Quello di cui andremo a parlare oggi riguarda uno studio che ha preso in esame tre tipi di trazioni, analizzando le differenze nell’attivazione muscolare (misurate tramite elettromiografie, EMG) [1].
Avevamo giù trattato l’argomento in un episodio del nostro Podcast, prendendo spunto da un post di Alessio Ferlito. Ma ora veniamo a noi… (altro…)
Per evitare che vada perso, consiglio caldamente a tutti di visionare questo interessantissimo video creato da Domenico Aversano (Skeptical Dragoon) che mostra con semplicità, attraverso degli esempi pratici, tutti i movimenti dell’omero sui vari piani di movimento. Buona visione!
Per approfondimenti sui piani di movimento, ritmo scapolo-omerale ed ossa vi rimandiamo ai soliti articoli:
La colonna vertebrale è una complessa struttura osteofibrocartilaginosa, molto resistente e fondamentale per il movimento umano. Nelle prossime righe parleremo della sua osteologia e delle principali patologie che la riguardano. Ricordiamo tuttavia, che quella che segue è libera informazione, per delle consulenze bisogna rivolgersi alle opportune figure mediche di competenza.
Colonna vertebrale: quello che c’è da sapere
Questa complessa struttura osteofibrocartilaginosa è molto estesa, va dal capo al coccige. Ha una lunghezza media di 70 cm per gli uomini e di 60 cm per le donne. La colonna vertebrale consta di cinque regioni, le quali hanno un numero variabile di vertebre (ossa che costituiscono appunto la colonna), che in totale è di 33. Le regioni sono le seguenti:
Regione cervicale: consta di sette vertebre (C1,2,3,4,5,6,7), le prime due, più famose, sono l’atlas (C1) e l’axis (C2). La regione cervicale regge la testa e permette al collo una grande escursione articolare.
Regione dorsale(o toracica): è formata da dodici vertebre (T1-12), è la regione più ampia di tutta la colonna vertebrale, inoltre, unendosi alle costole forma la cassa toracica. Questo tratto possiede una rigidità elevata per evitare movimenti, specialmente flessioni, troppo bruschi e pericolosi.
Regione lombare: composta da cinque vertebre (L1-5), la sua struttura è particolarmente robusta e mobile.
Regione sacrale: consiste in un unico osso composto dalla fusione di cinque vertebre.
Regione coccigea: osso formato dalla fusione di quattro-cinque vertebre.
Alcune delle principale funzioni della colonna vertebrale sono le seguenti: supporto e protezione del sistema nervoso centrale e periferico, sostegno strutturale, stabilità e protezione degli organi interni.
Le vertebre sono connesse mediante un disco fibrocartilaginoso, forte ed elastico, il quale fa da ammortizzatore e permette un certo movimento. Questo disco è chiamato disco intervertebrale.
Prima di passare alle patologie ci sono un alcune piccole cose da far notare riguardo alle innumerevoli “curvature” della colonna vertebrale.
Se osservata lateralmente, saltano all’occhio le due convessità posteriori, dette cifosi e le due convessità anteriori: le lordosi. Rientrano nel primo gruppo la zona toracica e sacrale, sono invece delle lordosi la zona cervicale e quella lombare. Questa alternanza di curve, fa sì che la colonna vertebrale sia piuttosto mobile e resistente, garantendo l’equilibrio in posizione eretta. Le lordosi permettono gradi di movimento molto maggiori rispetto alle cifosi, specialmente la regione lombare, la quale ha una curvatura un po’ più marcata. Nella figura a sinistra, si può osservare come un curvatura eccessiva (iperlordosi, ipercifosi) anche di una sola regione, alteri inevitabilmente anche gli altri tratti della colonna (linea gialla). Queste curve, oltre ad influenzare postura e movimento, interferiscono nello sviluppo muscolare. Ma questo di questo ne parleremo meglio nelle prossime righe.
Principali patologie
Senza tirarla troppo per le lunghe, le principali patologie della colonna vertebrale sono tre: scoliosi, cifosi e lordosi.
