«Lo sport dà alla vita un maggiore equilibrio psicofisico e l’arricchisce di serenità e coraggio», Gabriella Dorio.
Introduzione
Quello del benessere psichico non è un argomento semplice da trattare, ha molteplici aspetti ed un’infinità di concause, sia in senso negativo che positivo. Dai rapporti sociali del singolo individuo, all’ambiente in cui questo cresce (e che in qualche modo lo plasma), dai fattori genetici al condizionamento delle sue scelte derivante appunto dall’ambiente che lo circonda.
Come da titolo, quanto segue ha come obiettivo quello di sviscerare il complicato rapporto tra l’attività fisica e la salute psichica, parlando di ormoni, studi scientifici ma anche di psicologia.
Concetti chiave
Benefici sociali, contrasto di comportamenti “rischiosi” e miglioramento della qualità della vita.
Se fossimo molto sintetici, potremmo riassumere tutto il contenuto di questo articolo con la precedente riga. Perché sì, è a quanto scritto lì che può portare lo sport, o più in generale l’esercizio fisico. Infatti, esso è in grado di spingere le persone di ogni estrazione sociale ad integrarsi, scampando all’isolamento sociale ed evitando di cadere in brutti vizi, quali il consumo (o abuso) di alcolici, fumo e droghe di vario genere, con tutto ciò che ne consegue per la salute. Per esempio fumo e sedentarietà sono fra le principali cause di decessi nel mondo (la seconda, in base alle fonti, oscilla fra il secondo e quarto posto per numero globale di decessi).
Impegnare il proprio tempo libero, coltivare una passione e magari darsi un vero e proprio obiettivo sportivo, indipendentemente dalla fattibilità di quest’ultimo, può fornire alle persone una certa serenità. Ha parlato bene di ciò lo psicologo statunitense Jonathan Haidt nel bellissimo libro “Felicità: un’ipotesi” (The Happiness Hypothesis) ma l’ha fatto ancora meglio Fëdor Dostoevsky in “Memorie dal sottosuolo“. Egli affermava infatti ciò che segue: «Le rispettabilissime formiche cominciano dal formicaio e finiscono sicuramente con il formicaio. E questo fa un grande onore alla loro costanza e positività. Ma l’uomo, essere leggero e deplorevole, e forse simile al giocatore di scacchi, ama solo il perseguimento dello scopo, non lo scopo».
Quello che molti indicano come “scopo” è inoltre il quinto dei sei fattori individuati dalla psicologa e ricercatrice Carol D. Ryff nella sua “Psychological Well-Being Scales” (fig. sotto) per valutare il benessere psichico di una persona [1].
«Chi ha passioni, lavori, progetti, percorsi, che lo portano a prefiggersi un obiettivo X ed avvicinarcisi progressivamente è felice, soddisfatto, appagato e il tutto si riflette a 360° in tutti gli aspetti della vita. Viceversa, scarse o assenti relazioni sociali, la sensazione di non aver nessuno che tenga te, non avere nessuno a cui si tiene, lo stallo e l’assenza di cambiamento e progresso, la mancanza di obiettivi, mancanza di prospettiva di crescita, vedere le proprie aspettative incompiute… sono tra le cose più correlate (oltre ovviamente ai fattori genetici fondamentali) alla depressione, la scarsa autostima, l’infelicità» (Domenico Aversano).
Tornando a noi, salvo rari casi, il movimento è sinonimo di maggior qualità della vita, grazie ad uno spiccato benessere psichico e fisico che è in grado di dare a chi ne fa uso. Non a caso l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce la salute come «uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto l’assenza di malattia di infermità».
