoltosa la respirazione. E’ stata venduta come, cito testualmente, “Maschera per simulare l’allenamento ad alta quota” ma la verità è che una semplice maschera non può modificare la pressione parziale dell’ossigeno (PO2) e neanche alterare la composizione dell’aria, a meno che questa non sia collegata tramite dei tubi a degli appositi macchinari in grado di simulare l’ipossia.

    A parità di lavoro, se si utilizza la TM la FC sarà più elevata, modificando anche significativamente i parametri di lavoro (esercitazioni a VO2max per la potenza aerobica, individuazione delle soglie ecc.).

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    Variazione della FC nei gruppi di lavoro con (Mask) e senza (Control) delle resistenze respiratorie [23]

    “Dopo 6 settimane di allenamento intervallato ad alta intensità su cicloergometro:
    – Non sono state riscontrate differenze significative (né tra i gruppi né all’interno dei gruppi stessi) nei parametri polmonari o negli indicatori ematici.
    – Solo il gruppo che indossava la maschera ha riportato miglioramenti significativi a livello di soglia ventilatoria (13.9%), potenza alla soglia ventilatoria (19.3%), soglia di compensazione respiratoria (10.2%), e potenza alla soglia di compensazione respiratoria (16.4%).
    – Sebbene il gruppo che si è allenato con la maschera ha riportato i suddetti miglioramenti, sono necessari ulteriori studi per verificare se tali miglioramenti incidano realmente sulla performance dell’atleta.
    – Anche se il dispositivo inducesse adattamenti simili a quelli riscontrati in altitudine, il tempo di esposizione allo stimolo, nel caso specifico 60 min*wk-1, non sarebbe sufficiente ad indurre adattamenti (è stato osservato che nemmeno 114 min*wk-1 in ambiente realmente ipossico sono sufficienti).
    – La ETM (The Elevation Training Mask 2.0) agisce più come dispositivo per l’allenamento dei muscoli” (MMA – Elevation Training Mask?) [24].

    Pertanto, risulta difficile capire quanto i muscoli respiratori possano incidere sulla performance negli sport non di endurance (si stima che negli atleti d’élite praticanti sport di resistenza possano avere un miglioramento del 5-8%).

    Ad esempio, uno studio del 2016, condotto su diciassette cadetti dei corpi di polizia, non ha mostrato miglioramenti associati all’utilizzo della Training Mask, né sulla capacità aerobica, né sui livelli di VO2max [22].

    Conclusioni

    Se l’obiettivo è quello di incrementare i livelli di EPO, l’unica via è quella dell’allenamento ad alta quota, non ci sono scuse, bisogna farsi il mazzo. Ovviamente dei periodi di permanenza in montagna hanno un costo, valutate bene se ne valga veramente la pena. Riguardo alla Training Mask attualmente è molto dubbia la reale utilità di questo costoso oggetto, ciò che è certo è che non influenza in alcun modo i livelli di EPO.

    Grazie per l’attenzione.