Scoliosi: è una deviazione della colonna vertebrale (laterale e di rotazione) che interessa sia la regione dorsale che quella lombare, anche se spesso è più evidente nella prima. Esistono più tipi di scoliosi, i quali si possono classificare nel seguente modo:
Scoliosi congenita, derivante da anomalie vertebrali presenti alla nascita.
Scoliosi idiopatica (o dell’adolescenza), non è ancora stata individuata la causa, si sa solo che è spesso ereditaria e che colpisce soprattutto il sesso femminile. A seconda dell’età in cui si manifesta può essere a sua volta sub-classificata nel seguente modo: infantile (dalla nascita fino ai 3 anni di età), giovanile (dai 4 ai 9 anni) e adolescenziale (dai 10 anni fino al termine della maturazione scheletrica) o adulta.
Scoliosi neuromuscolare, si sviluppa come sintomo secondario di altre patologie (paralisi cerebrale, atrofia muscolare o traumi fisici).
Cifosi: la normale cifosi è la curvatura fisiologica della regione dorsale. Quando però l’angolo della cifosi supera i 45° si parla di ipercifosi (figura sotto).
A sinistra la colonna vertebrale di una persona affetta da ipercifosi (angolo di 45°) e, a destra, una colonna con una cifosi fisiologica.
La cifosi, se accentuata, può suddividersi nella seguente maniera:
Cifosi posturale, è la più diffusa ed è attribuita alle posture sbagliate assunte durante la vita quotidiana. Raramente provoca dolore o causa particolari problemi.
Cifosi di Scheuermann, la causa è sconosciuta, questa forma di cifosi può causare dolore, specialmente nell’apice della curva. Se non trattata correttamente, con l’attività fisica può anche peggiorare.
Cifosi congenita, alla nascita la colonna vertebrale presenta dei problemi strutturali e quindi, mano a mano che il bambino si sviluppa, si forma una cifosi sempre più accentuata.
Lordosi: è la curvatura fisiologica della colonna vertebrale all’altezza della regione cervicale e lombare. Quando la lordosi tende ad appiattirsi si parla di ipolordosi, al contrario, quando la curvatura aumenta si parla di iperlordosi. Siamo davanti ad una iperlordosi quando l’angolo di curvatura è superiore ai 40-50° (una lordosi normale ha un angolo di 35°). Tra l’altro, chi ha molto a che fare con alcune discipline sportive può arrivare a soffrire proprio di quest’ultima patologia, per esempio i pesisti.
Abituarsi ad assumere posture errate e squilibri muscolari possono portare alle due patologie precedentemente citate (ad esempio addome e glutei deboli), specialmente nel genere femminile. Una lordosi cervicale non fisiologica modifica il centro di gravità del cranio e porta ad un sovraccarico muscolare e articolare, tutto ciò causa problemi meccanico-cervicali.
Nella foto sopra, a sinistra una postura corretta, con delle curve assolutamente fisiologiche e a destra un soggetto affetto da ipercifosi ed iperlordosi.
Tuttavia, anche una scarsa lordosi può portare a problematiche di vario genere. Ad esempio, una recente revisione sistematica/meta-analisi [1], molto nota in letteratura scientifica, ha messo a confronto tredici studi sui dolori alla bassa schiena e la postura, analizzando quasi 2000 pazienti (796 pazienti con dolori lombari e 927 sani). Per farla breve, i pazienti sani avevano tutti una maggior lordosi e fra quelli patologici, con la schiena più “piatta”, c’era un’elevata percentuale di soggetti affetti da ernie del disco e degenerazioni discali. Per maggiori informazioni potrebbe essere utile la lettura di quest’altro articolo.
Influenza sullo sviluppo muscolare
Una colonna vertebrale affetta da patologie, come è facilmente intuibile, può compromettere un buono sviluppo della muscolatura del tronco.
Per esempio, un soggetto con una cifosi dorsale particolarmente accentuata e spalle anteposte (o chiuse) può avere difficoltà a lavorare con i pettorali e, per i movimenti di spinta, utilizzerà soprattutto i deltoidi. Oppure una persona con una zona lombare piatta (ipolordosi), avrà per forza di cose uno sviluppo dei glutei molto limitato.