Cenni di fisiologia
Gli effetti fisiologici derivanti dall’esercizio fisico che garantiscono un certo benessere sono i più disparati. Citandone alcuni: aumento del flusso ematico cerebrale, rilascio di endorfine (responsabili della nostra felicità, insieme all’ossitocina, dopamina e serotonina) e variazioni dei neurotrasmettitori mono-amminici [2]. Senza contare che un miglioramento estetico (meno massa grassa e più massa magra), unito a quello delle prestazioni fisiche, può influire significativamente sull’autostima.
Le endorfine vengono rilasciate anche quando ci nutriamo e quando amiamo (fig. sotto).
Jonathan Haidt – The Happiness Hypothesis: Finding Modern Truth in Ancient Wisdom (2006)
Nel grafico riportato sopra, il tratto di linea compreso fra quelli indicati come punti di pericolo (danger points) corrisponde al repentino calo della dopamina a cui si va incontro dopo alcune settimane di quello che alcuni psicologi definiscono “amore appassionato”. Spesso, in concomitanza con questo abbassamento, la relazione fra due persone termina, dato il calo di interesse reciproco. Senza dilungarci troppo, il cervello vede come una minaccia per l’omeostasi questi elevatissimi livelli di dopamina (quasi fosse una droga), pertanto ne inibisce la produzione. Di conseguenza, vi è una tangibile variazione dell’umore e del benessere psichico.
Tornando a noi, come asserivano già più di 20 anni fa alcuni ricercatori, l’esercizio fisico sufficientemente intenso e duraturo è in grado di aumentare i livelli circolanti di β-endorfine [3], un particolare tipo di endorfine che rientra, assieme a quelle alfa, gamma e delta, nel raggruppamento delle endorfine ipofisarie, in quanto prodotte dall’adenoipofisi, cioè dalla parte anteriore dell’ipofisi (ghiandola già ampiamente descritta qui).
«Una revisione completa della relazione tra esercizio e umore ha concluso che gli effetti antidepressivi e ansiolitici sono stati chiaramente dimostrati» [4,5].
Effetti di 20 minuti di esercizio fisico nei ratti; DA = Dopamina, NA = Noradrenalina, 5-HT = serotonina (Meeusen R. et al., 1994) [6].
Per certi corridori, l’attività fisica può avere essere paragonata a una dipendenza da sostanze stupefacenti (come evidenziato qui).
Ansia, emozioni, autostima e depressione
Diversi studi mostrano effetti positivi dell’esercizio fisico su ansia, emozioni, umore, percezione di sé ed autostima, anche sugli adolescenti [7,8].
Tuttavia, i livelli sinaptici di dopamina non sembrano cambiare significativamente dopo alcuni minuti di corsa lenta (8,7 km/h) [9] e qui torniamo al discorso del precedente paragrafo, dove abbiamo sottolineato l’importanza di un allenamento duraturo ma soprattutto di buon intensità. Dunn A. L. e colleghi nel 2005 sono riusciti a dimostrare una notevole riduzione dei sintomi depressivi (depressioni definite di gravità lieve e moderata) su persone che regolarmente praticavano attività fisica. Allo stesso tempo, le cavie che nello studio in questione si erano allenate di meno non avevano avuto dei significativi benefici psicofisici. Anzi, la loro situazione clinica era rimasta simile a quella del gruppo placebo, quindi a coloro che non avevano ricevuto delle vere cure [10].
I tre fattori primari che influenzano i livelli cronici di felicità (Lyubomirsky S. et al., 2005)
Il movimento, per quanto salutare, non si è comunque dimostrato più efficace delle classiche terapie farmacologiche e psicologiche [11].
Risposte neurofisiologiche a vari protocolli di allenamento (Basso J. C. et al., 2017), la tabella dà un’idea della vastità e complessità dell’argomento.
Infine, una recente meta-analisi pubblicata sul JAMA Psychiatry ha analizzato i dati provenienti da 33 trial clinici (un totale di quasi 2000 pazienti), constatando come l’allenamento coi pesi (resistance training) abbia una buona efficacia nel ridurre i sintomi depressivi tra le persone adulte [12].
