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  • Perché è così difficile cambiare certe opinioni?

    Perché è così difficile cambiare certe opinioni?

    Tifo sportivo, politica, religione e non solo, sono argomenti che come pochi altri riescono a dividere e polarizzare le persone. «Divide et impera» diceva già più di duemila anni fa qualcuno. Ma come mai l’essere umano, una volta che si è fossilizzato su un’idea, salvo rari casi, non è disponibile a ritrattarla?

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    In questo articolo cercheremo di dare una risposta alla domanda che ci siamo appena posti.

    Psicologia

    La difficoltà che proviamo nel cambiare opinione è data principalmente dal alcuni bias più o meno radicati nella psicologia umana. I bias cognitivi altro non sono che costrutti basati su percezioni errate della realtà e/o pregiudizi che di frequente possono portare le persone a fare affermazioni e pensieri errati sui più svariati argomenti.

    I bias strettamente legati all’argomento centrale di questo articolo sono i seguenti:

    • Bias di conferma: qualunque nuova informazione conferma le nostre convinzioni precedenti, confutando quelle opposte.
    • Bias di gruppo: bias che ci porta a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo di appartenenza, attribuendo perentoriamente alla sfortuna gli eventi negativi e al merito e talento quelli positivi.
    • Effetto carovana: rappresenta la tendenza a credere in qualcosa solo perché molte altre persone vicine a noi ci credono (questo fenomeno si sopra bene con la religione e la politica).
    • Bias conservativo: ogni novità viene vista con grande sospetto e sottovalutata rispetto alle precedenti convinzioni. Se per esempio leggo una rivista che porta avanti la tesi della nocività del latte di vacca per l’essere umano ed inizio a credere a questa tesi, difficilmente prenderò in considerazione le opinioni di chi smentisce questa nocività, indipendentemente dall’autorevolezza delle fonti.
    • Bias di proiezione: percezione distolta della realtà. Riteniamo di pensare e vedere le cose sempre nella maniera giusta e ci sembra che anche le altre persone la pensino come noi (falso consenso).
    Questione di cervello

    Dietro al mutamento delle idee c’è anche un aspetto se vogliamo più concreto e tangibile, per quanto può essere tangibile un cambiamento strutturale di pochi micron all’interno del cervello.

    Quando una nostra opinione ben consolidata viene messa in discussione, attaccata, il nostro cervello si difende. Quasi come se quest’ultimo avesse un sistema immunitario pronto a contrastare ogni pericolo esterno, se per pericolo esterno intendiamo informazioni che rischierebbero di far crollare le nostre certezze. Al riguardo, come asserisce lo psicologo americano Jonas Kaplan: «La responsabilità primaria del cervello è prendersi cura del corpo, proteggere il corpo. Il sé psicologico è l’estensione del cervello. Quando il nostro sé si sente attaccato, il nostro cervello fa valere le stesse difese che ha per proteggere il corpo».

    Quanto detto in queste ultime righe vale in particolar modo per le ideologie politiche, dato che esse le percepiamo come qualcosa di fortemente legato alla nostra identità personale, quasi fossero connaturate all’animo umano. Magari le abbiamo ereditate dall’ambiente (familiare e non solo) in cui siamo cresciuti ed abbandonarle, o più semplicemente rivalutarle, ci farebbe sentire indifesi – visto l’attacco al nostro sé – e tremendamente insicuri.

    «Un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene», Albert Camus.

    Uno studio discretamente famoso pubblicato su Nature [1] ha mostrato tramite la risonanza magnetica funzionale (RMF) quali sono le aree del cervello maggiormente attive durante un dibattito con una persona che mette fortemente in discussione le nostre convinzioni politiche più radicate (immagine sotto).

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    In rosso e giallo, le regioni del cervello che hanno mostrato un aumento del “segnale” durante l’elaborazione di conversazioni a sfondo politico (P> NP). In blu e verde, le regioni del cervello che hanno mostrato un aumento del segnale durante delle discussioni non inerenti temi politici (NP> P).

    Cos’è emerso? Durante i momenti più accesi del dibattito le zone del cervello maggiormente attive erano quelle che si pensava corrispondessero all’identità personale (self-identity) e alle emozioni negative (amigdala). Vedendo la differenza dell’intensità di segnale fra le questioni politiche e non politiche, J. Kaplan e colleghi hanno bollato come “default mode network” l’insieme di strutture cerebrali implicate nel pensare a se stessi, alla propria identità, alla memoria ed al mind-wandering (tendenza della mente a vagare ed a spostare l’attenzione su altro).

    In sintesi, il cervello attiva automaticamente le aree predisposte alla contemplazione di noi stessi ed ai cattivi pensieri e probabilmente lo fa per mettere una sorta di blocco, un ostacolo al cambiamento delle idee più radicate. Le persone dello studio citato poco fa potevano cambiare idea su argomenti non politici dove non avevano grande interesse o credenze solide (ad esempio il valore delle scoperte di Edison o Albert Einstein), ma sulle questioni politiche la cosa era molto più ostica (grafico sotto).