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    Bibliografia

    Willmore H. J., Costill L. D. –  Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport (Calzetti Mariucci, 2005)
    Cravanzola E. – EPO: dalla fisiologia al suo utilizzo nello sport (2017)
    Cravanzola E. – Allenarsi ad alta quota: tutto quello che c’è da sapere (2016)
    1 Ekblom B. et al. – Effect of recombinant human erythropoietin treatment on blood pressure and some haematological parameters in healthy men (1991)
    2 Strømme A. B. – Training at altitude (1980)
    3 Grover R. F. – Leistungsfähigkeit in groβen Höhen (1983)
    4 Fasano et al. – High-Altitude Exposure Reduces Inspiratory Muscle Strength (2007)
    5 Cibella et al. – Respiratory mechanics during exhaustive submaximal exercise at high altitude in healthy humans (1996)
    6 Schoene et al. – Limits of human lung function at high altitude (2001)
    7 E. R. Buskirk et al. –  Maximal performance at altitude and on return from altitude in conditioned runnerd (1967)
    8 Dott. Bucosse R. – Attività fisica a quote medie ed elevate
    9 Adam W. et al. – Effects of equivalent sea-level and altitude training on VO2max and running performance (1975)
    10 Buskirk E. R. et al. – Physiology and Performance of Track Athletes at Various Altitudes in the United States and Peru (1967)
    11 Grover R. F. et al. – Muscular exercise in young men native to 3,100 m altitude(1967)
    12 Schmitt et al. –  ??? (2008) fonte primaria errata sul libro di riferimento
    13 Pichot et al. – Relation between heat rate variability and training load in middle-distance runners (2000)
    14 Hedelin et al. – Heart rate variability in athletes: relationship with central and peripheral performance (2001)
    15 Mourot et al. – Quantitative pointcare plot analysis of heart rate variability: effect of endurance training (2004)
    16 Green H. et al. – Operation Everest II: adaptations in human skeletal muscle(1989)
    17 Sutton J. et al. – Operation Everest II: oxygen transport during exercise at extreme simulated altitude (1988)
    18 Heinicke K. et al. – A three-week traditional altitude training increases hemoglobin mass and red cell volume in elite biathlon athletes (2005)
    19 Suslow F. P. et al. – Die sportliche Leistungsfähigkeit in der Periode der Reakklimatisierung nach Höhentraining (1973)
    20 Chapman et al. – Individual variation in response to altitude training (1998)
    21 Ri-Li et al. – Determinants of erythropoietin release in response to short-term hypobaric hypoxia (2002)
    22 Sellers, John H et al. – Efficacy of a Ventilatory Training Mask to Improve Anaerobic and Aerobic Capacity in Reserve Officers’ Training Corps Cadets (2016)
    23 Porcari J. P. et al. – Effect of Wearing the Elevation Training Mask on Aerobic Capacity, Lung Function, and Hematological Variables (2016)
    24 Ness J. – Is live high/train low the ultimate endurance training model?

  • L’alimentazione per lo sport e la salute: quello che c’è da sapere

    L’alimentazione per lo sport e la salute: quello che c’è da sapere

    Per quanto riguarda il benessere psicofisico e la performance, l’alimentazione gioca un ruolo cruciale, sul quale va prestata molta attenzione, sia per gli sportivi che per i soggetti sedentari.

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    Il mondo dell’alimentazione è  (altro…)

  • Colonna vertebrale: osteologia e patologie principali

    Colonna vertebrale: osteologia e patologie principali

    La colonna vertebrale è una complessa struttura osteofibrocartilaginosa, molto resistente e fondamentale per il movimento umano. Nelle prossime righe parleremo della sua osteologia e delle principali patologie che la riguardano. Ricordiamo tuttavia, che quella che segue è libera informazione, per delle consulenze bisogna rivolgersi alle opportune figure mediche di competenza.

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    Colonna vertebrale: quello che c’è da sapere

    Questa complessa struttura osteofibrocartilaginosa è molto estesa, va dal capo al coccige. Ha una lunghezza media di 70 cm per gli uomini e di 60 cm per le donne. La colonna vertebrale consta di cinque regioni, le quali hanno un numero variabile di vertebre (ossa che costituiscono appunto la colonna), che in totale è di 33. Le regioni sono le seguenti:

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    • Regione cervicale: consta di sette vertebre (C1,2,3,4,5,6,7), le prime due, più famose, sono l’atlas (C1) e l’axis (C2). La regione cervicale regge la testa e permette al collo una grande escursione articolare.
    • Regione dorsale (o toracica): è formata da dodici vertebre (T1-12), è la regione più ampia di tutta la colonna vertebrale, inoltre, unendosi alle costole forma la cassa toracica. Questo tratto possiede una rigidità elevata per evitare movimenti, specialmente flessioni, troppo bruschi e pericolosi.
    • Regione lombare: composta da cinque vertebre (L1-5), la sua struttura è particolarmente robusta e mobile.
    • Regione sacrale: consiste in un unico osso composto dalla fusione di cinque vertebre.
    • Regione coccigea: osso formato dalla fusione di quattro-cinque vertebre.