Conclusioni
Come già accennato, l’allenamento non è da intendere come una terapia sostitutiva per curare ogni tipo di patologia che ha a che fare con la psiche, specie se si tratta di depressione, ma come un valido alleato nella lotta quotidiana ai mostri che abbiamo in testa.
Oltre che sulla riduzione dei sintomi bisognerebbe focalizzarsi su quella che è la causa che genera il malessere. Ma per questo genere di cose è meglio rivolgersi ad una figura medica, non di certo sperare di trovare in un semplice articolo divulgativo la panacea di tutti mali.
Grazie per l’attenzione!
Le informazioni ivi contenute sono puramente a scopo divulgativo. Quanto riportato nell’articolo non intende in alcun modo sostituirsi al parere di un medico. L’articolista non si prende alcuna responsabilità, qualunque cosa accada.
[1] Ryff D. C. – Psychological Well-Being in Adult Life (1995)
[2] Meeusen R. et al. – Exercise and brain neurotransmission (1995)
[3] Goldfarb A. H. et al. – β-Endorphin Response to Exercise (1997)
[4] Young N. S. – How to increase serotonin in the human brain without drugs (2007)
[5] Salmon P. – Effects of physical exercise on anxiety, depression, and sensitivity to stress: a unifying theory (2001)
[6] Meeusen R. et al. – The effects of exercise on neurotransmission in rat striatum, a microdialysis study (1994)
[7] Wipfli B. M. et al. – The anxiolytic effects of exercise: a meta-analysis of randomized trials and dose-responseanalysis (2008)
[8] Calfas K. J. et al. – Effects of Physical Activity on Psychological Variables in Adolescents (1994)
[9] Wang G. J. et al. – PET studies of the effects of aerobic exercise on human striatal dopamine release (2000)
[10] Dunn A. L. et al. – Exercise treatment for depression: efficacy and dose response (2005)
[11] Cooney G. M. et al. – Exercise for depression (2013)
[12] Gordo B. R. et al. – Association of Efficacy of Resistance Exercise Training With Depressive Symptoms: Meta-analysis and Meta-regression Analysis of Randomized Clinical Trials (2017)
Il cervello umano è una macchina tanto affascinante quanto complessa. Da secoli infatti attira l’interesse di medici, scienziati, filosofi, psicologi e via discorrendo. Proprio a causa di questa sua complessità attualmente non conosciamo bene tutti i meccanismi che permettono a questa incredibile macchina di funzionare.
Appunti e disegni di Leonardo Da Vinci
Anatomia
Il cervello, posizionato nella scatola cranica, ha un peso che si aggira intorno al chilogrammo e mezzo (1,5) ed ha un volume di circa 1100-1300 centimetri cubici (ovviamente con l’età questi numeri possono lentamente cambiare).
Ogni atlante di anatomia che si rispetti cita prima di tutti l’encefalo, ovvero l’insieme del cervello, cervelletto e midollo allungato. A differenza di quello che credono alcuni, va infatti specificato che encefalo e cervello non sono la stessa cosa.
Per il resto, la struttura anatomica del cervello dell’Homo Sapiens è la seguente:
Due macro-aree: telencefalo e diencefalo;
Sei lobi del telencefalo: lobo frontale, parietale, occipitale, temporale, limbico e dell’insulina;
Altri piccoli segmenti anatomici contenuti dal diencefalo: talamo, epitalamo, metatalamo, ipotalamo, subtalamo.
La sostanza grigia che tipicamente dà colore ai cervelli non vivi, altro non è che corteccia cerebrale, la parte rugosa ed più esterna del telencefalo, ricca di neuroni, cellule della glia e fibre nervose (senza mielina). Essa, da sola, rappresenta circa il 90% del peso complessivo del cervello. Com’è ben noto, questa corteccia è di fondamentale importanza perché ha a che fare con il linguaggio, le capacità di pensiero, la memoria, la coscienza e l’attenzione.