Dispense Universidad de Almería (Ciencia de la actividad fisica y del deporte) Segina M., Pansini L. – Lordosi lombare e mal di schiena: qual è la verità? (2017) 1 Chun S. W. et al. – The relationships between low back pain and lumbar lordosis: a systematic review and meta-analysis (2017)
Benché non occorra essere per forza dei geni in anatomia per allenarsi correttamente, è indubbiamente utile avere nel proprio bagaglio teorico un po’ di nozioni riguardanti almeno i gruppi muscolari più grandi. Buona lettura!
Cenni anatomici sui muscoli pettorali
I muscoli del petto possiamo suddividerli in grande pettorale e piccolo pettorale. L’inserzione del gran pettorale è a livello della cresta e della grande tuberosità dell’omero. Agisce a livello della articolazione scapolo omerale generando abduzione e rotazione della articolazione; è inoltre capace di sollevare il tronco in una azione inspiratoria accessoria.
A sua volta, il gran pettorale è diviso in tre capi:
Clavicolare: si origina dal margine anteriore della clavicola
Sterno-costale: che origina dalla faccia anteriore dello sterno e dalle cartilagini costali (dalla seconda a sesta)
Addominale: che origina dalla parte superiore della lamina anteriore.
Questi tre capi si uniscono in un’unica inserzione omero, sulla cresta del tubercolo maggiore.
Il piccolo pettorale invece, si origina con tre fasci distinti sulla terza, quarta e quinta costola, si inserisce a livello del processo coracoideo della scapola (si tratta di un’altra struttura scapolare mediale all’acromion). La sua funzione principale è quella di abbassare la spalla e sollevare le coste, si tratta pertanto di un muscolo inspiratorio.
Un po’ di muscoli della parte alta del corpo
Quando andiamo a sforzare il petto in un qualsiasi esercizio, inevitabilmente interverranno anche il capo anteriore del deltoide, il tricipite, il gran dentato ed il subclavio. Quando tutto questo insieme di muscoli lavora, inevitabilmente agisce su due grandi strutture articolari: il cinto scapolare (scapola e clavicola) e l’omero.
Biomeccanica di base
In letteratura scientifica è ormai assodato che il gran pettorale abbia all’incirca 42% di fibre muscolari rosse (tipo I) ed il 58% di fibre bianche (tipo II) [1]. La sua funzione principale è quella di addurre e abdurre l’omero, abbassarlo, fletterlo orizzontalmente, intraruotarlo, collocarlo in una posizione di anteposizione e realizzare una flessione sagittale dell’omero.
Illustrazione di alcune delle funzioni del gran pettorale: a = anteposizione dell’omero; b = abbassamento; c = adduzione e abduzione; d = adduzione sul piano sagittale; e = anteposizione (fino a circa 60°); f = intrarotazione; g = flessione orizzontale.
Il piccolo pettorale invece, ha una diversa distribuzione di fibre muscolari: 51% rosse (I) e 49% rapide (II). Le sue funzioni sono in primo luogo il far eseguire delle flessioni orizzontali dell’omero, mettere sempre quest’ultimo in anteposizione, abbassarlo ed estendere le scapole.
Illustrazione di alcune funzioni del piccolo pettorale: a = abbassamento dell’omero; b = anteposizione.
Il deltoide anteriore ha indicativamente un 60% circa di fibre rosse (I) e un 40% di fibre bianche (II). Le sue funzioni più importanti sono quelle di flettere orizzontalmente l’omero e di extraruotarlo.
Il tricipite ha all’incirca il 60% di fibre rosse (I) ed il 40% di fibre bianche (II). Presenta tre capi (lungo, laterale e mediale) ed esercita la sua azione sull’articolazione scapolo-omerale, adducendo ed estendendo l’omero, e l’articolazione del gomito, estendendo l’avambraccio sul braccio.
Il gran dentato ha un grosso predominio di fibre rosse (I), come funzioni base garantisce una flessione orizzontale dell’omero, una sua flessione sagittale, una abduzione scapolare e una rotazione esterna delle scapole.
Il succlavio, come il gran dentato, è composto per lo più da fibre rosse (I) e la sua funzione di maggior importanza è quella di abbassare la clavicola.