    Alcune delle principale funzioni della colonna vertebrale sono le seguenti: supporto e protezione del sistema nervoso centrale e periferico, sostegno strutturale, stabilità e protezione degli organi interni.

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    Le vertebre sono connesse mediante un disco fibrocartilaginoso, forte ed elastico, il quale fa da ammortizzatore e permette un certo movimento. Questo disco è chiamato disco intervertebrale.

    Prima di passare alle patologie ci sono un alcune piccole cose da far notare riguardo alle innumerevoli “curvature” della colonna vertebrale.

    lordosi

    Se osservata lateralmente, saltano all’occhio le due convessità posteriori, dette cifosi e le due convessità anteriori: le lordosi. Rientrano nel primo gruppo la zona toracica e sacrale, sono invece delle lordosi la zona cervicale e quella lombare. Questa alternanza di curve, fa sì che la colonna vertebrale sia piuttosto mobile e resistente, garantendo l’equilibrio in posizione eretta. Le lordosi permettono gradi di movimento molto maggiori rispetto alle cifosi, specialmente la regione lombare, la quale ha una curvatura un po’ più marcata. Nella figura a sinistra, si può osservare come un curvatura eccessiva (iperlordosi, ipercifosi) anche di una sola regione, alteri inevitabilmente anche gli altri tratti della colonna (linea gialla). Queste curve, oltre ad influenzare postura e movimento, interferiscono nello sviluppo muscolare. Ma questo di questo ne parleremo meglio nelle prossime righe.

    Principali patologie

    Senza tirarla troppo per le lunghe, le principali patologie della colonna vertebrale sono tre: scoliosi, cifosi e lordosi.

    Scoliosi: è una deviazione della colonna vertebrale (laterale e di rotazione) che interessa sia la regione dorsale che quella lombare, anche se spesso è più evidente nella prima. Esistono più tipi di scoliosi, i quali si possono classificare nel seguente modo:

    • Scoliosi congenita, derivante da anomalie vertebrali presenti alla nascita.
    • Scoliosi idiopatica (o dell’adolescenza), non è ancora stata individuata la causa, si sa solo che è spesso ereditaria e che colpisce soprattutto il sesso femminile. A seconda dell’età in cui si manifesta può essere a sua volta sub-classificata nel seguente modo: infantile (dalla nascita fino ai 3 anni di età), giovanile (dai 4 ai 9 anni) e adolescenziale (dai 10 anni fino al termine della maturazione scheletrica) o adulta.
    • Scoliosi neuromuscolare, si sviluppa come sintomo secondario di altre patologie (paralisi cerebrale, atrofia muscolare o traumi fisici).

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    Cifosi: la normale cifosi è la curvatura fisiologica della regione dorsale. Quando però l’angolo della cifosi supera i 45° si parla di ipercifosi (figura sotto).

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    A sinistra la colonna vertebrale di una persona affetta da ipercifosi (angolo di 45°) e, a destra, una colonna con una cifosi fisiologica.

    La cifosi, se accentuata, può suddividersi nella seguente maniera:

    • Cifosi posturale, è la più diffusa ed è attribuita alle posture sbagliate assunte durante la vita quotidiana. Raramente provoca dolore o causa particolari problemi.
    • Cifosi di Scheuermann, la causa è sconosciuta, questa forma di cifosi può causare dolore, specialmente nell’apice della curva. Se non trattata correttamente, con l’attività fisica può anche peggiorare.
    • Cifosi congenita, alla nascita la colonna vertebrale presenta dei problemi strutturali e quindi, mano a mano che il bambino si sviluppa, si forma una cifosi sempre più accentuata.

    Lordosi: è la curvatura fisiologica della colonna vertebrale all’altezza della regione cervicale e lombare. Quando la lordosi tende ad appiattirsi si parla di ipolordosi, al contrario, quando la curvatura aumenta si parla di iperlordosi. Siamo davanti ad una iperlordosi quando l’angolo di curvatura è superiore ai 40-50° (una lordosi normale ha un angolo di 35°). Tra l’altro, chi ha molto a che fare con alcune discipline sportive può arrivare a soffrire proprio di quest’ultima patologia, per esempio i pesisti.