Come mostrato nell’immagine riportata sopra, la struttura del cervello è incredibilmente articolata, non facile da spiegare. Per questo motivo adesso andremo a vedere alcune delle caratteristiche più interessanti di esso, senza tuttavia descrivere troppo nel dettaglio ogni singolo componente di questa maestosa macchina. Per ulteriori approfondimenti vi rimandiamo ai testi consigliati al fondo dell’articolo.
Predizione
Il nostro cervello, anche in situazioni di completa calma e tranquillità, è costantemente impegnato a cercare di predire il futuro. Non a caso Stephen Hawking definiva l’intelligenza come «la capacità del cervello di predire il futuro attraverso analogie con il passato». E proprio dalla predizione pare dipendano pensieri, emozioni, percezioni, ricordi e altro ancora.
In pratica, è come se il cervello cercasse di intuire in anticipo cosa accadrà in un futuro più o meno prossimo in modo da farsi trovare pronto ad ogni imprevisto. Ciò è probabilmente legato a ragioni evolutive, alla sopravvivenza della specie umana. Quando noi camminiamo il cervello predice a ogni passo quando il piede raggiungerà il suolo. Privati di questo meccanismo di predizione, probabilmente non saremmo neanche in grado di camminare per pochi metri senza cadere, in special modo se la superficie a cui il nostro piede va in contro è irregolare.
Memoria
La memoria, come altre caratteristiche del cervello ha avuto una grande importanza durante il processo evolutivo dei Sapiens. Tramite essa infatti abbiamo tramandato linguaggi, usanze, racconti, tratti culturali e informazioni necessarie per sopravvivere. Nei millenni si è infatti distinta come meccanismo della paura (“Meglio non addentrarsi in quella foresta, ci sono dei pericoli“), come elemento sociale (gerarchie familiari, alberi genealogici), motorio e soggettivo (la personalità).
Esistono principalmente due tipologie di memoria, quella a breve termine e quella a lungo termine. La prima dura poco, una manciata di secondi. L’altra rappresenta praticamente tutto quello che sappiamo: lingue, volti, nomi, luoghi, nozioni, ideologie, numeri, e così via.
I ricordi tendono ad imprimersi bene nella nostra memoria quando da parte nostra c’è una certa attenzione (parleremo meglio di ciò fra qualche paragrafo), meglio ancora se li associamo a qualche avvenimento.
Ad esempio quanti bambini e ragazzini ricordano dell’interruzione di una puntata della Melevisione durante l’attentato dell’11 settembre 2001?
Ma come funziona l’accesso ai ricordi? «Il fenomeno del recupero permette di andare a riprendere le informazioni immagazzinate nelle memorie permanenti. Il recupero è una modalità attiva e volontaria che talvolta richiede notevole sforzo. Il riconoscimento è il più delle volte un meccanismo passivo. Anche la semplice evocazione di una parola può attivare l’intero orizzonte a cui appartiene o facilitarne il riconoscimento e il recupero. Nel complesso le memorie permanenti funzionano per associazioni, che sono il meccanismo principale dei processi mnemonici» [1]. Le aree deputate al recupero dei ricordi sono quelle del lobo temporale, lobo occipitale e sistema limbico (insieme di strutture cerebrali collegate al lobo limbico).
Terry Sejnowski, professore del Salk Institute in California, facendo un raffronto con la matematica binaria dei computer, stima che la memoria totale del nostro cervello sia indicativamente di un milione di gigabyte (1 Petabyte). Non è da escludere che la nostra memoria totale possa anche essere superiore, dato che tramite meccanismi associativi è possibile salvare una quantità esorbitante di dati.
Acquisire ed elaborare nuove informazioni, nuove sensazioni, è tra l’altro un ottimo modo per contrastare l’invecchiamento neuronale.
