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  • Guida all’allenamento dei muscoli pettorali

    Guida all’allenamento dei muscoli pettorali

    Benché non occorra essere per forza dei geni in anatomia per allenarsi correttamente, è indubbiamente utile avere nel proprio bagaglio teorico un po’ di nozioni riguardanti almeno i gruppi muscolari più grandi. Buona lettura!

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    Cenni anatomici sui muscoli pettorali

    I muscoli del petto possiamo suddividerli in grande pettorale e piccolo pettorale. L’inserzione del gran pettorale è a livello della cresta e della grande tuberosità dell’omero. Agisce a livello della articolazione scapolo omerale generando abduzione e rotazione della articolazione;  è inoltre capace di sollevare il tronco in una azione inspiratoria accessoria.

    A sua volta, il gran pettorale è diviso in tre capi:

    • Clavicolare: si origina dal margine anteriore della clavicola
    • Sterno-costale: che origina dalla faccia anteriore dello sterno e  dalle cartilagini costali (dalla seconda a sesta)
    • Addominale: che  origina  dalla  parte  superiore  della  lamina  anteriore.

    Questi tre capi si uniscono in un’unica inserzione omero, sulla cresta del tubercolo maggiore.

    Il piccolo pettorale invece, si origina con tre fasci distinti sulla terza, quarta e quinta costola, si inserisce a livello del processo coracoideo della scapola (si tratta di un’altra struttura scapolare mediale all’acromion). La sua funzione principale è quella di abbassare la spalla e sollevare le coste, si tratta pertanto di un muscolo inspiratorio.

    Un po’ di muscoli della parte alta del corpo

    Quando andiamo a sforzare il petto in un qualsiasi esercizio, inevitabilmente interverranno anche il capo anteriore del deltoide, il tricipite, il gran dentato ed il subclavio.
    Quando tutto questo insieme di muscoli lavora, inevitabilmente agisce su due grandi strutture articolari: il cinto scapolare (scapola e clavicola) e l’omero.

    Biomeccanica di base

    In letteratura scientifica è ormai assodato che il gran pettorale abbia all’incirca 42% di fibre muscolari rosse (tipo I) ed il 58% di fibre bianche (tipo II) [1]. La sua funzione principale è quella di addurre e abdurre l’omero, abbassarlo, fletterlo orizzontalmente, intraruotarlo, collocarlo in una posizione di anteposizione e realizzare una flessione sagittale dell’omero.

    Illustrazione di alcune delle funzioni del gran pettorale: a = anteposizione dell’omero; b = abbassamento; c = adduzione e abduzione; d = adduzione sul piano sagittale; e = anteposizione (fino a circa 60°); f = intrarotazione; g = flessione orizzontale.

    Il piccolo pettorale invece, ha una diversa distribuzione di fibre muscolari: 51% rosse (I) e 49% rapide (II). Le sue funzioni sono in primo luogo il far eseguire delle flessioni orizzontali dell’omero, mettere sempre quest’ultimo in anteposizione, abbassarlo ed estendere le scapole.

    Illustrazione di alcune funzioni del piccolo pettorale: a = abbassamento dell’omero; b = anteposizione.

    Il deltoide anteriore ha indicativamente un 60% circa di fibre rosse (I) e un 40% di fibre bianche (II). Le sue funzioni più importanti sono quelle di flettere orizzontalmente l’omero e di extraruotarlo.

    Il tricipite ha all’incirca il 60% di fibre rosse (I) ed il 40% di fibre bianche (II). Presenta tre capi (lungo, laterale e mediale) ed esercita la sua azione sull’articolazione scapolo-omerale, adducendo ed estendendo l’omero, e l’articolazione del gomito, estendendo l’avambraccio sul braccio.

    Il gran dentato ha un grosso predominio di fibre rosse (I), come funzioni base garantisce una flessione orizzontale dell’omero, una sua flessione sagittale, una abduzione scapolare e una rotazione esterna delle scapole.

    Il succlavio, come il gran dentato, è composto per lo più da fibre rosse (I) e la sua funzione di maggior importanza è quella di abbassare la clavicola.