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    Abituarsi ad assumere posture errate e squilibri muscolari possono portare alle due patologie precedentemente citate (ad esempio addome e glutei deboli), specialmente nel genere femminile. Una lordosi cervicale non fisiologica modifica il centro di gravità del cranio e porta ad un sovraccarico muscolare e articolare, tutto ciò causa problemi meccanico-cervicali.

    Nella foto sopra, a sinistra una postura corretta, con delle curve assolutamente fisiologiche e a destra un soggetto affetto da ipercifosi ed iperlordosi.

    Tuttavia, anche una scarsa lordosi può portare a problematiche di vario genere. Ad esempio, una recente revisione sistematica/meta-analisi [1], molto nota in letteratura scientifica, ha messo a confronto tredici studi sui dolori alla bassa schiena e la postura, analizzando quasi 2000 pazienti (796 pazienti con dolori lombari e 927 sani). Per farla breve, i pazienti sani avevano tutti una maggior lordosi e fra quelli patologici, con la schiena più “piatta”, c’era un’elevata percentuale di soggetti affetti da ernie del disco e degenerazioni discali. Per maggiori informazioni potrebbe essere utile la lettura di quest’altro articolo.

    Influenza sullo sviluppo muscolare

    Una colonna vertebrale affetta da patologie, come è facilmente intuibile, può compromettere un buono sviluppo della muscolatura del tronco.

    Per esempio, un soggetto con una cifosi dorsale particolarmente accentuata e spalle anteposte (o chiuse) può avere difficoltà a lavorare con i pettorali e, per i movimenti di spinta, utilizzerà soprattutto i deltoidi. Oppure una persona con una zona lombare piatta (ipolordosi), avrà per forza di cose uno sviluppo dei glutei molto limitato.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Dispense Universidad de Almería (Ciencia de la actividad fisica y del deporte)
    Segina M., Pansini L. – Lordosi lombare e mal di schiena: qual è la verità? (2017)
    1 Chun S. W. et al. – The relationships between low back pain and lumbar lordosis: a systematic review and meta-analysis (2017)

  • Kettlebell Training per sport da combattimento: introduzione

    Kettlebell Training per sport da combattimento: introduzione

    Arrivati all’ultimo articolo della raccolta di pezzi sul largo impiego dei KB nel mondo sportivo/fitness, parleremo oggi di questo meraviglioso attrezzo in funzione della preparazione atletica per gli sport da combattimento.

    KB

    Cosa lo rende così adatto a questo utilizzo? Il fatto che il kettlebell-Training renda migliori un po’ in tutto, senza far raggiungere picchi esagerati di nessuna capacità organica in particolare. In poche parole: se ti alleni bene con le ghirye sarai più potente, più resistente e se adotti una giusta alimentazione anche con rapporti di % BF (Massa Grassa)/LM(Massa Magra) ottimi.

    Andiamo un attimo più affondo adesso. Come (altro…)

  • Le immersioni nell’acqua fredda sono veramente utili?

    Le immersioni nell’acqua fredda sono veramente utili?

    Non è raro vedere atleti, soprattutto sui social network, immergersi nell’acqua gelida. Ma cosa c’è dietro a tutto questo? Saldi principi fisiologici oppure le solite mode passeggere? Scopriamolo insieme!

    Quello che segue è un riassunto ed adattamento di un articolo in lingua straniera riportato su Science for Sport. Buona lettura!

    Introduzione

    Si ricorre a tecniche di recupero come quella delle immersioni in acqua fredda per minimizzare il rischio di infortunio e per evitare il sovrallenamento (overtraining).