Plasticità
La plasticità è la capacità (innata) del cervello di modificare la sua struttura nel tempo. Le esperienze sensoriali cambiano fisicamente questa struttura, ciò è possibile tramite l’azione dei neuroni, grazie agli assoni, ai dendriti ed alle spine di questi ultimi.
In questa rappresentazione di neurone motorio possiamo osservare bene i dendriti e l’assone.
Quando affrontiamo seriamente un dibattito, guardiamo un documentario, leggiamo un libro o ragioniamo su un film appena visto al cinema, il nostro cervello subisce delle modificazioni, che sono appunto modificazioni strutturali. Parliamo ovviamente di cambiamenti minimi, quasi impercettibili, visibili unicamente con sofisticati microscopi.
Recenti studi suggeriscono che siano gli astrociti, particolari proteine della neuroglia, a garantire al cervello una buona plasticità (e non solo) [14,15].
Questi mutamenti, per quanto lievi, ci accompagnano per tutto il corso della vita.
Intelligenza
Se volessimo parlare come si deve dell’intelligenza, cosa sicuramente non facile, potremmo definirla come l’insieme dell’apprendimento e comprensione, della consapevolezza di sé, della creatività e della capacità di adattarsi e cavarsela anche nelle situazioni più avverse e intricate.
Howard Gardner, psicologo di fama mondiale, distingue ben 9 tipi di intelligenza: intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, musicale, interpersonale, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale. Esse sono allenabili e se non utilizzate, col passare del tempo, anche nei soggetti più fortunati possono decadere.
Il famigerato quoziente intellettivo (QI) non è un parametro attendibile per valutare l’intelletto di un soggetto, dato che si riferisce principalmente all’intelligenza logico-matematica, quindi teoricamente solo a 1/9 dell’intelligenza di un essere umano. A riprova di quanto affermato prima circa l’allenabilità della mente, l’attuale popolazione terrestre è mediamente più abile nelle questioni di natura logico-matematica rispetto a quella dell’inizio del ventesimo secolo, lo testimoniano i differenti valori del QI osservati di generazione in generazione (Alfred Binet sperimentò per primo il test nel 1904). Questo innalzamento del QI è detto effetto Flynn, dal nome del suo scopritore. Tuttavia, è bene specificare che riguardo a questo effetto ci sono alcune controversie [5].
L’uomo, specialmente da bambino, va a inconsapevolmente a lavorare sulle proprie capacità intellettive. Lo fa per esempio quando sta in mezzo agli altri bambini all’asilo, alla scuola primaria, relazionandosi con gli adulti, giocando, studiando, maneggiando dispositivi tecnologici.
Come alcuni già sapranno, l’intelligenza è anche una questione genetica. Ebbene sì, la natura spesso è ingiusta, infatti in base alla presenza o meno di alcuni determinati geni ci sono persone più portate ad essere intelligenti ed altre meno. La ricerca scientifica ha già individuato più di mille geni – per la precisione 1016 – coinvolti nello sviluppo dell’intelligenza [2]. Volendo volgarizzare il tutto, si è visto come con i “geni giusti” sia più facile avere una marcata intelligenza e un organismo in grado di contrastare efficacemente l’insorgere di patologie quali l’Alzheimer, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Di contro, sono 599 i geni identificati che stanno dietro alla stabilità emotiva e alcune varianti di questi geni espongono a una elevata propensione alla depressione e schizofrenia [3].
Attualmente si stima che lo sviluppo delle capacità intellettive dipenda per il 53% da questioni legate alla genetica individuale [4].
La notizia per qualcuno potrebbe essere una doccia fredda ma girarsi dall’altra parte non avrebbe senso. La natura umana è questa, non bisogna gioire o disperarsi ma solo accettare i fatti.
Sensi
Voi tutti conoscerete i sensi, no? I soliti cinque: vista, gusto, tatto, udito e olfatto. Sapete anche che non è del tutto corretto limitarsi a citare solamente questi cinque?