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    Cambiare le idee più radicate è difficilissimo (Kaplan T. J. et al., 2016)

    Quando affrontiamo seriamente un dibattito, guardiamo un documentario, leggiamo un libro o ragioniamo su un film appena visto al cinema, il nostro cervello subisce delle modificazioni strutturali. Parliamo ovviamente di cambiamenti minimi, quasi impercettibili, visibili unicamente col microscopio elettronico a scansione. Tutto ciò è garantito dalla plasticità del nostro cervello, ovvero la capacità dell’encefalo di modificare la propria struttura e le proprie funzionalità in base all’attività dei propri neuroni.

    Al riguardo ci sentiamo di consigliarvi le seguenti letture:
    
    - Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione (J. Haidt)Cervello. Manuale dell'utente. Guida semplificata alla macchina più complessa del mondo (Magrini M.)
    - Flessibilità cognitiva e scelte elettorali (Le Scienze)
    Inefficacia del debunking

    Proprio a causa dei pregiudizi riportati nel precedente paragrafo il debunking, ovvero quell’insieme di attività che hanno come fine lo smascheramento di bufale (fake news) molto spesso è poco efficace. Ma come mai lo è?

    Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricollegarci al concetto del bias di conferma. Infatti: «Nel valutare notizie e idee, la nostra mente è più attenta a riconoscersi in un gruppo di appartenenza, che rafforza la nostra identità, che non a valutare l’accuratezza delle informazioni» [2]. Inoltre, il bias di conferma va a nozze con le cosiddette bugie blu, restando in tema politico: «I bambini iniziano a dire bugie egoistiche verso i tre anni, quando scoprono che gli adulti non possono leggere i loro pensieri: non ho rubato quel giocattolo, papà ha detto che potevo, mi ha picchiato lui per primo. A circa sette anni iniziano a dire “bugie bianche” motivate da sentimenti di empatia e compassione: che bello il tuo disegno, i calzini sono un bel regalo di Natale, sei divertente.

    Le “bugie blu” appartengono a una categoria del tutto diversa: sono allo stesso tempo egoiste e vantaggiose per gli altri, ma solo se appartengono al proprio gruppo. Come spiega Kang Lee, psicologo all’Università di Toronto, queste bugie cadono a metà fra quelle “bianche” dette per altruismo e quelle “nere” di tipo egoista. “Si può dire una bugia blu contro un altro gruppo”, dice Lee, e questo rende chi la dice allo stesso tempo altruista ed egoista. “Per esempio, si può mentire su una scorrettezza commessa dalla squadra in cui giochi, che è una cosa antisociale, ma aiuta la tua squadra.”

    In uno studio del 2008 su bambini di 7, 9 e 11 anni – il primo del suo genere – Lee e colleghi hanno scoperto che i bambini diventano più propensi a raccontare e approvare le bugie blu via via che crescono. Per esempio, potendo mentire a un intervistatore sulle scorrettezze avvenuta durante la fase di selezione delle squadre in un torneo scolastico di scacchi, molti erano abbastanza disposti a farlo, e i ragazzi grandi più di quelli più giovani. I bambini che mentivano non avevano nulla da guadagnare personalmente; lo stavano facendo per la loro scuola. Questa ricerca suggerisce che le bugie nere isolano le persone, le bugie bianche le uniscono, e le bugie blu coalizzano alcune persone e ne allontanano altre. […] Questa ricerca – e queste storie – evidenziano una dura verità sulla nostra specie: siamo creature intensamente sociali, ma siamo inclini a dividerci in gruppi competitivi, in gran parte per il controllo della distribuzione delle risorse. […] “La gente perdona le bugie contro le nazioni nemiche, e dato che oggi in America molte persone vedono quelli dall’altra parte politica come nemici, possono ritenere – quando le riconoscono – che siano strumenti di guerra appropriati”, dice George Edwards, politologo alla Texas A & M e uno dei più importanti studiosi nazionali della presidenza» [3].

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    Per avviarci alla conclusione del paragrafo, questo meccanismo psicologico è direttamente collegato al concetto della post-verità (post–truth), cioè alla non importanza della veridicità di una notizia. Vera o falsa che sia, l’unico fine di quest’ultima è quello di rafforzare i pregiudizi delle persone. Ecco spiegato il perché dello scarso potere del debunking nel far cambiare idea alle persone su determinati argomenti, anche quando la fake news è lapalissiana.

    Come riporta uno noto studio italiano: «I nostri risultati mostrano che i post di debunking rimangono principalmente confinati all’interno della echo-chamber scientifica e solo pochi utenti solitamente esposti a richieste non comprovate interagiscono attivamente con le correzioni. Le informazioni di dissenso vengono principalmente ignorate e, se guardiamo al sentimento espresso dagli utenti nei loro commenti, troviamo un ambiente piuttosto negativo. Inoltre, dimostriamo che i pochi utenti della camera di congiunzione delle cospirazioni che interagiscono con i post di smascheramento manifestano una maggiore tendenza a commentare, in generale. Tuttavia, se osserviamo il loro tasso di commenti e gradimento, cioè il numero giornaliero di commenti e mi piace, scopriamo che la loro attività nella eco-chamber della cospirazione aumenta dopo l’interazione (quindi nonostante lo sbufalamento, la loro passione per i complotti aumenta, ndr).