    Tutte queste nozioni ci serviranno ora per andare ad analizzare i principali esercizi per il petto e per valutare quali possono essere i migliori e perchè.

    Breve analisi degli esercizi

    Dopo aver osservato le funzioni dei muscoli sui vari piani di movimento, possiamo arrivare a capire che per far lavorare al meglio i pettorali, dobbiamo muovere dei carichi con movimenti di spinta (es. distensioni su panca) e di apertura (es. croci).

    Distensioni su panca piana: quando andiamo a eseguire delle distensioni su panca piana, i muscoli che intervengono sono principalmente il grande e piccolo pettorale, il capo anteriore del deltoide ed i tricipiti anche se a voler essere pignoli, i muscoli coinvolti in questo esercizio sono infinitamente di più, la mia è una semplificazione. Nell’esecuzione della panca, l’alternarsi di fase concentrica ed eccentrica, fa addurre ed abdurre il petto. Inoltre la distensione delle braccia garantisce un marcato lavoro del tricipite.

    Nella panca piana con bilanciere una presa molto larga diminuisce il range di movimento complessivo, il gomito scende poco sotto la testa dell’omero (scarsa adduzione-abduzione del pettorale) e i tricipiti lavorano meno (ridotto piegamento delle braccia). Viceversa, una presa più stretta aumenta il lavoro dei pettorali (maggior adduzione-abduzione) e coinvolge maggiormente i tricipiti (aumenta il piegamento delle braccia). Pertanto non esiste un soluzione al problema dei tricipiti “rubano” il lavoro al petto, poiché i muscoli lavoreranno molto in entrami i casi.
    Indipendentemente dalla larghezza della presa, l’esecuzione con bilanciere avrà sempre e comunque un rom (range di movimento) ridotto rispetto a quella con manubri (foto sotto). Inoltre, l’instabilità data dai manubri può aiutare le persone nella propriocezione muscolare, fattore fondamentale per un’ottimale crescita.  Di contro però, con il bilanciere, nel tempo, sarà più facile aumentare il sovraccarico (anche se questo è un concetto più per atleti avanzati).

    Immagine presa da qui

    Prima di passare al prossimo esercizio, è bene ricordare un’ultima cosa sulla panca piana: questo, più di altri, non è un esercizio per tutti.

    Un soggetto con leve favorevoli (cassa toracica grande, angolo fra sterno e testa omero ampio e linea di trazione del pettorale quasi verticale) riuscirà a sviluppare più forza e ad ottenere una risposta ipertrofica maggiore rispetto a soggetti più gracili e longilinei (illustrazione sotto).

    Distensioni su panca inclinata: negli anni se ne sono dette di tutti i colori su di essa, ma attualmente grazie a dei progressi nella letteratura scientifica [2,3], si è scoperto un discreto vantaggio nell’utilizzo di questo esercizio, rispetto alle classiche distensioni in piano, almeno quanto riguarda il reclutamento dei fasci clavicolari (la banale “parte alta” del petto).

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    Grafico di Paolo Evangelista

    Come mostrato nel grafico riportato sopra, i vantaggi ci sono unicamente dai 45° in su, inclinazioni minori della panca stimolano troppo poco questi fasci muscolari.

    Distensioni su panca declinata: ottimo esercizio per reclutare tutte le fibre dei muscoli pettorali, è l’esercizio in cui generalmente si carica di più, garantisce quindi un’elevata tensione meccanica nei nostri allenamenti (fattore chiave dell’ipertrofia muscolare).

    Dips alle parallele: i dips, o distensioni alla parallele, non si è mai capito se siano più utili allo sviluppo dei pettorali o dei tricipiti. Osservando le nozioni fornite nel precedente paragrafo, possiamo intuire il coinvolgimento del tricipite a causa dell’estensione dell’avambraccio sul braccio (anche se in questo caso sarebbe più appropriato parlare di distensione, dato che le mani si trovano in appoggio su una sbarra). Riguardo al petto invece, il gran pettorale interviene anche’esso nella fase concentrica, essendo un flessore del braccio (con i fasci superiori o clavicolari).