Tutte queste nozioni ci serviranno ora per andare ad analizzare i principali esercizi per il petto e per valutare quali possono essere i migliori e perchè.
Breve analisi degli esercizi
Dopo aver osservato le funzioni dei muscoli sui vari piani di movimento, possiamo arrivare a capire che per far lavorare al meglio i pettorali, dobbiamo muovere dei carichi con movimenti di spinta (es. distensioni su panca) e di apertura (es. croci).
Distensioni su panca piana: quando andiamo a eseguire delle distensioni su panca piana, i muscoli che intervengono sono principalmente il grande e piccolo pettorale, il capo anteriore del deltoide ed i tricipiti anche se a voler essere pignoli, i muscoli coinvolti in questo esercizio sono infinitamente di più, la mia è una semplificazione. Nell’esecuzione della panca, l’alternarsi di fase concentrica ed eccentrica, fa addurre ed abdurre il petto. Inoltre la distensione delle braccia garantisce un marcato lavoro del tricipite.
Nella panca piana con bilanciere una presa molto larga diminuisce il range di movimento complessivo, il gomito scende poco sotto la testa dell’omero (scarsa adduzione-abduzione del pettorale) e i tricipiti lavorano meno (ridotto piegamento delle braccia). Viceversa, una presa più stretta aumenta il lavoro dei pettorali (maggior adduzione-abduzione) e coinvolge maggiormente i tricipiti (aumenta il piegamento delle braccia). Pertanto non esiste un soluzione al problema dei tricipiti “rubano” il lavoro al petto, poiché i muscoli lavoreranno molto in entrami i casi. Indipendentemente dalla larghezza della presa, l’esecuzione con bilanciere avrà sempre e comunque un rom (range di movimento) ridotto rispetto a quella con manubri (foto sotto). Inoltre, l’instabilità data dai manubri può aiutare le persone nella propriocezione muscolare, fattore fondamentale per un’ottimale crescita. Di contro però, con il bilanciere, nel tempo, sarà più facile aumentare il sovraccarico (anche se questo è un concetto più per atleti avanzati).
Prima di passare al prossimo esercizio, è bene ricordare un’ultima cosa sulla panca piana: questo, più di altri, non è un esercizio per tutti.
Un soggetto con leve favorevoli (cassa toracica grande, angolo fra sterno e testa omero ampio e linea di trazione del pettorale quasi verticale) riuscirà a sviluppare più forza e ad ottenere una risposta ipertrofica maggiore rispetto a soggetti più gracili e longilinei (illustrazione sotto).
Distensioni su panca inclinata: negli anni se ne sono dette di tutti i colori su di essa, ma attualmente grazie a dei progressi nella letteratura scientifica [2,3], si è scoperto un discreto vantaggio nell’utilizzo di questo esercizio, rispetto alle classiche distensioni in piano, almeno quanto riguarda il reclutamento dei fasci clavicolari (la banale “parte alta” del petto).
Come mostrato nel grafico riportato sopra, i vantaggi ci sono unicamente dai 45° in su, inclinazioni minori della panca stimolano troppo poco questi fasci muscolari.
Distensioni su panca declinata: ottimo esercizio per reclutare tutte le fibre dei muscoli pettorali, è l’esercizio in cui generalmente si carica di più, garantisce quindi un’elevata tensione meccanica nei nostri allenamenti (fattore chiave dell’ipertrofia muscolare).
Dips alle parallele: i dips, o distensioni alla parallele, non si è mai capito se siano più utili allo sviluppo dei pettorali o dei tricipiti. Osservando le nozioni fornite nel precedente paragrafo, possiamo intuire il coinvolgimento del tricipite a causa dell’estensione dell’avambraccio sul braccio (anche se in questo caso sarebbe più appropriato parlare di distensione, dato che le mani si trovano in appoggio su una sbarra). Riguardo al petto invece, il gran pettorale interviene anche’esso nella fase concentrica, essendo un flessore del braccio (con i fasci superiori o clavicolari).