    Pertanto, le informazioni dissenzienti online vengono ignorate. In effetti, i nostri risultati suggeriscono che le informazioni di debunking restano confinate all’interno della camera d’eco scientifico e che pochissimi utenti della camera di eco della cospirazione interagiscono con i post di debunking. Inoltre, l’interazione sembra portare ad un crescente interesse per contenuti di tipo cospirativo.

    Dal nostro punto di vista, la diffusione di contenuti fasulli è in qualche modo correlata alla crescente sfiducia delle persone rispetto alle istituzioni, al crescente livello di analfabetismo funzionale, ovvero all’incapacità di comprendere correttamente le informazioni che interessano i paesi occidentali, nonché all’effetto combinato di bias di conferma al lavoro su un enorme bacino di informazioni in cui la qualità è scarsa. Secondo queste impostazioni, le attuali campagne di debunking e le soluzioni algoritmiche non sembrano essere le migliori opzioni. I nostri risultati suggeriscono che il principale problema alla base della disinformazione è il conservatorismo piuttosto che la creduloneria» [4].

    Studi ancor più recenti, purtroppo, confermano la scarsa utilità del debunking [5].

    Qui un approccio più “filosofico” all’argomento…

    Conclusioni

    Paradossalmente capire qualche cosa di più sulle nostre vie cognitive ci ha permesso di far luce su alcuni nostri limiti fisiologici ma allo stesso tempo ci ha portato a porci altre domande, nuove paranoie.

    Del resto, come diceva il celebre fisico statunitense John Archibald: «Quando cresce l’isola della conoscenza, cresce anche la costa della nostra ignoranza».

    Se il nostro cervello cerca di essere conservativo e restio al cambiamento di certe opinioni, è completamente impossibile maturare e cambiarle? Non esiste un modo per aggirare questo blocco? E qualora ci fosse, sarebbe gestibile? Dopotutto, il restare ancorati a certe posizioni è uno stratagemma a cui ricorre la mente umana per darci stabilità, senza venire travolti dal cambiamento.

    Chi ha scritto questo articolo non ha le risposte, voi lettori nemmeno ma è proprio questo il bello della scienza (e anche della filosofia), la ricerca eterna di verità a cui probabilmente non si giungerà mai, almeno non in maniera definitiva.

    «Bisogna sempre tener presenti questi […] principi: cambiar parere se trovi qualcuno capace di correggerti, rimuovendoti da una certa opinione. Questo nuovo parere, comunque, deve sempre avere una ragione verosimile, come la giustizia o l’interesse comune, come la giustizia o l’interesse comune, ed esclusivamente tali devono essere i motivi che determinano la tua scelta, non il fatto che ti sia parsa più piacevole o tale da procurarti maggior gloria» (Marco Aurelio).

    Grazie per l’attenzione.

    yoda
    Bibliografia

    1 Kaplan T. J. et al. – Neural correlates of maintaining one’s political beliefs in the face of counterevidence (2016)
    2 Le Scienze – Perché crediamo al nostro partito politico (2018)
    3 Le Scienze – Perché le “bugie blu” non fanno perdere consensi (2017)
    4 Zollo F. et al. – Debunking in a world of tribes (2017)
    5 Heidi J Larson, David A Broniatowski – Why Debunking Misinformation Is Not Enough to Change People’s Minds About Vaccines. Am J Public Health. 2021 Jun;111(6):1058-1060.
    Magrini M. – Cervello. Manuale dell’utente (Giunti Editore, 2017)
    Haidt J.Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione (Codice Edizioni, 2014)
    Cravanzola E. – Bias cognitivi e fallace logiche: fra scienza e quotidianità (2019)
    Resnick B. – A new brain study sheds light on why it can be so hard to change someone’s political beliefs (2017)
    Le Scienze – Flessibilità cognitiva e scelte elettorali (2018)
    Il Post – Smentire le bufale è inutile? (2015)

  • Cervello: istruzioni per l’uso

    Cervello: istruzioni per l’uso

    Il cervello umano è una macchina tanto affascinante quanto complessa. Da secoli infatti attira l’interesse di medici, scienziati, filosofi, psicologi e via discorrendo. Proprio a causa di questa sua complessità attualmente non conosciamo bene tutti i meccanismi che permettono a questa incredibile macchina di funzionare.

    Da Vinci
    Appunti e disegni di Leonardo Da Vinci
    Anatomia

    Il cervello, posizionato nella scatola cranica, ha un peso che si aggira intorno al chilogrammo e mezzo (1,5) ed ha un volume di circa 1100-1300 centimetri cubici (ovviamente con l’età questi numeri possono lentamente cambiare).