    Esistono in realtà due versioni di questo stesso esercizio: le distensioni classiche, con presa stretta e busto piuttosto verticale e le chest dips, con la presa un po’ più larga ed il busto più inclinato in avanti (a voler quasi simulare una panca declinata). In linea del tutto teorica, quelle classiche stimolano soprattutto i fasci clavicolari del gran pettorale, perchè impongono una flessione della spalla da posizione iperestesa. Le chest dips invece, fanno lavorare i fasci inferiori del gran pettorale a causa del movimento di adduzione della spalla.

    A voler essere puntigliosi, un vecchio studio tedesco [4] dimostra come scendere oltre l’angolo di 90° nelle dips normali, testa dell’omero che va sotto il gomito, faccia calare l’attivazione del tricipite in maniera abbastanza significativa (-12%), nelle distensioni con presa più larga invece, le chest dips, il calo è molto minore (-3%).

    Va infine sottolineato che il materiale scientifico per valutare l’attività elettriomiografica (EMG) dei pettorali nelle distensioni alla parallele è veramente pochissimo. Abbiamo a disposizione un solo studio più o meno attendibile [5], il quale ha evidenziato una marcata attivazione dei fasci inferiori ma purtroppo non specifica nè l’ampiezza della presa, nè l’inclinazione del busto. Va infine aggiunto che le analisi tramite EMG hanno dei palesi limiti.

    Croci e aperture ai cavi: sono dei validi esercizi perchè consistono in delle flessioni orizzontali dell’omero. Ripassando quanto detto a inizio articolo, si capisce l’utilità di questi esercizi nell’andare a colpire muscoli come il grande pettorale, piccolo pettorale e deltoide anteriore. Non permettono di caricare molto peso, quindi non vengono scelti come esercizio principale per il petto e con essi si opta per ripetizioni medio-alte. Inoltre, nell’esecuzione con manubri, l’andare ad intraruotare l’omero una volta giunti verso la fine della fase concentrica può essere uno stimolo in più per il muscolo target (gran pettorale). Al contrario, un extrarotazione aumenterebbe solo lo stress al capo anteriore del deltoide.

    Nelle croci con manubri, la massima tensione è data dalla forza di gravità, infatti quando l’omero è parallelo al suolo (figura sotto), quindi all’inizio della contrazione concentrica, la tensione è massima. Mentre è prossima allo zero, se i due manubri si trovano in alto, vicini, perpendicolari al suolo (al termine della fase concentrica).

    Discorso invece diverso se si opta per la variante ai cavi (fig. sotto), in essa c’è una resistenza data dai cavi “che tirano”, la quale garantirà un coinvolgimento del gran pettorale anche al termine della fase concentrica. Per evitare “pause” durante la contrazione, potrebbe essere sensato preferire le croci ai cavi a quelle con i classici manubri, oppure utilizzare sempre i manubri ma effettuare delle ripetizioni parziali (ROM incompleto).

    Cattura

    Illustrazioni degli esercizi prese da “Bodybuilding Anatomy” di Nick Evans.

    Considerazioni finali

    Dopo tutta questa pappardella risulta chiaro come il voler isolare singole parti del petto, sogno di molti palestrati, sia pura fantascienza e che, a seconda di leve e di altre caratteristiche ereditate geneticamente, certi esercizi non siano ottimali per tutti. L’allenamento va programmato, periodizzato e deve essere necessariamente individualizzato, anche se esistono delle “regole” anatomiche e fisiologiche comuni un po’ a tutti, le quali devono essere rispettate.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Referenze

    Kapandji I. A. – Fisiologia articolare (Monduzzi; 7a ediz., 2007)
    Beraldo S. – Allenamento muscoli pettorali (2016)
    Nick Evans – Bodybuilding Anatomy (Calzetti Mariucci, 2008)
    1 Bosco C. – La forza muscolare. Aspetti fisiologici ed applicazioni pratiche (Società Stampa Sportiva; 2a ediz., 2002)
    2 Trebs et al. – An electromyography analysis of 3 muscles surrounding the shoulder joint during the performance of chest press at several angles (2010)
    3 Luczak et al. – Shoulder muscle activation of novice and resistance trained women during variations of dumbbell press exercise (2013)
    4 Boeckh-Behrens W. et al. – Fitness-Krafttraining:die besten Übungen und Methoden für Sport und Gesundheit (2000)
    5 Contreras B. – Inside the Muscles: Best Chest and Triceps Exercises (2010)