    Gli effetti delle immersioni in acqua fredda non sono ancora del tutto chiari, si ipotizza che siano utili per il recupero muscolare e la riduzione degli stati infiammatori sia per gli atleti di sport di forza/potenza (allenamento con i sovraccarichi) che di resistenza (corsa, ciclismo). Recenti studi sostengono che il tempo ottimale di immersione (altro…)

  • Sostanze eccitanti per il dimagrimento e la performance sportiva

    Sostanze eccitanti per il dimagrimento e la performance sportiva

    Le sostanze definite eccitanti, o stimolanti, sono sostanze in grado di simulare l’azione del sistema nervoso simpatico. Questo gruppo di sostanze è assai vasto, gli stimolanti possono infatti avere effetti molto diversi fra loro, hanno in comune però la capacità di aumentare la permanenza in circolo di catecolamine, neurotrasmettitori che rivestono un importante ruolo nel controllo delle funzioni vegetative, motorie e psichiche, data la loro interazione con il sistema nervoso simpatico.

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    Le catecolamine derivano dalla  (altro…)

  • Asma ed esercizio fisico

    Asma ed esercizio fisico

    L’asma, malattia più diffusa di quel che si crede, pregiudica l’attività fisica? In che modo? Ci sono delle precauzioni che si possono prendere? Questo, e altro ancora, nelle prossime righe!

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    Cos’è l’asma, sintomi, cause, trattamento e prevenzione

    L’asma è un disturbo infiammatorio cronico dei bronchi che, per farla semplice, consiste in un restringimento delle vie aeree, rendendo difficoltosa la respirazione. E’ importante specificare che l’asma non è contagioso.

    I principali sintomi che questa malattia produce sono i seguenti: difficoltà respiratorie (o affanni), tosse, sensazione di pressione all’interno del petto e rumori insoliti durante la respirazione. I sintomi possono essere lievi oppure, all’opposto, portare addirittura alla morte.

    Le cause dei sintomi possono essere allergeniche (polline e acari), alimentari, derivanti da infezioni o da effetti indesiderati di farmaci. Ed in particolare, i fattori scatenanti sono il fumo, la polvere, lo stress, il pianto, l’aria fredda e gli sforzi fisici.

    L’asma si manifesta con maggior frequenza in due periodi dell’anno:

    1. Inizio autunno (settembre-ottobre): si manifesta un brusco cambiamento della temperatura ambientale e aumentano le infezioni respiratorie;
    2. Primavera inoltrata (maggio): aumenta la quantità di polline l’aria, il 60% degli asmatici sono allergici ad esso;

    A livello di prevenzione è consigliabile far stare gli asmatici lontani, per quanto possibile, dai principali fattori di rischio e, in particolari situazioni, assumere farmaci ma solamente su prescrizione medica.

    Una crisi asmatica, senza voler addentrarci troppo nel campo medico, va trattata con appositi broncodilatatori spray, i quali rilassano i bronchi e facilitano il passaggio dell’aria.

    Come regolarsi con l’attività fisica

    Come già accennato in precedenza, l’attività fisica può essere uno degli elementi scatenanti degli attacchi d’asma ma non per questo va eliminata. I soggetti asmatici potrebbero avere dei problemi respiratori nei minuti successivi all’allenamento, per evitarli, o quantomeno minimizzarli, si può ricorrere ad un farmaco ad azione rapida poco prima di iniziare ad allenarsi. E, quando possibile, si potrebbe optare per l’utilizzo di mascherine.

    Andando un po’ più nello specifico, durante lo svolgimento di una qualsiasi attività fisica si verifica una iniziale broncodilatazione (assolutamente fisiologica), tuttavia, dopo circa 10 minuti, nei soggetti asmatici avviene una broncocostrizione, la quale poi però va scemando nel giro di 30-90 minuti.

    Per non alterare troppo bruscamente il ritmo respiratorio e limitare il fenomeno di broncocostrizione, è importante effettuare un buon riscaldamento, prendersi delle pause di recupero fra gli esercizi più lunghe rispetto ai soggetti non asmatici ed evitare repentini cambi di temperatura ambientale.

    Inoltre, è fondamentale l’autoregolazione: non strafare se non si è particolarmente in forma o fermarsi se si iniziano ad accusare problemi respiratori anche blandi (come potrebbe essere una tosse).

    Gli sport più pericolosi per quanto riguarda l’insorgenza di crisi d’asma sono: la corsa (medie e lunghe distanze), calcio, rugby, basket ed il ciclismo. Invece, quelli un po’ meno rischiosi sono: nuoto, corsa sulle brevi distane (100-400 metri) tiro con l’arco, yoga, bocce e golf.