    Ogni atlante di anatomia che si rispetti cita prima di tutti l’encefalo, ovvero l’insieme del cervello, cervelletto e midollo allungato. A differenza di quello che credono alcuni, va infatti specificato che encefalo e cervello non sono la stessa cosa.

    Per il resto, la struttura anatomica del cervello dell’Homo Sapiens è la seguente:

    • Due macro-aree: telencefalo e diencefalo;
    • Sei lobi del telencefalo: lobo frontale, parietale, occipitale, temporale, limbico e dell’insulina;
    • Altri piccoli segmenti anatomici contenuti dal diencefalo: talamo, epitalamo, metatalamo, ipotalamo, subtalamo.

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    La sostanza grigia che tipicamente dà colore ai cervelli non vivi, altro non è che corteccia cerebrale, la parte rugosa ed più esterna del telencefalo, ricca di neuroni, cellule della glia e fibre nervose (senza mielina). Essa, da sola, rappresenta circa il 90% del peso complessivo del cervello. Com’è ben noto, questa corteccia è di fondamentale importanza perché ha a che fare con il linguaggio, le capacità di pensiero, la memoria, la coscienza e l’attenzione.

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    Come mostrato nell’immagine riportata sopra, la struttura del cervello è incredibilmente articolata, non facile da spiegare. Per questo motivo adesso andremo a vedere alcune delle caratteristiche più interessanti di esso, senza tuttavia descrivere troppo nel dettaglio ogni singolo componente di questa maestosa macchina. Per ulteriori approfondimenti vi rimandiamo ai testi consigliati al fondo dell’articolo.

    Predizione

    Il nostro cervello, anche in situazioni di completa calma e tranquillità, è costantemente impegnato a cercare di predire il futuro. Non a caso Stephen Hawking definiva l’intelligenza come «la capacità del cervello di predire il futuro attraverso analogie con il passato». E proprio dalla predizione pare dipendano pensieri, emozioni, percezioni, ricordi e altro ancora.

    In pratica, è come se il cervello cercasse di intuire in anticipo cosa accadrà in un futuro più o meno prossimo in modo da farsi trovare pronto ad ogni imprevisto. Ciò è probabilmente legato a ragioni evolutive, alla sopravvivenza della specie umana. Quando noi camminiamo il cervello predice a ogni passo quando il piede raggiungerà il suolo. Privati di questo meccanismo di predizione, probabilmente non saremmo neanche in grado di camminare per pochi metri senza cadere, in special modo se la superficie a cui il nostro piede va in contro è irregolare.

    Memoria

    La memoria, come altre caratteristiche del cervello ha avuto una grande importanza durante il processo evolutivo dei Sapiens. Tramite essa infatti abbiamo tramandato linguaggi, usanze, racconti, tratti culturali e informazioni necessarie per sopravvivere. Nei millenni si è infatti distinta come meccanismo della paura (“Meglio non addentrarsi in quella foresta, ci sono dei pericoli“), come elemento sociale (gerarchie familiari, alberi genealogici), motorio e soggettivo (la personalità).

    Esistono principalmente due tipologie di memoria, quella a breve termine e quella a lungo termine. La prima dura poco, una manciata di secondi. L’altra rappresenta praticamente tutto quello che sappiamo: lingue, volti, nomi, luoghi, nozioni, ideologie, numeri, e così via.

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    I ricordi tendono ad imprimersi bene nella nostra memoria quando da parte nostra c’è una certa attenzione (parleremo meglio di ciò fra qualche paragrafo), meglio ancora se li associamo a qualche avvenimento.

    Ad esempio quanti bambini e ragazzini ricordano dell’interruzione di una puntata della Melevisione durante l’attentato dell’11 settembre 2001?

    Ma come funziona l’accesso ai ricordi? «Il fenomeno del recupero permette di andare a riprendere le informazioni immagazzinate nelle memorie permanenti. Il recupero è una modalità attiva e volontaria che talvolta richiede notevole sforzo. Il riconoscimento è il più delle volte un meccanismo passivo. Anche la semplice evocazione di una parola può attivare l’intero orizzonte a cui appartiene o facilitarne il riconoscimento e il recupero. Nel complesso le memorie permanenti funzionano per associazioni, che sono il meccanismo principale dei processi mnemonici» [1]. Le aree deputate al recupero dei ricordi sono quelle del lobo temporale, lobo occipitale e sistema limbico (insieme di strutture cerebrali collegate al lobo limbico).

    Terry Sejnowski, professore del Salk Institute in California, facendo un raffronto con la matematica binaria dei computer, stima che la memoria totale del nostro cervello sia indicativamente di un milione di gigabyte (1 Petabyte). Non è da escludere che la nostra memoria totale possa anche essere superiore, dato che tramite meccanismi associativi è possibile salvare una quantità esorbitante di dati.

    Acquisire ed elaborare nuove informazioni, nuove sensazioni, è tra l’altro un ottimo modo per contrastare l’invecchiamento neuronale.