Esistono in realtà due versioni di questo stesso esercizio: le distensioni classiche, con presa stretta e busto piuttosto verticale e le chest dips, con la presa un po’ più larga ed il busto più inclinato in avanti (a voler quasi simulare una panca declinata). In linea del tutto teorica, quelle classiche stimolano soprattutto i fasci clavicolari del gran pettorale, perchè impongono una flessione della spalla da posizione iperestesa. Le chest dips invece, fanno lavorare i fasci inferiori del gran pettorale a causa del movimento di adduzione della spalla.
A voler essere puntigliosi, un vecchio studio tedesco [4] dimostra come scendere oltre l’angolo di 90° nelle dips normali, testa dell’omero che va sotto il gomito, faccia calare l’attivazione del tricipite in maniera abbastanza significativa (-12%), nelle distensioni con presa più larga invece, le chest dips, il calo è molto minore (-3%).
Va infine sottolineato che il materiale scientifico per valutare l’attività elettriomiografica (EMG) dei pettorali nelle distensioni alla parallele è veramente pochissimo. Abbiamo a disposizione un solo studio più o meno attendibile [5], il quale ha evidenziato una marcata attivazione dei fasci inferiori ma purtroppo non specifica nè l’ampiezza della presa, nè l’inclinazione del busto. Va infine aggiunto che le analisi tramite EMG hanno dei palesi limiti.
Croci e aperture ai cavi: sono dei validi esercizi perchè consistono in delle flessioni orizzontali dell’omero. Ripassando quanto detto a inizio articolo, si capisce l’utilità di questi esercizi nell’andare a colpire muscoli come il grande pettorale, piccolo pettorale e deltoide anteriore. Non permettono di caricare molto peso, quindi non vengono scelti come esercizio principale per il petto e con essi si opta per ripetizioni medio-alte. Inoltre, nell’esecuzione con manubri, l’andare ad intraruotare l’omero una volta giunti verso la fine della fase concentrica può essere uno stimolo in più per il muscolo target (gran pettorale). Al contrario, un extrarotazione aumenterebbe solo lo stress al capo anteriore del deltoide.
Nelle croci con manubri, la massima tensione è data dalla forza di gravità, infatti quando l’omero è parallelo al suolo (figura sotto), quindi all’inizio della contrazione concentrica, la tensione è massima. Mentre è prossima allo zero, se i due manubri si trovano in alto, vicini, perpendicolari al suolo (al termine della fase concentrica).
Discorso invece diverso se si opta per la variante ai cavi (fig. sotto), in essa c’è una resistenza data dai cavi “che tirano”, la quale garantirà un coinvolgimento del gran pettorale anche al termine della fase concentrica. Per evitare “pause” durante la contrazione, potrebbe essere sensato preferire le croci ai cavi a quelle con i classici manubri, oppure utilizzare sempre i manubri ma effettuare delle ripetizioni parziali (ROM incompleto).
Dopo tutta questa pappardella risulta chiaro come il voler isolare singole parti del petto, sogno di molti palestrati, sia pura fantascienza e che, a seconda di leve e di altre caratteristiche ereditate geneticamente, certi esercizi non siano ottimali per tutti. L’allenamento va programmato, periodizzato e deve essere necessariamente individualizzato, anche se esistono delle “regole” anatomiche e fisiologiche comuni un po’ a tutti, le quali devono essere rispettate.
Kapandji I. A. – Fisiologia articolare(Monduzzi; 7a ediz., 2007) Beraldo S. – Allenamento muscoli pettorali (2016) Nick Evans – Bodybuilding Anatomy(Calzetti Mariucci, 2008) 1 Bosco C. – La forza muscolare. Aspetti fisiologici ed applicazioni pratiche(Società Stampa Sportiva; 2a ediz., 2002) 2 Trebs et al. – An electromyography analysis of 3 muscles surrounding the shoulder joint during the performance of chest press at several angles (2010) 3 Luczak et al. – Shoulder muscle activation of novice and resistance trained women during variations of dumbbell press exercise (2013) 4 Boeckh-Behrens W. et al. – Fitness-Krafttraining:die besten Übungen und Methoden für Sport und Gesundheit (2000) 5 Contreras B. – Inside the Muscles: Best Chest and Triceps Exercises (2010)