Esistono infatti anche altri sensi un po’ meno noti, il cui funzionamento è garantito da specifici organi che mandano segnali al cervello. Per esempio siamo dotati di propriocezione, ovvero la capacità di percepire e riconoscere i segmenti corporei nello spazio, la nocicezione (senso del dolore), la percezione delle sensazioni termiche (termocezione), eccetera.
In quanto ad efficienza dei sensi l’uomo non primeggia in natura. Esistono infatti molti animali in grado di cogliere suoni a frequenze a noi impercettibili, o vedere cose che noi non riusciamo a visualizzare (luce ultravioletta). Se pensiamo agli affascinanti pipistrelli: «…oltre a emettere un’ampia gamma di segnali sonori per comunicare con i propri simili, essi utilizzano i suoni per orientarsi nello spazio e cacciare. Grazie alla ecolocalizzazione, una specie di sonar biologico, i pipistrelli lanciano segnali sonori a frequenze specifiche e ascoltano gli echi che questi producono rimbalzando sulle superfici circostanti per individuare gli oggetti e le prede» [6].
Altre informazioni sul sistema di ecolocalizzazione le potete trovare qui
Il sistema di “biosonar” utilizzato dai pipistrelli si può trovare anche in altri mammiferi come i delfini. Inoltre, alcune macchine costruite dall’uomo come i sottomarini ricorrono all’ecolocalizzazione.
Emozioni e sentimenti
L’essere umano è in grado di provare emozioni e sentimenti. Questi non sono così facilmente catalogabili, sono numerosi (molte decine) e sovrapponibili.
Dietro alla capacità di provare amore, gelosia, felicità, paura, pietà, odio, tristezza, nostalgia, pessimismo, empatia, crudeltà, panico, simpatia, ecc. vi sono ragioni evolutive più o meno note.
Volendo essere sintetici, fin dall’antichità l’amore è servito all’uomo per riprodursi e dar vita a famiglie numerose, garantendo la sopravvivenza della specie. Come spiegato nel bellissimo libro Sapiens, scritto dallo storico Yuval Noah Harari, vi sono delle prove abbastanza chiare che testimoniano l’empatia e la solidarietà verso i più deboli (soggetti disabili) provate dai Neanderthal oltre 100.000 anni fa. Questa specie umana estintasi da molto tempo (circa 40.000 anni), grazie all’importante e pesante cervello riusciva a provare forti sentimenti, tanto da legarsi e riprodursi con alcuni Homo Sapiens (teoria della fusione) [7,8,9].
Ma se l’uomo è sopravvissuto tanto deve ringraziare anche un’emozione primaria di pericolo come la paura, tramite essa si è tenuto lontano da molti pericoli mortali. E con la simpatia, l’empatia, la felicità, è riuscito a convivere in famiglie, gruppi, villaggi e città via via sempre più grandi e organizzati.
Ovviamente tutto ciò è assai più complesso di come riportato qui, per ogni emozione e/o sentimento ci sono un’infinità di reazioni chimiche che avvengono all’interno del nostro organismo, dall’ossitocina e la dopamina per l’amore, al testosterone e l’adrenalina per l’aggressività, e così via.
Coscienza
Come tutte le altre cose elencate in questo articolo, anche la coscienza non è facilmente definibile, ma va fatto comunque un tentativo.
La coscienza è la percezione di sé, dei propri pensieri, delle proprie azioni e dell’ambiente circostante. Essa è attiva quando siamo svegli ed entra in una sorta di stand-by quando dormiamo. Risulta difficilissimo studiarla poiché non stiamo parlando di un elemento fisico da vivisezionare e mettere sotto la lente di un microscopio. Per questa ragione i progressi scientifici circa questo argomento sono piuttosto lenti.