    Plasticità

    La plasticità è la capacità (innata) del cervello di modificare la sua struttura nel tempo. Le esperienze sensoriali cambiano fisicamente questa struttura, ciò è possibile tramite l’azione dei neuroni, grazie agli assoni, ai dendriti ed alle spine di questi ultimi.

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    In questa rappresentazione di neurone motorio possiamo osservare bene i dendriti e l’assone.

    Quando affrontiamo seriamente un dibattito, guardiamo un documentario, leggiamo un libro o ragioniamo su un film appena visto al cinema, il nostro cervello subisce delle modificazioni, che sono appunto modificazioni strutturali. Parliamo ovviamente di cambiamenti minimi, quasi impercettibili, visibili unicamente con sofisticati microscopi.

    Recenti studi suggeriscono che siano gli astrociti, particolari proteine della neuroglia, a garantire al cervello una buona plasticità (e non solo) [14,15].

    Questi mutamenti, per quanto lievi, ci accompagnano per tutto il corso della vita.

    Intelligenza

    Se volessimo parlare come si deve dell’intelligenza, cosa sicuramente non facile, potremmo definirla come l’insieme dell’apprendimento e comprensione, della consapevolezza di sé, della creatività e della capacità di adattarsi e cavarsela anche nelle situazioni più avverse e intricate.

    Howard Gardner, psicologo di fama mondiale, distingue ben 9 tipi di intelligenza: intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, musicale, interpersonale, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale. Esse sono allenabili e se non utilizzate, col passare del tempo, anche nei soggetti più fortunati possono decadere.

    Il famigerato quoziente intellettivo (QI) non è un parametro attendibile per valutare l’intelletto di un soggetto, dato che si riferisce principalmente all’intelligenza logico-matematica, quindi teoricamente solo a 1/9 dell’intelligenza di un essere umano. A riprova di quanto affermato prima circa l’allenabilità della mente, l’attuale popolazione terrestre è mediamente più abile nelle questioni di natura logico-matematica rispetto a quella dell’inizio del ventesimo secolo, lo testimoniano i differenti valori del QI osservati di generazione in generazione (Alfred Binet sperimentò per primo il test nel 1904). Questo innalzamento del QI è detto effetto Flynn, dal nome del suo scopritore. Tuttavia, è bene specificare che riguardo a questo effetto ci sono alcune controversie [5].

    L’uomo, specialmente da bambino, va a inconsapevolmente a lavorare sulle proprie capacità intellettive. Lo fa per esempio quando sta in mezzo agli altri bambini all’asilo, alla scuola primaria, relazionandosi con gli adulti, giocando, studiando, maneggiando dispositivi tecnologici.

    Come alcuni già sapranno, l’intelligenza è anche una questione genetica. Ebbene sì, la natura spesso è ingiusta, infatti in base alla presenza o meno di alcuni determinati geni ci sono persone più portate ad essere intelligenti ed altre meno. La ricerca scientifica ha già individuato più di mille geni – per la precisione 1016 – coinvolti nello sviluppo dell’intelligenza [2]. Volendo volgarizzare il tutto, si è visto come con i “geni giusti” sia più facile avere una marcata intelligenza e un organismo in grado di contrastare efficacemente l’insorgere di patologie quali l’Alzheimer, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Di contro, sono 599 i geni identificati che stanno dietro alla stabilità emotiva e alcune varianti di questi geni espongono a una elevata propensione alla depressione e schizofrenia [3].

    Attualmente si stima che lo sviluppo delle capacità intellettive dipenda per il 53% da questioni legate alla genetica individuale [4].

    La notizia per qualcuno potrebbe essere una doccia fredda ma girarsi dall’altra parte non avrebbe senso. La natura umana è questa, non bisogna gioire o disperarsi ma solo accettare i fatti.

    Sensi

    Voi tutti conoscerete i sensi, no? I soliti cinque: vistagusto, tatto, udito e olfatto. Sapete anche che non è del tutto corretto limitarsi a citare solamente questi cinque?

    Esistono infatti anche altri sensi un po’ meno noti, il cui funzionamento è garantito da specifici organi che mandano segnali al cervello. Per esempio siamo dotati di propriocezione, ovvero la capacità di percepire e riconoscere i segmenti corporei nello spazio, la nocicezione (senso del dolore), la percezione delle sensazioni termiche (termocezione), eccetera.

    In quanto ad efficienza dei sensi l’uomo non primeggia in natura. Esistono infatti molti animali in grado di cogliere suoni a frequenze a noi impercettibili, o vedere cose che noi non riusciamo a visualizzare (luce ultravioletta). Se pensiamo agli affascinanti pipistrelli: «…oltre a emettere un’ampia gamma di segnali sonori per comunicare con i propri simili, essi utilizzano i suoni per orientarsi nello spazio e cacciare. Grazie alla ecolocalizzazione, una specie di sonar biologico, i pipistrelli lanciano segnali sonori a frequenze specifiche e ascoltano gli echi che questi producono rimbalzando sulle superfici circostanti per individuare gli oggetti e le prede» [6].