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    Anche nello strength and conditioning, o preparazione atletica, entrambi gli esercizi sono parecchio usati. Sia per lavori di forza massimale e resistente (contrazioni muscolari non particolarmente rapide) che per esercitazioni esplosive (tempo di contrazione piuttosto breve). In questo articolo ci soffermeremo proprio sulla preparazione atletica, confrontando questi due grandi esercizi, mettendo sul tavolo un recentissimo studio [1] che ha osservato differenti influenze sui salti, derivanti dall’allenamento dello squat e della leg press.

    Dettagli dello studio

    Gruppi di studio: dopo dei test iniziali atti a stimare i loro carichi massimali (1RM), le cavie sono state inserite in maniera del tutto casuale in tre distinti gruppi. Un gruppo di soggetti che si allenava solo con lo squat (SQ), un gruppo che si allenava solamente con la leg press (LP) e un gruppo che svolgeva un allenamento misto, alternando lo squat alla pressa (SQ-LP).

    Numero partecipanti: 26

    Sesso: tutti maschi

    Età media: 22

    Altezza media: 175,4 cm

    Massa corporea media: 80.7 kg

    Altre caratteristiche dei soggetti: tutti privi di problemi di natura muscoloscheletrica, tutti assolutamente “natural” (nessuno era sotto steroidi o altre sostanze illecite) e nei 6 mesi antecedenti a questo studio nessun partecipante aveva seguito protocolli di allenamento con i sovraccarichi.

    Durata dello studio: 10 settimane

    Programma di allenamento: un semplice ma efficace 6×8-12*,  con un recupero fra le serie di 90-120 secondi. Tutto ciò è stato eseguito per due sedute settimanali

    È bene sottolineare che il volume di allenamento totale di ogni singolo gruppo era praticamente il medesimo.

    *serie x ripetizioni

    Risultati

    Tralasciando le modifiche ottenute sulla composizione corporea che, almeno in questo articolo, non ci interessa trattare, e che dipendono molto anche dal regime alimentare seguito.

    Si sono visti dei concreti miglioramenti nei tempi di contrazione muscolare e nell’altezza raggiunta nel salto verso l’alto (vertical jump) soprattutto nel gruppo che eseguiva lo squat (SQ), seguito poi dal gruppo combinato (SQ-LP) e da quello della pressa (LP).

    Da sinistra a destra: le prime tre colonne riguardano il gruppo che ha allenato solamente lo squat (SQ), quelle centrali il gruppo misto (SQ-LP) e le ultime tre a destra il gruppo della pressa (LP).
    Conclusioni

    Senza voler tirarla troppo per le lunghe, dato che i risultati sono sotto gli occhi di tutti, il maggior transfert ottenuto tramite lo squat è probabilmente collegabile al maggior rom (range di movimento) rispetto alla leg press (più lavoro muscolare) ed al maggior impegno neuromuscolare nello squattare. Inoltre, la quasi totale esclusione dei muscoli stabilizzatori nella leg press, non coinvolti negli esercizi guidati alle macchine, rende l’esercizio probabilmente troppo dissimile dai salti verticali, diminuendone il transfert effettivo. Ciò tuttavia non toglie che anche la pressa porti a dei miglioramenti prestativi sui salti verticali. Ergo, benché uno schema motorio come quello dell’accosciata eseguito a pesi liberi sia preferibile, questo non vieta di utilizzare, in certi casi, la pressa e/o di alternare i due esercizi.

    Grazie per l’attenzione.


    oc
    Bibliografia

    Cravanzola E. – La forza in palestra e nello sport: consigli ed errori da evitare (2016)
    1 Rossi F., Schoenfeld B. et al. – Strength, body composition, and functional outcomes in the squat versus leg press exercise (2016)

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