A differenza di quel che si credeva in passato, l’uomo non è l’unico mammifero dotato di coscienza. Si è infatti osservato che, a livelli diversi, anche altri mammiferi abbiano coscienza [10]. Ne sono un esempio i delfini, elefanti, scimpanzé e i gorilla. Com’è facilmente intuibile, è l’Homo Sapiens l’essere vivente che gode della più elevata coscienza, paradossalmente questo non implica necessariamente che le persone mettano sempre la giusta dose di coscienza nelle loro azioni.
Attenzione e apprendimento
Fin dalla nascita il cervello umano è programmato per concentrarsi e prestare attenzione ai più svariati stimoli, rispondendo ed imparando qualcosa da questi ultimi.
Noi, quasi fossimo un computer od uno smartphone, siamo dotati di una specie di multitasking. Per chi non lo sapesse, in informatica il multitasking permette di eseguire più programmi contemporaneamente. Tuttavia, la versione umana di questa funzionalità è decisamente limitata, pertanto non è possibile riuscire a gestire con estrema efficienza più cose simultaneamente. Pinco Pallino può benissimo ascoltare musica e contemporaneamente leggere la Critica della ragion pura di Kant, ma nel caso volesse capire al meglio ciò che c’è scritto nel testo o concentrarsi per bene sulle liriche delle canzoni ascoltate, dovrà necessariamente fare una cosa o l’altra, non entrambe in contemporanea. A riprova di quanto appena detto, esiste un bug dell’attenzione, detto attentional blink, il quale porta ad un breve spegnimento dell’attenzione quando si passa da uno stimolo dell’interesse all’altro [11], questo spegnimento mediamente dura circa un secondo (1″). Come riportano i ricercatori Paola Sessa e Roberto Dell’Acqua [12], se abbiamo due stimoli visivi (T1 e T2) presentati in rapida successione, indagando sui limiti cognitivi insiti nell’uomo scopriamo che: «I risultati ottenuti […] suggeriscono con forza che uno o più stadi di elaborazione di T1 interferiscono con l’elaborazione di T2 se l’intervallo temporale tra T1 e T2 (stimulus onset asynchrony; SOA) è inferiore ai 500-600 ms. Questo fenomeno è stato denominato Attentional Blink (AB)».
Quando noi decidiamo di prestare attenzione a qualcosa di specifico si parla di attenzione volontaria. Si parla invece di attenzione automatica quando ad esempio sentiamo un improvviso boato e ci voltiamo immediatamente in direzione del suono appena udito. Il sistema dell’attenzione è regolato dalla dopamina e talvolta, per questioni genetiche non ancora del tutto definite, questo sistema può essere difettoso. Stiamo infatti alludendo al già citato ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività). Esso si manifesta nei primi anni di vita e generalmente scompare con il raggiungimento dell’età adulta, ma in una stretta cerchia di casi può persistere anche nelle persone più grandi.
Benché non sia ancora chiaro se c’è esiste una distinta sede anatomica che regola l’attenzione, è stata notata un’intensa attivazione della corteccia prefrontale (parte anteriore del lobo frontale del cervello) e del lobo temporale correlata, appunto, all’attenzione.
Riguardo invece all’apprendimento, possiamo affermare senza alcun timore di smentita che nessun essere vivente è in grado di apprendere quanto l’Homo Sapiens. Da quando viene al mondo, fino al giorno della sua morte, egli continua ad analizzare informazioni, immagazzinando ed apprendendo nuove cose.
Sembrerà un’assurdità ma il cervello impara meglio se è convinto di poter imparare meglio. Più un determinato argomento è complicato e più occorre impegnarsi portando il cervello fuori dalla sua comfort zone.
Ripetere, ripetere e ripetere è il modo con cui si possono apprendere nuove nozioni. In questo processo sono coinvolte le sinapsi, i neuroni e le cellule gliali.