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    Altre informazioni sul sistema di ecolocalizzazione le potete trovare qui

    Il sistema di “biosonar” utilizzato dai pipistrelli si può trovare anche in altri mammiferi come i delfini. Inoltre, alcune macchine costruite dall’uomo come i sottomarini ricorrono all’ecolocalizzazione.

    Emozioni e sentimenti

    L’essere umano è in grado di provare emozioni e sentimenti. Questi non sono così facilmente catalogabili, sono numerosi (molte decine) e sovrapponibili.

    Dietro alla capacità di provare amore, gelosia, felicità, paura, pietà, odio, tristezza, nostalgia, pessimismo, empatia, crudeltà, panico, simpatia, ecc. vi sono ragioni evolutive più o meno note.

    Volendo essere sintetici, fin dall’antichità l’amore è servito all’uomo per riprodursi e dar vita a famiglie numerose, garantendo la sopravvivenza della specie. Come spiegato nel bellissimo libro Sapiens, scritto dallo storico Yuval Noah Harari, vi sono delle prove abbastanza chiare che testimoniano l’empatia e la solidarietà verso i più deboli (soggetti disabili) provate dai Neanderthal oltre 100.000 anni fa. Questa specie umana estintasi da molto tempo (circa 40.000 anni), grazie all’importante e pesante cervello riusciva a provare forti sentimenti, tanto da legarsi e riprodursi con alcuni Homo Sapiens (teoria della fusione) [7,8,9].

    Ma se l’uomo è sopravvissuto tanto deve ringraziare anche un’emozione primaria di pericolo come la paura, tramite essa si è tenuto lontano da molti pericoli mortali. E con la simpatia, l’empatia, la felicità, è riuscito a convivere in famiglie, gruppi, villaggi e città via via sempre più grandi e organizzati.

    Ovviamente tutto ciò è assai più complesso di come riportato qui, per ogni emozione e/o sentimento ci sono un’infinità di reazioni chimiche che avvengono all’interno del nostro organismo, dall’ossitocina e la dopamina per l’amore, al testosterone e l’adrenalina per l’aggressività, e così via.

    Coscienza

    Come tutte le altre cose elencate in questo articolo, anche la coscienza non è facilmente definibile, ma va fatto comunque un tentativo.

    La coscienza è la percezione di sé, dei propri pensieri, delle proprie azioni e dell’ambiente circostante. Essa è attiva quando siamo svegli ed entra in una sorta di stand-by quando dormiamo. Risulta difficilissimo studiarla poiché non stiamo parlando di un elemento fisico da vivisezionare e mettere sotto la lente di un microscopio. Per questa ragione i progressi scientifici circa questo argomento sono piuttosto lenti.

    A differenza di quel che si credeva in passato, l’uomo non è l’unico mammifero dotato di coscienza. Si è infatti osservato che, a livelli diversi, anche altri mammiferi abbiano coscienza [10]. Ne sono un esempio i delfini, elefanti, scimpanzé e i gorilla. Com’è facilmente intuibile, è l’Homo Sapiens l’essere vivente che gode della più elevata coscienza, paradossalmente questo non implica necessariamente che le persone mettano sempre la giusta dose di coscienza nelle loro azioni.

    Attenzione e apprendimento

    Fin dalla nascita il cervello umano è programmato per concentrarsi e prestare attenzione ai più svariati stimoli, rispondendo ed imparando qualcosa da questi ultimi.

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    Noi, quasi fossimo un computer od uno smartphone, siamo dotati di una specie di multitasking. Per chi non lo sapesse, in informatica il multitasking permette di eseguire più programmi contemporaneamente. Tuttavia, la versione umana di questa funzionalità è decisamente limitata, pertanto non è possibile riuscire a gestire con estrema efficienza più cose simultaneamente. Pinco Pallino può benissimo ascoltare musica e contemporaneamente leggere la Critica della ragion pura di Kant, ma nel caso volesse capire al meglio ciò che c’è scritto nel testo o concentrarsi per bene sulle liriche delle canzoni ascoltate, dovrà necessariamente fare una cosa o l’altra, non entrambe in contemporanea. A riprova di quanto appena detto, esiste un bug dell’attenzione, detto attentional blink, il quale porta ad un breve spegnimento dell’attenzione quando si passa da uno stimolo dell’interesse all’altro [11], questo spegnimento mediamente dura circa un secondo (1″). Come riportano i ricercatori Paola Sessa e Roberto Dell’Acqua [12], se abbiamo due stimoli visivi (T1 e T2) presentati in rapida successione, indagando sui limiti cognitivi insiti nell’uomo scopriamo che: «I risultati ottenuti […] suggeriscono con forza che uno o più stadi di elaborazione di T1 interferiscono con l’elaborazione di T2 se l’intervallo temporale tra T1 e T2 (stimulus onset asynchrony; SOA) è inferiore ai 500-600 ms. Questo fenomeno è stato denominato Attentional Blink (AB)».