    A suo modo, anche la WADA (World Anti-Doping Agency) ha contribuito alla causa degli sportivi asmatici, liberalizzando numerosi farmaci broncodilatatori.

    Conclusioni

    Anche se si è asmatici l’esercizio fisico non va evitato, eliminarlo potrebbe infatti portare ad un maggior numero di svantaggi che vantaggi (basti pensare ad una ipotetica unione di asma, obesità e scarse capacità polmonari). Come in ogni cosa, va usata semplicemente la testa.

    Grazie per l’attenzione.

     

    Questo articolo rappresenta della libera informazione e non vuole in alcun modo sostituirsi al parere di un medico. Per qualsiasi tipo di problema, il sottoscritto non si assume nessuna responsabilità.


    oc
    Bibliografia

    Dott.ssa Castro de Luna – Asma y ejercicio (Dispense Universitarie di Fisiología del ejercicio, UAL, a.a. 2016/2017)

  • Progressione per i piegamenti su un braccio e le trazioni

    Progressione per i piegamenti su un braccio e le trazioni

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    Volete approcciarvi agli esercizi base del corpo libero ma non siete abbastanza forti? Questo allora potrebbe essere l’articolo che fa per voi!

    Quando diventerete sufficientemente forti nella  (altro…)

  • Acido lattico e lattato: qual è la differenza?

    Acido lattico e lattato: qual è la differenza?

    E’ capitato a qualunque sportivo di parlare o sentir parlare almeno una volta di acido lattico e magari anche di lattato. Spesso confusi, questi due non sono in realtà la stessa cosa e adesso vedremo brevemente il perché.

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    L’acido lattico è un composto chimico che viene prodotto dai muscoli durante la  degradazione anaerobica del glucosio.

    Durante sforzi muscolari di una certa intensità, superata un certa quantità di tempo (mediamente 9-12 secondi), nei muscoli interessati inizia ad accumularsi più acido lattico del dovuto: l’organismo non è più in grado di smaltirlo come dovrebbe.

    Quando l’acido lattico, dal muscolo viene spostato nel torrente ematico, prende il nome di lattato, dato che la sua struttura chimica viene modificata (perde uno ione H+).

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    Dopo sforzi fisici ripetuti, grafico qui sotto, è possibile effettuare dei prelievi di sangue dalla punta delle dita o dalle vene delle braccia per scoprire qual è la soglia del lattato.

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    Relazione tra intensità di esercizio (vel. di corsa) e accumulo di lattato. I campioni di sangue sono stati prelevati dopo che il corridore aveva corso per 5 minuti a ciuscuna delle velocità riportare sull’asse delle ascisse (LT = soglia del lattato).

    Mettendo su grafico i risultati, chiameremo soglia del lattato il punto oltre il quale l’accumulo di lattato ematico schizza alle stelle, superando di gran lunga i livelli tenuti a riposo. La LT, nelle persone sedentarie, corrisponde a circa il 55-60% del VO2max, negli atleti agonisti praticanti sport di resistenza anche 70-80%.

    Fino a un po’ di anni fa la soglia del lattato era, a detta di molti, corrispondente a 4 mmoli/L ma questa cifra, rimessa in discussione negli ultimi anni, in reltà altro non è che una media ottenuta da vecchie indagini effettuate su larga scala. Possono esserci soggetti con una LT di 3 come di 5 o 6 mmoli litro di lattato ematico.

    Quindi ricordate bene, il lattato e l’acido lattico NON sono la stessa cosa!