L’apprendimento, anche motorio, ha delle fasce d’età in cui è facilitato (età prescolare, 3-6 anni) ma questa non è una buona scusa per gettare la spugna. Sia che si parli di apprendere una nuova lingua o iniziare a fare seriamente attività fisica.
Dei neuroni speciali?
Le capacità cognitive dell’uomo sono superiori a quelle degli altri mammiferi grazie alla sua corteccia cerebrale assai sviluppata, alla sua incredibile propensione alla socialità ed alla competitività che l’hanno distinto da tutto il resto fin da quando i sapiens fecero la loro comparsa sulla Terra, nella seconda metà del pleistocene.
Una certa superiorità del nostro cervello potrebbe essere data da dei particolari neuroni non presenti negli altri mammiferi, i neuroni rosehip(foto sopra). Questi sono stati recentemente identificati da dei ricercatori Ungheresi e Americani nel primo dei sei strati della corteccia cerebrale, lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature [13].
Tanto per fare un esempio, potrebbero essere proprio queste cellule cerebrali le responsabili della coscienza umana. Tuttavia, questa scoperta deve ancora essere confermata da studi più autorevoli, nulla è ancora certo.
Approfondimenti
Ecco alcuni articoli e libri consigliati per chi volesse approfondire questi argomenti:
[1] Vincent J. D. – Qualche breve lezione sul cervello. Per capire l’oggetto più complicato che sia mai stato costruito (2016)
[2] Savage J. E. et al. – Genome-wide association meta-analysis in 269,867 individuals identifies new genetic and functional links to intelligence (2018)
[3] Nagel M. et al. – Meta-analysis of genome-wide association studies for neuroticism in 449,484 individuals identifies novel genetic loci and pathways (2018)
[4] Sniekers S. et al. – Genome-wide association meta-analysis of 78,308 individuals identifies new loci and genes influencing human intelligence (2017)
[5] Trahan L. et al. – The Flynn Effect: A Meta-analysis (2014)
[6] Artana S. – Quando i neuroni fanno “shhh”: come i pipistrelli selezionano i suoni che vogliono sentire (Focus, 2010)
[7] Le Scienze – Più di 100.000 anni fa l’incrocio tra sapiens e Neanderthal (2016)
[8] Gaianews.it – Scoperto primo ibrido tra Neanderthal e Homo Sapiens (2013)
[9] Gaianews.it – Perché Homo sapiens è sopravvissuto agli altri ominidi (2018)
[10] Kirkwood J. et al. – Consciousness, cognition and animal welfare (2001)
[11] Raymond J. E. et al. – Temporary suppression of visual processing in an RSVP task: an attentional blink? (1992)
[12] Sessa P. et al. – Il fenomeno “Attentional Blink” (2008)
[13] Boldog E. et al. – Transcriptomic and morphophysiological evidence for a specialized human cortical GABAergic cell type (2018)
[14] Elena Blanco-Suarez et al. – Astrocyte-Secreted Chordin-like 1 Drives Synapse Maturation and Limits Plasticity by Increasing Synaptic GluA2 AMPA Receptors (2018)
[15] Le Scienze – Un cervello plastico grazie agli astrociti (2018)
Magrini M. – Cervello. Manuale dell’utente. Guida semplificata alla macchina più complessa del mondo (2017)
Rossi A. F. et al. – The prefrontal cortex and the executive control of attention (2009)
James Flynn – Why our IQ levels are higher than our grandparents’ (TED, 2013)
Le Scienze – Le basi genetiche dell’intelligenza e della stabilità emotiva (2018)
Le Scienze – Geni e intelligenza: un rapporto sempre più complesso (2017)
La prima parte la potete trovare a questo link. Buona lettura!
Ipofisi
L’ipofisi è una piccolissima ghiandola endocrina di forma ovale (pesa all’incirca mezzo grammo), situata poco sotto l’ipotalamo. Nonostante le ridotte dimensioni ha un ruolo importante perché esercita una funzione di controllo su (altro…)