    Quando noi decidiamo di prestare attenzione a qualcosa di specifico si parla di attenzione volontaria. Si parla invece di attenzione automatica quando ad esempio sentiamo un improvviso boato e ci voltiamo immediatamente in direzione del suono appena udito. Il sistema dell’attenzione è regolato dalla dopamina e talvolta, per questioni genetiche non ancora del tutto definite, questo sistema può essere difettoso. Stiamo infatti alludendo al già citato ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività). Esso si manifesta nei primi anni di vita e generalmente scompare con il raggiungimento dell’età adulta, ma in una stretta cerchia di casi può persistere anche nelle persone più grandi.

    Benché non sia ancora chiaro se c’è esiste una distinta sede anatomica che regola l’attenzione, è stata notata un’intensa attivazione della corteccia prefrontale (parte anteriore del lobo frontale del cervello) e del lobo temporale correlata, appunto, all’attenzione.

    Riguardo invece all’apprendimento, possiamo affermare senza alcun timore di smentita che nessun essere vivente è in grado di apprendere quanto l’Homo Sapiens. Da quando viene al mondo, fino al giorno della sua morte, egli continua ad analizzare informazioni, immagazzinando ed apprendendo nuove cose.

    Sembrerà un’assurdità ma il cervello impara meglio se è convinto di poter imparare meglio. Più un determinato argomento è complicato e più occorre impegnarsi portando il cervello fuori dalla sua comfort zone.

    Ripetere, ripetere e ripetere è il modo con cui si possono apprendere nuove nozioni. In questo processo sono coinvolte le sinapsi, i neuroni e le cellule gliali.

    L’apprendimento, anche motorio, ha delle fasce d’età in cui è facilitato (età prescolare, 3-6 anni) ma questa non è una buona scusa per gettare la spugna. Sia che si parli di apprendere una nuova lingua o iniziare a fare seriamente attività fisica.

    Dei neuroni speciali?

    Le capacità cognitive dell’uomo sono superiori a quelle degli altri mammiferi grazie alla sua corteccia cerebrale assai sviluppata, alla sua incredibile propensione alla socialità ed alla competitività che l’hanno distinto da tutto il resto fin da quando i sapiens fecero la loro comparsa sulla Terra, nella seconda metà del pleistocene.

    Una certa superiorità del nostro cervello potrebbe essere data da dei particolari neuroni non presenti negli altri mammiferi, i neuroni rosehip (foto sopra). Questi sono stati recentemente identificati da dei ricercatori Ungheresi e Americani nel primo dei sei strati della corteccia cerebrale, lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature [13].

    Tanto per fare un esempio, potrebbero essere proprio queste cellule cerebrali le responsabili della coscienza umana. Tuttavia, questa scoperta deve ancora essere confermata da studi più autorevoli, nulla è ancora certo.

    Approfondimenti

    Ecco alcuni articoli e libri consigliati per chi volesse approfondire questi argomenti:

    Atlante di neuroscienze di Netter (D. L. Felten e colleghi)
    - Cervello. Manuale dell'utente (Magrini M.)
    - Cervello e intelligenza motoria (Cravanzola E.)
    - Qualche breve lezione sul cervello (Vincent J. D.)Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione (J. Haidt)
    - Le basi genetiche dell'intelligenza e della stabilità emotiva (Le Scienze)

    Buona lettura.

    Grazie per l’attenzione!




    Bibliografia

    [1] Vincent J. D. – Qualche breve lezione sul cervello. Per capire l’oggetto più complicato che sia mai stato costruito (2016)

    [2] Savage J. E. et al. – Genome-wide association meta-analysis in 269,867 individuals identifies new genetic and functional links to intelligence (2018)

    [3] Nagel M. et al. – Meta-analysis of genome-wide association studies for neuroticism in 449,484 individuals identifies novel genetic loci and pathways (2018)

    [4] Sniekers S. et al. – Genome-wide association meta-analysis of 78,308 individuals identifies new loci and genes influencing human intelligence (2017)

    [5] Trahan L. et al. – The Flynn Effect: A Meta-analysis (2014)

    [6] Artana S. – Quando i neuroni fanno “shhh”: come i pipistrelli selezionano i suoni che vogliono sentire (Focus, 2010)

    [7] Le Scienze – Più di 100.000 anni fa l’incrocio tra sapiens e Neanderthal (2016)

    [8] Gaianews.it – Scoperto primo ibrido tra Neanderthal e Homo Sapiens (2013)

    [9] Gaianews.it – Perché Homo sapiens è sopravvissuto agli altri ominidi (2018)

    [10] Kirkwood J. et al. – Consciousness, cognition and animal welfare (2001)

    [11] Raymond J. E. et al. – Temporary suppression of visual processing in an RSVP task: an attentional blink? (1992)

    [12] Sessa P. et al. – Il fenomeno “Attentional Blink” (2008)