    Grazie per l’attenzione!


    oc
    Bibliografia

    Willmore H. J., Costill L. D. – Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport (Calzetti Mariucci, 2005)

    Cravanzola E. – Energia e sport (2016)

  • I glucocorticoidi: utilizzo nello sport ed effetti collaterali

    I glucocorticoidi: utilizzo nello sport ed effetti collaterali

    Cortisol-3D-balls.pngI glucocorticoidi sono una classe di ormoni di natura steroidea prodotti dalle ghiandole surrenali. La secrezione di glucocorticoidi è stimolata dall’ormone adrenocorticotropo (ACTH) adenoipofisario, la cui secrezione è a sua volta stimolata dall’ormone di rilascio della corticotropina (CRH) ipotalamico. Rientrano ad esempio in questa classe di ormoni il cortisolo, cotisone, corticosterone e così via. I glucocorticoidi hanno varie funzioni, dall’azione sul metabolismo dei carboidrati, alla catabolizzazione degli altri macronutrienti e al controllo delle risposte infiammatorie ed immunitarie (per questo motivo alcuni farmaci glucocorticoidi vengono definiti FAS, farmaci antinfiammatori steroidei). Questi ormoni stimolano quindi la gluconeogenesi e la lipolisi, sono considerati iperglicemizzanti ma allo stesso tempo catabolici, anche se lo stimolo alla produzione di insulina annulla, almeno parzialmente, l’effetto lipolitico.

    Tuttavia, il catabolismo non riguarda solo la massa muscolare ma anche i tessuti linfatici e connettivi, con successiva demineralizzazione delle ossa e possibili manifestazioni di osteoporosi. Livelli più o meno alti di ormoni glucocorticoidi possono modulare la produzione di altri ormoni (insulina, gh, testosterone, paratormone ecc.).

    In più, i glucocorticoidi agiscono inibendo l’attivazione di altri geni, in particolare NFkB, proteina responsabile dell’attivazione di numerosi mediatori dell’infiammazione. L’inibizione dell’attività della fosfolipasi A2 comporta una diminuzione della produzione di prostaglandine e di leucotrieni, fattori determinanti l’instaurazione di un processo infiammatorio.

    Tuttora rappresentano circa il 5% dei casi di positività ai test antidoping. L’uso dei glucocorticoidi normalmente è vietato, eccetto per specifiche cure mediche.

    Attualmente, per lo sport, vengono assunti col fine di aumentare le disponibilità energetiche, ritardare l’insorgenza dell’affaticamento muscolare e combattere le infiammazioni, alleviando quindi il dolore in caso di infortunio. Anche se non si vuole fare di tutta l’erba un fascio, è opportuno constatare che ci sia un abuso di questi farmaci negli sport di endurance, specialmente nel ciclismo.

    A seconda della durata della loro azione possono dividersi in tre categorie:

    • glucocorticoidi a breve durata d’azione (es. cortisone e idrocortisone)
    • glucocorticoidi a intermedia durata d’azione (es. prednisone, prednisolone, parametasone)
    • glucocorticoidi a lunga durata d’azione (es. desametasone, betametasone ecc.)

    Gli effetti collaterali, soprattutto se si esagera con le dosi sono molteplici, insieme a quelli già accennati i principali sono:

    • infiammazioni allo stomaco
    • osteoporosi ed osteonecrosi
    • diabete mellito
    • ridotta sintesi collagene
    • insonnia
    • stanchezza
    • ritenzione idrica e aumento di peso
    • rallentamento metabolico
    • ridotta produzione di androgeni
    • scarsa cicatrizzazione delle ferite.
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    Il lottatore Evangelista Santos dopo aver ricevuto una ginocchiata saltata. La frattura cranica, molto probabilmente, è stata facilitata dall’osteoporosi derivante dall’abuso di glucocorticoidi.

    Modificando però la struttura molecolare del cortisolo è possibile ottenere farmaci maggiormente efficaci, con un minor numero di effetti collaterali e più difficilmente rintracciabili dai test antidoping (viene cambiata l’affinità con i recettori glucocorticoidi e mineracorticoidi).

    Questo articolo é a scopo puramente divulgativo, quanto riportato sopra é da considerarsi libera informazione e non vuole invitare in alcun modo le persone ad assumere sostanze che ricordo essere dannose e illegali.


    oc
    Bibliografia

    Sacchi N. – Doping e farmaci nello sport (Nonsolofitness, 2014)
    Glucocorticoide – Wikipedia
    Cravanzola E. – Energia e sport (2016)