    [13] Boldog E. et al. – Transcriptomic and morphophysiological evidence for a specialized human cortical GABAergic cell type (2018)

    [14] Elena Blanco-Suarez et al. – Astrocyte-Secreted Chordin-like 1 Drives Synapse Maturation and Limits Plasticity by Increasing Synaptic GluA2 AMPA Receptors (2018)

    [15] Le Scienze – Un cervello plastico grazie agli astrociti (2018)

    Magrini M. – Cervello. Manuale dell’utente. Guida semplificata alla macchina più complessa del mondo (2017)

    Rossi A. F. et al. – The prefrontal cortex and the executive control of attention (2009)

    James Flynn – Why our IQ levels are higher than our grandparents’ (TED, 2013)

    Le Scienze – Le basi genetiche dell’intelligenza e della stabilità emotiva (2018)

    Le Scienze – Geni e intelligenza: un rapporto sempre più complesso (2017)

    Ulisse – Alla scoperta della mente (Rai.TV, 2011)

    Le Scienze – Il dialogo adulto-bambino e lo sviluppo cerebrale (2018)

    Worley W. – Disabled Neanderthal survived into old age because he was looked after (The Times, 2017)

    M. Brice – Ancient Bones Show That Caring for the Disabled Is as Old as Society Itself (Medical Daily, 2012)

    De Giuli M. – Emozione, ragione e sentimento (Il Tascabile, 2018)

  • Il tessuto nervoso

    Il tessuto nervoso

    Il tessuto che costituisce il sistema nervoso è formato dai neuroni, cellule altamente specializzate in grado di trasmettere segnali, riceverli ed analizzarli. Essi sono un po’ i mattoni del cervello umano. Si stima che solo nell’encefalo ce ne siano circa 86 miliardi. Di neuroni all’interno del sistema nervoso se distinguono tre tipologie:

    • di tipo motorio, che trasmettono segnali dall’encefalo e dal midollo a tutti gli organi effettori deputati al movimento (muscoli, ghiandole);
    • sensitivo, preposti alla trasmissione di tutti i dati dall’esterno verso il sistema nervoso centrale;
    • associativo, in grado di far comunicare neuroni di tipo diverso tra l’encefalo e il midollo spinale.
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    Illustrazione di un motoneurone. Possiamo osservare il dendrite, l’assone, la mielina, la fibra muscolare e la giunzione neuromuscolare.

    Parti fondamentali del neurone sono l’assone ed i dendriti. L’assone, come illustrato sopra, è un prolungamento a distanza che conduce impulsi. Ogni neurone possiede solamente un assone che serve appunto per trasportare le informazione agli altri neuroni.

    I dendriti invece sono brevi prolungamenti che catturano i segnali e informazioni, e le trasportano all’interno del neurone.

    Nel tessuto nervoso esistono anche delle cellule che non hanno né capacità di ricezione né tantomeno di trasmissione, queste particolari cellule vengono chiamate accessorie o di sostegno (es. cellule di Schwann). I neuroni, a seconda del compito da svolgere, si differenziano in dimensione e forma, corredandosi di particolari terminazioni chiamate assoni, a loro volta muniti di particolari strutture dette dendriti (fig. sopra).

    A seconda del numero di questi prolungamenti, i neuroni sono classificabili in:

    • neuroni multipolari, che costituiscono prevalentemente i neuroni motori inglobati nel sistema efferente dove trasmettono impulsi dal centro verso la periferia;
    • neuroni bipolari, così chiamati perché innervano una sola cellula in opposti poli disponendo un sistema di trasmissione (sistema dendritico) e un sistema di ricezione (sistema assonico);
    • neuroni unipolari, costituenti la struttura delle radici posteriori dei nervi spinali, possiedono solamente un breve prolungamento biforcato. La caratteristica delle cellule funicolari è solo di funzione sensitiva.

    Ogni singolo neurone potrebbe essere visto come una microscopica rete governata dalle istruzioni genetiche che essa stessa contiene.

    I neuroni possono comunicare con le altre cellule tramite le sinapsi. Le informazioni non si trovano tanto nelle cellule (neuroni) quanto fra le sinapsi (figura a sinistra).

    E’ da ricordare anche la presenza delle cellule gliali, particolari cellule in grado di nutrire, ossigenare e “ripulire” i neuroni, garantendo loro un’elevata efficienza. Esse, regolano inoltre la velocità, ricoprendoli di mielina, una sostanza grassa e biancastra che ne “amplifica il segnale”.

    Sopra potete osservare dei neuroni che, in vitro, creano delle connessioni.

    Per ulteriori approfondimenti vi rimandiamo ai libri di testo citati fra le referenze in fondo alla pagina.

    Grazie per l’attenzione.


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    Bibliografia

    Weineck J. – Biologia dello sport (Calzetti Mariucci, 2013)
    Urso A. – Le basi dell’allenamento sportivo (Calzetti Mariucci; 2a ediz., 2013)
    Magrini M. – Cervello, manuale dell’utente (Giunti Editore, 2017)